Banca
di Alfredo Gigliobianco e Claire Giordano
La banca non è un oggetto la cui fisionomia sia rimasta costante nel tempo. Nella loro lunga storia, le banche hanno di volta in volta fatto prestiti, raccolto fondi, operato in cambi, emesso banconote, prestato consulenze, gestito patrimoni, e molto altro. Critici agguerriti le hanno accusate di essere troppo potenti, troppo rapaci, troppo instabili, troppo segrete. Altri le hanno ritenute fattori importanti, addirittura essenziali dello sviluppo economico. La banca rappresenta quindi un’organizzazione interessante sia nel discorso economico che in quello politico. L’atteggiamento costante dei liberali in materia bancaria è stato minimalista: rifuggire dalle interpretazioni che tendevano a concentrare nella banca grandi aspettative o grandi colpe. Converrà, per iniziare, definire la banca secondo la moderna dottrina economica, sostanzialmente recepita nel diritto positivo italiano attuale e largamente compatibile con la concezione liberale dell’agire economico.
La banca è un’impresa che congiuntamente raccoglie risparmio ed eroga finanziamenti. Fornisce dunque un servizio di intermediazione finanziaria, che produce valore aggiunto nell’economia. La banca permette infatti di raccogliere le risorse delle unità in surplus, i risparmiatori, le famiglie, e di incanalarle verso le unità in deficit, gli investitori, le imprese. Difficilmente questo trasferimento avverrebbe senza l’ausilio di un tale intermediario. Infatti, un potenziale prestatore al quale venisse fatta una richiesta di credito non potrebbe conoscere tutte le caratteristiche rilevanti del richiedente, come affidabilità, competenza, rendimento potenziale dei progetti: il costo da sostenere per conoscere la controparte sarebbe troppo alto per un singolo. Specializzandosi nell’intermediazione di fondi tra controparti, le banche abbattono questo costo (in gergo economico: riducono l’asimmetria informativa). In quanto garantiscono un flusso di finanziamenti a investimenti produttivi, esse sono un fattore della crescita economica.
La banca svolge però anche un’altra attività importante: produce moneta. Così come le banche di emissione emettono banconote, le banche commerciali detengono depositi mobilizzabili con assegni, rilasciano carte di credito, carte di debito, e altri strumenti di pagamento. Contribuendo al funzionamento del sistema dei pagamenti, le banche creano un contesto favorevole alle transazioni e allo sviluppo economico. Il problema informativo del risparmiatore, tuttavia, non è definitivamente risolto dalla banca. Poiché gli interessi dei risparmiatori e dei dirigenti delle banche non necessariamente coincidono, i primi vorrebbero controllare l’operato dei secondi. Ma, di nuovo, un controllo di questo tipo, per essere efficace, sarebbe troppo dispendioso in termini di tempo e di risorse. Si crea così lo spazio per un intervento statale – la regolazione bancaria – che corregga l’inadeguatezza del meccanismo di mercato. Tutelando il depositante, ossia la parte più debole del contratto bancario, la regolazione rende possibile una serie di transazioni economiche che altrimenti non avrebbero luogo.
La regolazione bancaria serve anche a garantire la stabilità complessiva del sistema bancario. Il fallimento di una banca potrebbe infatti, in determinate condizioni, ripercuotersi su altri istituti finanziari e – come è avvenuto nel 1930 o nel 2008 – determinare un collasso del sistema finanziario, con effetti drammatici per l’economia reale. Dato questo rischio sistemico, la regolazione bancaria si pone come obiettivo la stabilità non solo di ogni singola banca ma anche del sistema bancario nel suo complesso. Ovviamente, la regolazione bancaria ha un costo. Non si tratta soltanto di pagare i controllori, ma anche di imporre alle banche determinati compiti a volte gravosi (per esempio la raccolta di informazioni per l’autorità di vigilanza); si tratta infine, questo è il punto più importante, di limitare l’azione delle banche in modi che possono avere effetti negativi sulla loro profittabilità, sullo stesso contributo che esse danno – attraverso le loro operazioni – alla crescita economica.
Gli economisti, dall’inizio o quasi della loro professione, hanno riflettuto sulla funzione delle banche e sulla opportunità o meno di sottoporle a controlli. Alcuni di essi – fra i primi a esporre l’idea fu Henri de Saint-Simon, preceduto in qualche misura da John Law – hanno ritenuto che le banche non fossero semplicemente «uno» dei fattori dello sviluppo, ma la via maestra per raggiungere quel fine: la messa a disposizione del credito e il governo del credito da parte delle banche, fossero esse banche di emissione o commerciali, assumeva un ruolo centrale nell’attività economica. In tale visione, le banche erano sostanzialmente equiparate a organismi pubblici. Facile immaginare come l’idea, per quanto seria nella sua concezione, accendesse l’immaginazione ed eccitasse le richieste di ogni genere di persone, gruppi, associazioni e partiti, poco propensi a considerare eventuali effetti negativi di una eccessiva erogazione di credito. È possibile far risalire a questo filone, sebbene con rielaborazioni importanti e profonde, il pensiero di Joseph Schumpeter (le banche determinano la direzione dell’innovazione e quindi dello sviluppo), e poi di Rudolf Hilferding (attraverso le banche si può dominare l’economia). I liberali italiani – in sintonia con i loro colleghi di altri Paesi – di fronte a queste posizioni ottimistiche o totalizzanti cercarono di gettare acqua sul fuoco. Al di sotto delle varie argomentazioni tecniche da loro proposte nel dibattito si discerne un elemento unificante: la sottolineatura della responsabilità individuale, e quindi il rifiuto di uno schema «organizzato», o per altri versi oligarchico, di sviluppo. Ne è conseguita la costante preferenza per un sistema bancario privato.
Francesco Ferrara, il quale pure non negava l’importanza del contributo del credito all’attività economica, fu uno dei primi, in Italia, a esprimere diffidenza per le salvifiche funzioni della banca. In un suo saggio del 1856, egli ridimensionò alquanto le aspettative connesse alle nascenti società di credito mobiliare (create appunto nel milieu ideologico saint-simoniano): «ciò che avvi di nuovo è [solo] il nome» [Ferrara 1856, pp. 605-606]. Definendo gli investimenti prodotti con il capitale del credito mobiliare come «ciò che si vede», egli argomentò che di fatto il capitale esisteva già nel sistema economico: semplicemente, esso sarebbe stato investito in operazioni diverse.
Maffeo Pantaleoni esplorò invece la banca dal lato del passivo, dei depositi. In un suo libro famoso dedicato alla crisi del Credito Mobiliare si interrogò sulla ragion d’essere della banca, e concluse che la banca esiste perché il risparmiatore (parliamo del risparmiatore medio e piccolo, non del grande capitalista) si trova nella impossibilità pratica di distribuire convenientemente il rischio fra numerosi impieghi, per l’ammontare troppo piccolo che ciascuno di quegli impieghi dovrebbe avere; perciò si affida alla banca, la quale assume, data la sua dimensione, la funzione di distributore del rischio fra molti agenti debitori. Il depositante, per Pantaleoni, è dominus, e il suo diritto di ritirare il denaro prestato non può mai, in nessuna circostanza (inclusi fini supposti pubblici), essere messo in discussione: ciò in polemica con i commentatori che gettavano la colpa dei fallimenti bancari sui depositanti che in massa si recavano a chiedere il rimborso dei propri depositi.
Esploriamo ora un po’ più approfonditamente la funzione creditizia della banca, cioè, di nuovo, il lato attivo del suo bilancio. Abbiamo accennato allo scetticismo di Ferrara nei confronti delle rivendicazioni della scuola di Saint-Simon. Ancor più riduttivo fu Antonio de Viti de Marco, il quale arrivò a sostenere che la funzione della banca (questo era anche il titolo della sua opera, completata nel 1934) non sta essenzialmente nella sfera del credito, bensì in quella del sistema dei pagamenti. Secondo de Viti de Marco la banca, scontando cambiali commerciali, non fa che sostituire il proprio credito a un credito già esistente, quello fatto dal venditore della merce all’acquirente. Pertanto essa va vista come un facilitatore delle transazioni e delle compensazioni, non principalmente come un soggetto che rende possibili gli investimenti. Se si considera che al tempo dello scritto di de Viti lo sconto cambiario era ormai ridotto a meno di un terzo del credito bancario, si deve concludere che la visione dell’economista pugliese era più normativa che descrittiva. Collocando la banca in una posizione distante dalla struttura materiale della produzione, egli cercava di rescindere il nesso, già allora evidente, fra depositi e investimenti (l’essenza stessa della banca mista o universale), mettendo così al riparo il mercato monetario dalle scosse che potevano derivare dagli eventuali disequilibri del mercato dei beni. A ben vedere, vi è una parentela fra questa prescrizione devitiana e l’ipotesi di hundred per cent reserve banking (banca con riserve al cento per cento) formulata mezzo secolo dopo da Milton Friedman: anche l’economista liberale di Chicago intendeva impedire alle malattie del credito di infettare il circuito monetario. Sia per de Viti che per Friedman la funzione creditizia dovrebbe essere svolta da istituti che non si finanzino attraverso la raccolta di depositi a vista (o, in altri termini, che non abbiano moneta al proprio passivo).
Molta attenzione ha avuto (e ha tuttora) il tema dei criteri per la distribuzione del credito da parte delle banche. Gli economisti liberali – Luigi Einaudi in prima fila – hanno posto l’accento in primo luogo sull’esigenza di imparzialità. La bontà, l’accuratezza dell’istruttoria per la concessione del credito è ovviamente importante, ma su questo terreno non vi può essere dissenso. Un dissenso, quantomeno nella pratica, sorge invece quando la banca si indirizza a una certa classe di soggetti economici, selezionati di volta in volta per idee politiche, per religione, per collocazione geografica, per raccomandazione o altro. In un suo famoso articolo del 1924, Banche con aggettivi, Einaudi scrisse: «Il banchiere non deve conoscere soltanto un’industria, ma tutte quelle a cui fa fido, non un mercato ma molti mercati, perché da un qualunque punto della terra può venire la bufera che annullerà il valore della carta da lui scontata. Il che si riduce da ultimo a concludere che la banca con aggettivo [si discuteva allora di banche fasciste, socialiste, cattoliche] avrà tanta maggiore probabilità di vita e di successo quanto più l’aggettivo sarà dimenticato ed affatto trascurato dai dirigenti e quanto più sarà l’abilità del banchiere nello scegliere, tra i postulanti con o senza aggettivo, solo gli uomini capaci e probi, deliberati a restituire le somme avute in prestanza».
Quanto all’antica questione se puntare sulle garanzie reali o sulla redditività del progetto da finanziare, la soluzione del dilemma sembra prescindere dalle scuole economiche. Certo è che l’esame dei progetti richiede al banchiere più competenze e più visione, mentre, d’altra parte, la sicurezza rappresentata dalle garanzie reali si rivela illusoria quando grandi movimenti economici influenzano in modo drammatico i prezzi dei beni dati in garanzia.
Conseguenza della visione individualista del lavoro del banchiere è stata una certa diffidenza per qualsiasi definizione normativa dell’ambito di lavoro della banca. Quando si discusse, e questo avvenne a più riprese nella storia italiana, se separare le banche per rami di attività (banche specializzate), o per scadenza delle operazioni (breve e lungo termine) gli economisti liberali furono in genere contrari, e sostennero invece, con la notevolissima eccezione del 1936 di cui fra poco parleremo, che solo le specializzazioni sorte spontaneamente fossero giustificate. Einaudi fu attento ai conflitti di interesse nell’ambito dell’organizzazione bancaria. In particolare invocò la separazione fra la banca e l’impresa industriale, argomentando che la banca posseduta dall’industriale non è libera di considerare obiettivamente le richieste di credito provenienti dal proprio azionista di maggioranza. Tuttavia, invece di invocare specifiche disposizioni di legge a tutela dell’indipendenza, preferì soluzioni derivanti dall’autodisciplina dei banchieri. Va segnalato però che da governatore della Banca d’Italia accettò la legge del 1936 (che costituiva la base della separazione) e non ne invocò la riforma o l’ammorbidimento. Questo accenno alle regole concernenti la separazione banca-industria ci consente di introdurre il tema più generale dei controlli di vigilanza.
In genere gli economisti liberali, in Italia come altrove, hanno cercato di sottoporre a scrutinio serrato le proposte di controlli, regolamenti e simili, in primo luogo per verificare la reale congruità degli interventi richiesti rispetto ai fini dichiarati, in secondo luogo per confrontare i benefici attesi con i costi, di vario genere, che si sarebbero dovuti sopportare. Dobbiamo avvertire che Einaudi non sarebbe soddisfatto di questa caratterizzazione della propria attività. Nel suo pensiero, infatti, l’economista, in quanto economista, non può essere liberale o socialista o comunista: egli svolge, ex officio, proprio quell’azione di controllo di congruità fra mezzi e fini che qui ho proposto come caratteristica degli economisti liberali. Per non escludere dal nostro orizzonte tutti quegli economisti che hanno focalizzato la propria attenzione su temi diversi da quelli suggeriti da Einaudi, chiamerò liberali gli economisti particolarmente attenti a quei controlli di congruità indicati da Einaudi, non liberali (o tiepidamente liberali) gli altri.
Le prime banche per le quali, in Italia come altrove, si pose la questione dei controlli, furono le banche di emissione. In realtà, la materia dei controlli e quella dei privilegi di monopolio (o di oligopolio) si intrecciano in questa vicenda complessa. Basterà ricordare qui che la grande crisi bancaria del 1893, che coinvolse soprattutto le banche di emissione, innescò una accesa discussione fuori e dentro il Parlamento, che avrebbe dovuto condurre a un nuovo assetto di tali banche. Economisti come Ferrara, Pareto, Pantaleoni, insistettero su un punto: la convertibilità del biglietto di banca in oro. Unicamente da tale convertibilità, cioè dal controllo esercitato dal mercato, dai detentori dei biglietti, sarebbe venuta quella disciplina delle banche che avrebbe potuto garantire un sistema stabile ed efficiente. L’influsso di questi economisti-giornalisti sul risultato finale fu scarso: la legge del 1893, pur prevedendo la convertibilità in principio, non predispose gli strumenti per il suo esercizio concreto. Gli economisti liberali furono sconfitti anche su un altro fronte. Avversi alla creazione di monopoli e convinti sostenitori del free banking sul modello scozzese, (si veda ad esempio l’articolo di Ferrara del 1856), i liberali videro realizzarsi una politica opposta: il numero delle banche di emissione, già bloccato a sei nel 1874, fu ridotto ulteriormente a tre. Ma un successo lo ebbero: alla loro voce si possono far risalire le norme del 1893 che dispongono una notevole accuratezza dei bilanci degli istituti di emissione e una frequente periodicità di rilascio delle informazioni.
Questo ci rimanda a un concetto più generale: di fronte a richieste di controlli delle autorità per scongiurare abusi, eccessi, imperizie, l’atteggiamento liberale, almeno fino alla prima guerra mondiale, è stato di affidarsi piuttosto alla disciplina del mercato, cioè ai controlli esercitati, per difendere il proprio interesse, da depositanti, detentori dei biglietti di banca, azionisti. Tale disciplina però si può esercitare solo attraverso l’esame di dati veri e significativi. Donde la richiesta di pubblicazione periodica dei bilanci e di un maggiore dettaglio nelle voci (si veda per esempio uno scritto di Attilio Cabiati del 1911). Nella stessa vena, e sempre al fine di rendere effettivo il controllo del mercato, i liberali hanno sottolineato l’importanza di un pubblico di risparmiatori effettivamente capace di valutare i dati, il che implica da una parte un certo grado di cultura finanziaria, dall’altro una stampa attenta e indipendente. È a entrambi questi fattori che si riferiva Einaudi quando invocava «una pubblica opinione seria» [Einaudi 1918].
In aggiunta, si è spesso argomentato che i controlli delle autorità determinano nel pubblico una falsa sensazione di sicurezza, e indeboliscono perciò la disciplina del mercato. Scrisse Pantaleoni: «I difensori dell’ingerenza e tutela statale dei depositanti presumono che il depositante sia un perfetto imbecille, i gestori di banche perfette canaglie sottratte a ogni responsabilità civile e penale, e la burocrazia, che è poi la sola forma concreta e reale dello Stato, onnisciente, oculatissima, onesta e attiva. Se i depositanti fossero gli imbecilli che la tesi tutoria suppone, questa, applicata, perpetuerebbe il loro stato di imbecillità, là dove l’assenza di tutela li sveltirebbe assai prontamente» [Pantaleoni 1924, p. 1305].
Questa combinazione di fiducia nel mercato e di scetticismo nelle capacità dei potenziali regolatori contribuì a far continuamente rinviare, fino al 1926, il varo di una legislazione sul controllo delle banche ordinarie, nonostante i primi gravi episodi di instabilità finanziaria si fossero manifestati già nel 1894 e nel 1907. Poco dopo la Prima guerra mondiale si pose con maggiore forza il problema dei fallimenti, e dei conseguenti salvataggi, bancari. Non è certo il caso di riassumere qui i pro e i contro di questi provvedimenti, ma bisogna senz’altro sottolineare che i liberali centrarono l’attenzione non tanto sugli effetti immediati di un salvataggio, quanto sul messaggio implicito che il salvataggio avrebbe inviato ai protagonisti di eventuali futuri episodi. Su questo tema (che oggi si direbbe del moral hazard) così si espresse Einaudi: «Nello stesso modo che bisogna assolutamente evitare che l’indennizzo ai colpiti da incendio si tramuti in un premio agli incendiari, così bisogna evitare che l’assicurazione contro il rischio della perdita dei depositi bancari si tramuti in un incoraggiamento alla amministrazione imprudente e disonesta dei depositi bancari» [Einaudi 1922, p. 284]. Le crisi bancarie, e più in generale economiche, del periodo fra le due guerre determinarono (ma si trattò di un fenomeno mondiale) una profonda svolta in campo regolatorio. Si aprì la strada a un intervento legislativo, non più limitato alle banche di emissione: esso fu relativamente leggero nel 1926, massiccio e pervasivo nel 1936. La prima legge introdusse limiti alla concorrenza ai quali gli economisti liberali, Einaudi in particolare, si opposero. Altri strumenti, volti a diminuire i rischi di eccessiva concentrazione del credito, furono invece percepiti come utili, o meno dannosi.
Negli anni Trenta il regime fascista assunse caratteri nettamente illiberali e repressivi. Di fronte a un indirizzo molto più interventista in campo bancario, il pensiero liberale fu silente [cfr. Gigliobianco, Giordano 2010]. La legge bancaria del 1936 codificò, irrigidendoli, gli strumenti di superamento della crisi inventati nei cinque anni precedenti: netta separazione fra banca e impresa, separazioni fra categorie di banche, vasta presenza della proprietà pubblica, ampi poteri delle autorità di controllo. Si affermò un sistema finanziario stabile ma poco efficiente e poco competitivo. Nel dopoguerra quell’assetto si consolidò: per convinzione o per conformismo o per timore, non fu sostanzialmente messo in discussione fino alla fine degli anni Settanta, quando si levarono voci insistenti a favore di un cambiamento. Beniamino Andreatta e Mario Monti (con l’incoraggiamento dei governatori Paolo Baffi e Carlo Azeglio Ciampi) furono tra i protagonisti di quella stagione di riforme. Uno dei primi atti fu appunto il rapporto sul sistema bancario chiesto dal ministro del Tesoro Andreatta ai professori Monti, Cesarini e Scognamiglio, che venne pubblicato come documento del Ministero. Il movimento innescato allora arrivò a maturazione con il Testo unico bancario del 1993 e con le privatizzazioni innescate dalla legge fatta approvare da Giuliano Amato e Guido Carli nel 1990. La resistenza a queste novità non fu, nella sua componente principale, di natura intellettuale: piuttosto si trattò di un forte attrito causato da tutte quelle forze (amministratori, politici nazionali e locali, imprese beneficiate) che avrebbero avuto qualcosa da perdere. La legge sulla concorrenza (approvata nel 1990, proprio mentre il mercato europeo dei servizi bancari andava aprendosi) completò, almeno formalmente, la liberalizzazione.
A mano a mano che l’Europa diviene nei fatti un unico mercato e che le autorità di tutela diventano europee, diviene sempre più difficile parlare di un sistema bancario italiano e, con riferimento a esso, di una dottrina bancaria o di un liberalismo italiani. I liberali italiani partecipano a un dibattito che è mondiale e che ha per oggetto una realtà economica nella quale gli elementi di integrazione prevalgono su quelli di divisione.
In sintesi, si può affermare che i liberali italiani, con qualche eccezione, hanno cercato di portare su un terreno concreto il discorso sulla banca, di fondarlo sulle responsabilità individuali dei banchieri, degli imprenditori, dei risparmiatori. Quest’opera è stata spinta a volte troppo oltre, il che ha distolto l’attenzione della politica da alcuni fallimenti del mercato e ha forse provocato qualche ritardo nell’affrontare problemi rilevanti, soprattutto nel campo della regolazione. Nel complesso, tuttavia, è stata meritoria ed efficace, sia nello stimolare la ricerca accademica, sia nel contrastare visioni fantasiose e costose sul sistema bancario, con speciale riferimento ai supposti benefici di una larga e indiscriminata erogazione di credito. Recentemente, i liberali hanno agito a favore della privatizzazione del sistema bancario e della sua riforma in senso concorrenziale.
Bibliografia
Cabiati A., Industrie e banche,in «Quaderni della rassegna La vita marittima e commerciale», 7 (3), 1918; De Viti de Marco A., La funzione della banca. Introduzione allo studio dei problemi monetari e bancari contemporanei, Einaudi, Torino 1934; Einaudi L., La scalata alle banche, in «Corriere della Sera», 4 giugno 1918; Id., La garanzia dei depositi bancari, in «Rivista Bancaria», 3, n. 5, 1922; Id., Banche con aggettivi,in «Corriere della Sera», 23 agosto 1924; Ferrara F., Le Società di Credito Mobiliare, (1856), Lo spirito di speculazione in Piemonte, ora in Id., Opere complete, vol. VII, Bancaria Editrice, Roma 1970; Gigliobianco A., Giordano C., Economic Theory and Banking Regulation: The Italian Case (1861-1930s), in «Quaderni di storia economica», n. 5, novembre 2010; Ministero del Tesoro, Il sistema creditizio e finanziario italiano, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1982; Pantaleoni M., La caduta della Società generale di credito mobiliare italiano (1895) Utet, Torino 1998; Id., Le Casse di Risparmio e gli Istituti Bancari, in «Il Risparmio», n. 4-5, Luglio-Ottobre 1924.