Avvocati
di Antonella Meniconi
Gli avvocati furono la prima professione liberale a essere regolata dal nuovo Stato italiano, con la legge n. 1938 dell’8 giugno 1874. Il processo di elaborazione iniziato nel 1866 fu assai lungo e complesso, così come il superamento di quella congerie di organismi presenti nei diversi Stati preunitari, con il nome di Ordini, Collegi, Camere di disciplina, che fino ad allora aveva contraddistinto la professione forense.
L’ordinamento del 1874 (destinato a una lunga vigenza) costituì il tentativo dello Stato unitario di «nazionalizzare» gli Ordini professionali, vale a dire di eliminare i particolarismi e uniformare il funzionamento delle singole realtà locali. In effetti, si potrebbe anche spiegare la normativa ottocentesca con lo sforzo (comune in quegli anni ad altre coeve legislazioni di settore) di operare un controllo su corpi intermedi della società com’erano gli Ordini professionali, dotandoli di autonomia propria (requisito che prima non possedevano), ma, al tempo stesso, inserendoli nel circuito dell’ordinamento statale da cui fino ad allora erano stati esclusi.
In pratica, la legge del 1874, a lungo invocata dagli stessi avvocati – da ultimo anche nella sede prestigiosa del I Congresso giuridico nazionale che riunì per la prima volta nel 1872, a Roma, i professionisti forensi provenienti da tutta la penisola – previde regole certe e unitarie per l’ammissione all’esercizio della professione e sanzioni per i comportamenti deontologicamente non corretti (da comminare da parte degli stessi Ordini). Al tempo stesso, furono però salvaguardate le posizioni di coloro che, ad esempio, esercitavano la professione forense senza essere laureati (come era stato possibile in alcuni Stati preunitari, come i causidici, procuratori capi o patrocinatori nel Napoletano o nel Lombardo-Veneto) o insieme a uffici pubblici (fu loro imposto un termine per optare per uno dei due percorsi). In generale, il nuovo sistema ripropose la suddivisione propria dell’ordinamento sabaudo (di derivazione francese e presente, peraltro, anche nel Regno Unito) tra procuratore, incaricato della rappresentanza (oltre che funzionario pubblico, ma non necessariamente laureato), e avvocato, «alfiere» della difesa (in possesso del requisito della laurea). Nel primo ordinamento italiano prevalse il criterio della distinzione tra le due professioni, ma si ammise – in ottemperanza alle tradizioni locali preunitarie, come il Lombardo-Veneto, il Napoletano e la Sicilia, in cui prevaleva l’unità della professione – il cumulo dei due incarichi nella stessa persona e per la stessa causa. Inoltre, dopo dieci anni di esercizio, i procuratori laureati potevano divenire avvocati.
Ma, aldilà della normativa, gli avvocati ricoprirono senz’altro un ruolo fondamentale sia nella formazione dello Stato unitario (con la forte partecipazione alle lotte risorgimentali), sia in tutto il periodo liberale. Il Parlamento (e di lì lo stesso governo) costituiva il traguardo del cursus honorum dell’avvocato liberale, il cui presupposto era la fama conquistata come professionista, in genere alimentata dall’impegno in processi o consulenze di rilievo. E proprio dalla professione si dipanava la rete del consenso individuale costruita a partire dalla clientela nella propria città, intessuta di fitti rapporti con l’amministrazione locale (di cui spesso gli avvocati diventavano esponenti di primo piano) e periferica dello Stato, nonché con i Ministeri della Capitale. Era stato questo il cammino percorso da molti professionisti: come, ad esempio, Giuseppe Zanardelli, ministro della Giustizia e autore del primo codice penale italiano nel 1888 (entrato in vigore nel 1890), che aveva abolito la pena di morte, o Agostino Berenini, ministro della Pubblica istruzione nel governo di Vittorio Emanuele Orlando (anch’egli, peraltro, oltre che noto giurista, avvocato) del 1917-1919 o, ancora, Arturo Vecchini, dapprima consigliere comunale di Ancona, deputato dal 1891 per soli cinque anni, ma professionista di grido, la cui carriera professionale coincise con una lunga sequela di processi «celebri» (da quello Murri a quello della contessa Maria Tarnowska del prino Novecento).
Inoltre, proprio il ruolo di rappresentanza in senso ampio (non solo processuale dunque, ma in generale del «cliente») che la classe forense era andata ricoprendo nella società italiana aveva spinto naturalmente gli avvocati a essere così presenti nella politica, al punto che – come Aldo Mazzacane ha sottolineato – il giurista dell’età liberale per definizione era «avvocato e parlamentare». In particolare nel Mezzogiorno (ma il fenomeno ebbe dimensioni nazionali), la professione forense si concretizzò, per un lungo periodo dopo l’Unità d’Italia, come opera di mediazione tra il nuovo Stato e la società meridionale, con i suoi interessi. L’espressione «mediazione» racchiude in modo efficace l’essenza stessa della professione forense in quegli anni. Antonio Gramsci, occupandosi della questione degli intellettuali di provenienza rurale, tra cui espressamente elencava gli avvocati nelle campagne e nei piccoli centri, avrebbe descritto questi professionisti come il trait d’union tra le masse contadine e l’amministrazione pubblica, statale o locale. Questo tipo di intellettuale avrebbe avuto «una grande funzione politico-sociale, perché la mediazione professionale è difficilmente scindibile da quella politica» [Gramsci 19752, vol. III, pp. 1520-1521].
La percentuale degli avvocati eletti alla Camera dei deputati – al netto di una doverosa scrematura di quanti si fregiavano solo del titolo senza esercitare la professione – sfiorò nell’età liberale la considerevole percentuale della metà dei componenti, passando dal 41,9 del 1882 al 52 per cento del 1913, fino al 43,7 per cento nel 1919. Infatti, alle prime elezioni che videro l’applicazione del nuovo sistema proporzionale e l’apparire dei partiti di massa, la figura dell’avvocato-notabile subì evidentemente un primo, leggero, ridimensionamento. Nelle legislature di passaggio verso il pieno affermarsi del fascismo, il dato quantitativo non mutò peraltro nel modo decisivo che ci si sarebbe potuti attendere. La presenza dei professionisti forensi, rimasta al 42,62 per cento anche nelle elezioni del 1924, cominciò però a declinare inesorabilmente al consolidarsi della dittatura.
Il fascismo fin dall’inizio riconobbe nell’avvocatura il «fossile sociale» (queste le parole di Sergio Panunzio nel 1936) che andava cancellato, ma, allo stesso tempo, si sviluppò una sorta di compromesso con una parte di essa, che di fatto aderì ai principi ispiratori del regime.
In questo modo può spiegarsi allora la sorta di «preferenza» manifestata dal fascismo per questa professione rispetto alle altre. La prima legge in materia di professioni «liberali» (poi l’aggettivo sarebbe, per ovvie ragioni, caduto) fu quella sull’ordinamento forense (l. n. 453 del 25 marzo 1926), definita dallo stesso ministro della Giustizia Alfredo Rocco la «meno fascista» delle leggi, in risposta alle critiche sul carattere autoritario della proposta. Con le nuove norme, fu introdotto l’esame di Stato per l’accesso all’esercizio dell’avvocatura e istituito un organo centrale di governo dell’avvocatura, il Consiglio superiore forense. Nel 1933 (r. d. l. n. 1578 del 27 novembre 1933) seguì la soppressione degli Ordini degli avvocati e dei procuratori (sempre i primi; gli altri avrebbero seguito) con le loro funzioni attribuite ai sindacati forensi fascisti, ma già nel 1928 erano state istituite – al posto dei Consigli dell’ordine – le Commissioni reali per procedere alla revisione degli albi professionali e all’eliminazione dei cosiddetti elementi «antinazionali». Ancora, la classe forense funse da modello per le successive leggi in materia di professioni (per le quali la soppressione degli Ordini avvenne nel 1938), come era avvenuto con la legge del 1874 in epoca liberale.
Intanto, a partire dagli anni Venti e Trenta del ‘900 la natura stessa della professione mutò. Al modello ottocentesco dell’avvocato indipendente, e formatosi nelle aule di tribunale esercitando l’arte oratoria, si andò sostituendo una nuova figura di professionista ormai «dipendente» dagli uffici legali di enti pubblici e privati, il cui numero crebbe in modo tumultuoso soprattutto al Nord. Anche i nuovi politici-avvocati, spesso eredi di professionisti del passato (come Aldo Vecchini, figlio di Arturo, a lungo segretario del Sindacato nazionale fascista degli avvocati), furono espressione di un diverso cursus honorum, con una più opaca commistione con il mondo degli affari e del nuovo «parastato».
Su alcune questioni di «lungo periodo» per l’avvocatura, si evidenziò poi una continuità tra i vecchi Consigli dell’ordine e i sindacati fascisti, ad esempio nella tendenza corporativa alla chiusura degli albi nei confronti dei giovani procuratori (con l’introduzione del numero chiuso nel 1926) o nel compimento di alcuni obiettivi che, da sempre, la «classe forense» si era posta (come l’istituzione dell’Ente di previdenza nel 1933). D’altro canto, propriamente «fascista» fu l’attribuzione del valore di requisito per diventare avvocato all’appartenenza al Partito (o in generale al possesso delle «onorificenze fasciste»). Anche per questo motivo le aule dei tribunali si popolarono di avvocati inetti, ma in camicia nera, che affiancavano – allo scopo non tanto velato di intimidire i giudici – i «veri» professionisti incaricati della difesa tecnica.
Tra il 1939 e il 1940 il Sindacato nazionale fascista degli avvocati perseguì con estrema durezza l’applicazione delle leggi razziali, espellendo dagli albi gli avvocati classificati «di razza ebraica», mentre il Consiglio superiore forense, composto peraltro anche da insigni giuristi di stampo liberale, non si oppose, approvando di fatto l’operato dell’organo sindacale.
Alla fine della dittatura, l’antifascista Piero Calamandrei (commissario del sindacato nel 1943, poi, dal 1946 al 1956, presidente del Consiglio nazionale forense) avrebbe governato la difficile fase del ritorno alla democrazia con la ricostituzione degli Ordini degli avvocati (prevista nel 1944).
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