Azione (Partito d’)
di Luca Polese Remaggi
Il progetto politico di rivoluzione democratica, che ha animato la breve stagione del Partito d’azione, è difficile da definire, dal momento che fino dagli esordi ciascuna corrente interna intese darne una versione diversa, spesso in contrasto con le altre. Tuttavia, un orizzonte condiviso dai membri del partito è esistito, realizzare cioè una discontinuità profonda nelle strutture dello Stato italiano, partendo dalla convinzione che dopo l’esperienza del fascismo, della guerra e della guerra civile, i democratici non potessero più richiamarsi al liberalismo prefascista, considerato infatti responsabile del ciclo storico aperto dall’avvento di Mussolini al potere. Pur variamente declinati, rivoluzione e democrazia costituirono dunque le parti di un discorso specificatamente azionista che ebbe la sua stagione gloriosa nella Resistenza, ma non riuscì a consolidarsi nel dopoguerra,in un contesto internazionale che rapidamente trascolorava dal lascito ideologico della guerra antifascista alla realtà della Guerra fredda.
Il progetto di un partito politico di sinistra che coinvolgesse diversi percorsi dell’antifascismo democraticofu avviato dal gruppo di Ugo La Malfa e Adolfo Tino a partire dal 1941, muovendo dall’idea che, diversamente da quanto era successo ai tempi della crisi aventiniana, i democratici dovessero adesso trovarsi pronti al momento della crisi del regime mussoliniano. Questa ispirazione amendoliana, combinata con una visione dirigistica dello sviluppo capitalistico maturata nei centri studi delle grandi banche e imprese, si amalgamò con diverse ispirazioni, in particolare quella proveniente dai gruppi di Giustizia e libertà e quella del movimento liberalsocialista. I primi, disseminati tra le carceri fasciste, la clandestinità e l’emigrazione, mantenevano in piedi non soltanto la prospettiva della conciliazione teorica tra socialismo e liberalismo, ma erano per lo più convinti interpreti del lascito politico-istituzionale dell’ultimo Rosselli, convinto che fosse necessario collaborare con i comunisti in vista della rivoluzione democratica italiana. In quest’ottica, Silvio Trentin firmò in Francia un accordo nel 1941 con socialisti e comunisti, a loro volta legati da un patto di unità d’azione. Quanto al liberalsocialismo, diffusosi soprattutto nell’Italia centrale a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, esso traeva i suoi fondamenti politici dalle sintesi filosofiche di derivazione attualistica del liberalsocialismo di Guido Calogero e dalle riflessioni eterodosse di Aldo Capitini. Convissero con queste tre anime il vario meridionalismo radicale di tradizione dorsiana e salveminiana, gruppi di derivazione repubblicana e gruppi combattentistici del primo dopoguerra che facevano riferimento alla figura di Ferruccio Parri. Infine, ebbe tra le file azioniste un suo spazio la tradizione culturale degli idealisti, distaccatisi sul terreno politico da Benedetto Croce, come Adolfo Omodeo e Guido De Ruggiero. Si trattava di un mondo vario di idee e progetti, che soltanto un grande sforzo di mediazione poteva amalgamare. Lo stesso programma ufficiale del partito, pubblicato sul giornale «L’Italia libera», costituì il frutto di una faticosa gestazione che da una origine liberal-democratica, con forti venature dirigistiche, portò a una rielaborazione in un senso più aperto alla sensibilità sociale dei gruppi di sinistra.
Le difficoltà iniziali passarono in secondo piano rispetto al progetto condiviso della discontinuità statale in direzione di una democrazia repubblicana, intesa come approdo istituzionale della battaglia politica e militare dell’antifascismo. Il convegno del Pd’a, tenutosi a Firenze ai primi di settembre 1943, fu un passo in questa direzione. Già dalla fine di quel mese, l’organizzazione del movimento clandestino nell’Italia del Centronord non poteva più prescindere dall’impegno degli azionisti e in particolare dalla figura di Parri, il quale aveva assunto, già all’indomani dell’8 settembre, un ruolo di guida nel Comando militare del Comitato di liberazione nazionale (Cln). Anche se il ruolo di Parri venne nel corso dei mesi ridimensionato, il Pd’a dette un contributo sostanzioso alla lotta armata, secondo soltanto a quello dei comunisti, con le formazioni partigiane di Giustizia e libertà. Nel Regno del sud gli azionisti dimostrarono di essere nello stesso periodo i più intransigenti nello scontro politico con la monarchia, aspirando a guidare le sinistre in una lotta che imponesse alle forze moderate dell’antifascismo la rottura nei confronti del vecchio Stato monarchico.
La strategia si scontrò fin da subito con l’investimento politico che i britannici avevano fatto sul governo regio guidato da Pietro Badoglio quale garante del regime armistiziale; una posizione che gli stessi statunitensi, pur aperti alla prospettiva di una democrazia repubblicana in Italia, dovevano tenere in considerazione. La speranza degli azionisti di ottenere dei ricavi politici dall’intransigenza istituzionale era fondata sulla convinzione che questa potesse sortire un duplice effetto: da un lato, metterli a capo delle sinistre socialista e comunista nella lotta contro la continuità dello Stato, dall’altro accreditare presso le forze moderate il proprio partito come la forza politica più responsabile della sinistra nel suo complesso in virtù del legame che il Pd’a aveva con le tradizioni risorgimentali; un legame che invece mancava quasi del tutto alle forze socialista e comunista. Da questo punto di vista, il progetto azionista può essere considerato una sorta di radicalismo nazionale che mirava a collocare il partito al centro del sistema del Cln e da lì giocare una partita per la trasformazione dello Stato italiano. La necessità di questa trasformazione affondava le radici in un determinato giudizio storico-politico, secondo cui la fine del fascismo doveva preludere alla rottura di norme, gruppi e istituzioni del passato liberale, responsabili di aver generato il fascismo. La strategia era costituzionalmente fragile, anche perché già a partire dall’agosto 1943 gli azionisti avevano rivelato scarsa capacità di insediamento territoriale e sindacale.
Le difficoltà dell’azionismo si accentuarono con la svolta di Salerno. Dietro la tregua istituzionale si profilava infatti il compromesso di Togliatti con la Dc di De Gasperi, che il leader comunista considerava l’interlocutore principale nel disegno di una democrazia fondata stabilmente sull’accordo tra i partiti di massa. In questo nuovo contesto, la crisi dell’azionismo deflagrò nel corso dell’estate successiva. Al congresso delle sezioni meridionali, tenutosi a Cosenza tra il 4 e il 7 agosto 1944, prevalse la tesi di Emilio Lussu per un partito «socialista, antitotalitario, autonomista e liberale». Sostenuto da una variegata maggioranza di meridionalisti dorsiani, liberalsocialisti e giellisti, il dirigente sardo aveva così rotto gli equilibri raggiunti il mese precedente dall’Esecutivo nazionale, non preoccupandosi peraltro di tradurre il successo ottenuto in una strategia politica efficace. L’iniziativa tornò così nelle mani dei suoi avversari. Tra essi, La Malfa progettò in vista delle elezioni per la Costituente la formazione di una concentrazione democratica con l’obbiettivo di staccare i socialisti di Nenni dai comunisti, e attrarli dunque all’interno di un’area politica impegnata nella battaglia democratica contro la continuità dello Stato, ossia il programma del moderatismo che era incarnato dal presidente del Consiglio Bonomi.
Mentre il dialogo con Nenni portò a un nulla di fatto, sul fronte della lotta armata, le cose non andavano meglio per gli azionisti. Gli accordi di dicembre firmati tra gli organi dirigenti della Resistenza e i vertici Alleati in Italia garantivano l’uscita dalla crisi dell’autunno, attraverso il riconoscimento formale e finanziamenti consistenti. Allo stesso tempo, tuttavia, tali accordi mettevano fine a ogni velleità autonomistica e rivoluzionaria. L’avvicinarsi della Liberazione colse il Pd’a in grandi difficoltà organizzative e strategiche. L’entusiasmo delle settimane precedenti il 25 aprile mal celava questa situazione. Nella confusa fase politica del post-liberazione, la candidatura di Ferruccio Parri a presidente del Consiglio nel giugno 1945, dopo che veti incrociati avevano bloccato quelle di Nenni e De Gasperi, fu accolta con scetticismo da parte dei dirigenti azionisti più avvertiti quali Valiani e La Malfa. Pur con qualche incertezza, Parri accettò, cercando fino dai primi passi di difendere il lascito fondamentale della Resistenza, ossia la ricostruzione dello Stato italiano a partire dai Comitati di liberazione nazionale, intesi come strumento di unità politica per la formazione della nazione democratica. Come Parri disse di fronte alla Consulta, suscitando la reazione veemente di Croce, lo Stato prefascista liberale non poteva essere definito uno Stato democratico. Parri non parlò mai nei pochi mesi del suo governo il linguaggio del radicalismo, auspicando anzi la fine degli episodi di giustizia sommaria, il ritorno alla libera iniziativa nelle imprese, il miglioramento dell’ordine pubblico e dell’amministrazione dello Stato. Tuttavia, la sua posizione finiva per scontrarsi con la realtà del processo politico in corso, caratterizzata dalla rapida marginalizzazione dei Cln nella ricostruzione dello Stato italiano, mentre i partiti di massa si avviavano a una nuova fase del confronto politico.
Chiusa la breve esperienza della guida del governo alla fine del novembre 1945, l’azionismo entrò in una crisi definitiva nel corso del primo congresso nazionale del partito, svoltosi a Roma tra il 4 e l’8 febbraio 1946. Le tensioni circa la natura del partito e la sua collocazione politica erano state contenute fino a quando la speranza di costruire una forza politica capace di imprimere il cambiamento istituzionale non venne definitivamente meno. Le strategie volte a ricostruire una qualche unità del partito fallirono, come quella del «taglio alle ali» pensata dalla segreteria uscente di Oronzo Reale, Vittorio Foa e Altiero Spinelli. Fallì anche l’aggregazione attorno alla figura di Parri di una maggioranza consistente, con il sostegno della corrente di centro di Riccardo Lombardi, chiusa ai socialisti di Lussu, ma aperta alla destra di La Malfa. Il risultato fu la vittoria di Lussu e De Martino, i quali, in accordo con i liberalsocialisti di Tristano Codignola, presero in mano le redini del partito. Fernando Schiavetti fu eletto segretario. Questa evoluzione rese inevitabile la scissione dei gruppi di destra, i quali, capeggiati da Parri e La Malfa, dettero vita al Movimento della democrazia repubblicana. Questa, fusasi con alcuni gruppi della sinistra liberale, si presentò alle elezioni del 2 giugno 1946, riuscendo a far eleggere Parri e La Malfa alla Costituente. Già a partire da settembre il movimento entrò nelle file del Partito repubblicano. Dal canto suo, il Pd’A proseguì la sua strada, attestandosi sulle posizioni autonomistiche di Foa e Lombardi. Al magro risultato ottenuto alle amministrative della primavera e alle elezioni politiche del 2 giugno (il Pd’A riuscì a mandare alla Costituente soltanto sette deputati più due sardisti), seguì una strategia politica basata sulla contrapposizione frontale al «trasformismo» del governo tripartito, con il risultato di isolare sempre più l’azionismo.
La storia dell’ultimo anno di vita del Pd’a, il 1947, coincise con il tentativo di rompere questo isolamento, avvicinandosi al neonato Psli di Giuseppe Saragat sul terreno dell’autonomia del socialismo italiano. Le conclusioni del II congresso nazionale del partito, tenutosi a Roma tra il primo e il 4 aprile 1947, chiusero però le prospettive per un accordo con il Psli, avviando il gruppo dirigente azionista verso la fusione con il Psi. Il 20 ottobre 1947 il Consiglio nazionale approvò con 64 voti contro 29 la confluenza nel Psi. Finiva così anche giuridicamente il progetto di rivoluzione democratica.
Bibliografia
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