Capitalismo
di Lorenzo Infantino
Il capitalismo è un modo di produzione che rende possibile il calcolo economico. Attraverso il sistema dei prezzi, esso è in grado di contabilizzare ogni operazione imprenditoriale e di stabilire così se la gestione produce incrementi (profitti) o decrementi (perdite) del capitale [Weber 1968, vol. 1, p. 104; Mises 1990, pp. 150-152]. Il punto decisivo risiede nel sistema dei prezzi. Ma questo riposa su un insieme di condizioni. E, se queste vengono meno, viene meno anche quello. La prima condizione (raramente posta in luce) consiste nell’assenza di una fonte privilegiata della conoscenza [Infantino 1999]. Ossia: il capitalismo ha bisogno di un habitat in cui nessuno possa imporre la propria volontà sulla base dell’asserito possesso di una conoscenza superiore. Ecco perché gli attori devono trovarsi su un piano di parità giuridico-formale. E questo è il primo presupposto della competizione, che ha tuttavia bisogno di una seconda condizione: l’esistenza della proprietà privata. In mancanza di risorse detenute privatamente, l’uguaglianza giuridico-formale non può infatti alimentare un processo competitivo.
Se le condizioni di cui sopra, e l’ordine giuridico che da esse discende, sono rispettate, la scelta di ciascuno, intersecando quella degli altri, permette in ogni momento di stabilire quali risorse siano scarse e in che misura. Di qui il sistema dei prezzi (che è il risultato della spontanea aggregazione delle preferenze individuali) e il calcolo economico. Ciò significa che qualunque intervento della mano pubblica, volto a modificare artificiosamente i prezzi, si traduce in un’alterazione del calcolo e in un elemento di grave disturbo nella formulazione dei piani degli operatori.
Come tutti i fenomeni complessi, il capitalismo non è di facile «decifrazione». La Gran Bretagna ha potuto beneficiare dell’opera chiarificatrice di tanti studiosi. I contributi di David Hume, Adam Smith, Adam Ferguson e John Millar forniscono delle irrinunciabili chiavi di lettura. Esemplari sistematizzatori della teoria delle conseguenze inintenzionali, i moralisti scozzesi hanno mostrato che il processo storico-sociale ha carattere ateleologico. E hanno visto nel capitalismo un esito non programmato, generato da azioni che i soggetti avevano finalizzato ad altri scopi. L’«anarchia feudale», la mancanza cioè di un forte potere centrale, aveva consentito ai baroni d’Inghilterra di ottenere delle «concessioni», che sarebbero poi divenute la base della libertà d’azione dei soggetti a loro subordinati [Infantino 2008, pp. 40-46). Ossia: il capitalismo è nato da una condizione connotata dalla debolezza del potere politico. E ciò ha permesso l’acquisizione da parte dei governati dell’autonomia di scelta e del controllo sui governanti. Le città sono divenute i «santuari» del capitale [Smith 1975, p. 529].
Se a ciò si aggiunge quel che, in epoca meno distante da noi, è stato fatto dagli esponenti della Scuola austriaca di economia, si ha una straordinaria dotazione di strumenti concettuali. Gli «austriaci» ci hanno soprattutto fornito i mezzi con cui spiegare la logica interna del processo capitalistico. Carl Menger ha paradigmaticamente esposto la teoria soggettivistica del valore; Eugen von Böhm-Bawerk ha liberato l’interesse da qualunque ipotesi produttivistica: lo ha legato al fatto che gli uomini preferiscono beni presenti a beni futuri e ha reso palese l’impegno che si trova dietro la formazione del capitale; Ludwig von Mises ha sottolineato il carattere incerto, «imprenditoriale», dell’azione umana e ha mostrato quanto illusoria sia l’idea di una vita sociale sottratta all’imprevedibile e al mutamento; Friedrich A. von Hayek ha recuperato il teorema smithiano della «dispersione della conoscenza», che rende vano ogni tentativo di pianificazione centralistica e riconosce al mercato la capacità di dare vita a un estesissimo processo di mobilitazione della stessa conoscenza e delle risorse.
Quanto agli autori italiani, Werner Sombart ha richiamato l’attenzione su Leon Battista Alberti, i cui scritti rappresentano «il testo più prezioso per documentarsi sullo stato d’animo di quelle antichissime epoche della Weltanschauung borghese» (Sombart 1978, p. 82). Sombart ha però aggiunto che la «magnificenza capitalistica» italiana giunse «abbastanza velocemente alla fine […] [e] lo spirito d’impresa» decadde (ivi, p. 105). Il che non ha certo facilitato l’indagine sul capitalismo, alla cui comprensione la debole tradizione liberale italiana ha comunque dato un certo contributo.
Il nome su cui è necessario soffermarsi per primo è quello di Francesco Ferrara, che ha occupato la cattedra di Economia politica nell’Università di Torino. In verità, quella cattedra era stata soppressa con la «restaurazione» seguita ai moti piemontesi del 1821. Le ragioni di ciò sono di facile comprensione. L’economia politica era nata come critica ai fallimenti dello Stato interventista. E gli economisti di allora, rivendicando la libertà economica, si trovavano nello schieramento di quanti desideravano tutelare e accrescere l’ambito della scelta individuale in tutta la sua estensione. La lotta per la libertà economica si coniugava quindi con quella della libertà politica.
Quando nel 1849 si è giunti al ripristino della cattedra e alla sua attribuzione, il nuovo docente, Francesco Ferrara, ha reso chiaro fin dalla prolusione che quella economica è propriamente una dimensione della più generale lotta per l’affermazione di istituzioni liberali. Una frase contenuta in quella prolusione potrebbe senza dubbio porsi a epigrafe dell’intera opera ferrariana: «Il despota transige col demagogo, non perdona all’economista». E all’epoca l’economista (non c’era bisogno di precisarlo) era liberale, perché vedeva nello sviluppo del mercato una limitazione al potere d’intervento dello Stato.
Ferrara è stato un instancabile liberoscambista. Ha distinto fra l’«idealità dello Stato» e la «realità del governo», volendo in tal modo porre in evidenza la distanza esistente fra l’«ente ideale» e gli uomini che nella quotidianità dei ruoli autoritativi versano tutti quanti i loro errori, i loro interessi e le loro passioni. Ha criticato senza sosta la distruzione di risorse operata dalla pubblica amministrazione. E non ha esitato a vedere nel «germanesimo economico», allorché nell’ultimo quarto dell’Ottocento sono state «importate» in Italia le idee della Scuola storica tedesca dell’economia, una forma di «socialismo, ingentilito bensì, e virtuoso abbastanza per vergognarsi di se medesimo; ma appunto perciò […] tanto meno pregevole, quant’è inferiore l’ipocrisia alla franchezza» [Ferrara 1972, vol. 10, p. 566].
I più originali contributi di Ferrara alla spiegazione del fenomeno capitalistico si trovano tuttavia altrove. Il suo nome è soprattutto legato al tentativo di superare il «convenzionalismo» della teoria economica premarginalista, introducendo l’elemento soggettivo nel processo economico. Non è pervenuto all’idea dell’utilità relativa all’ultima dose, ma è stato sicuramente un precursore della teoria soggettivistica del valore, che pone in primo piano il problema della scelta individuale. Non è un caso che, nell’introdurre la traduzione italiana dei Principles di Ricardo, Ferrara abbia scritto che il valore «è un giudizio della nostra mente». E va a suo permanente merito avere mostrato l’urgenza di affrancare la teoria economica dalla reificazione dei concetti, impiegati sovente come entità autonome rispetto all’azione umana.
Ferrara è stato inoltre critico nei confronti di chi, tramite la distinzione fra produzione, distribuzione e consumo, alimentava il convincimento che ci fossero delle fasi separate della vita economica. Anche in questo caso, egli ha focalizzato perfettamente la questione. Il processo di mercato è unico. I redditi e i consumi emergono come conseguenza della produzione. Pensare che nella realtà esistano fasi diverse significa avallare l’idea socialista dell’intervento politico di ridistribuzione, che finisce con il colpire risorse utili alla ricostituzione e all’ampliamento della base produttiva [cfr. anche Mises 1990, pp. 180-181; Hayek 1988, pp. 68-69].
Nel commentare Ferrara, Vilfredo Pareto [1971, p. 161] ha apprezzato i passi fatti da quell’autore verso l’approccio soggettivistico al valore. Occorre però porre in evidenza che, se Ferrara fosse giunto a una compiuta posizione marginalistica, non avrebbe condiviso gli schemi dell’equilibrio economico generale, a cui invece Pareto ha legato strettamente il suo nome. Cancellando l’azione e l’incertezza, quegli schemi non sono in grado di rendere conto del processo capitalistico. Ecco perché nell’opera di Pareto c’è un salto logico. Egli conosceva, almeno in parte, il significato della concorrenza; e così affermava: «le imprese concorrenti riescono dove non intendevano menomamente andare. Ciascuna di esse badava solo al proprio guadagno, e dei consumatori si curava solo in quanto li poteva sfruttare; ed invece, mercé i successivi adattamenti e riadattamenti imposti dalla concorrenza, tutto quell’affannarsi delle imprese riesce di beneficio pei consumatori» [1974, p. 232]. Pareto sottolineava pure che i socialisti «confondono» l’imprenditore con il capitalista [1971, p. 725n]. Precisava che «gli imprenditori sono persone che si occupano della trasformazione del risparmio in capitali e dei servizi dei capitali in beni economici direttamente consumabili, ovvero, in altri termini, si valgono dei beni strumentali per produrre beni diretti» [ivi, p. 207]; e aggiungeva:«se venisse meno lo stimolo, che vien dall’assalto sferrato contro la loro posizione [da altri imprenditori], si dovrebbe trovar modo di sostituirlo con qualche altro per evitare di vedere decadere l’industria» [ivi, pp. 725-726].
Alla luce di quel che precede, si comprende la rigorosa adesione di Pareto alla causa del liberoscambio e la severa critica rivolta al protezionismo. Quel che non si comprende è invece la conclusione secondo cui «l’economia pura non ci dà criteri veramente decisivi per scegliere fra un ordinamento di proprietà o di concorrenza privata e un ordinamento socialista» [Pareto 1974, p. 257]. Conclusione che poggiava sulle seguenti proposizioni: «I prezzi, i frutti netti dei capitali, possono sparire, se pure ciò è possibile, come entità reali, ma rimarranno come entità contabili, senza di esse il ministero della produzione andrebbe brancolando come cieco e non saprebbe come ordinare la produzione […]. Per ottenere il massimo di ofelimità lo Stato collettivista dovrà ridurre eguali i diversi frutti netti e determinare i coefficienti di produzione come li determina la libera concorrenza» [ivi, p. 256]. Si tratta però di una via impercorribile. Il Ministero della produzione non può infatti centralizzare all’istante tutte le conoscenze mobilitate dal processo concorrenziale, che peraltro è stato soppresso. E poi, sebbene Pareto abbia più volte vagheggiato l’idea di un socialismo pervenuto «a uno stadio di libera concorrenza» [1971, p. 779], lo scopo dello Stato collettivista è esattamente l’opposto: rendere impossibile, tramite la soppressione della proprietà privata, qualsiasi forma di competizione.
Il fatto è che Pareto ha avvertito la limitatezza del suo approccio schiettamente utilitaristico. Il che lo ha spinto a entrare nel territorio degli studi sociologici e politici. Ma non è mai riuscito a liberarsi della teoria dell’equilibrio economico generale, ai cui sviluppi il suo lavoro di economista era strettamente avvinto. Quella teoria presuppone che gli attori, «anche se non onniscienti», conoscano «tutto quanto è rilevante per le loro decisioni» [Hayek 1988a, p. 241]. E, se i «soggetti conoscono tutto, si trovano in equilibrio» [ibidem]. Ciò equivale a dire che nessuna decisione risulterà irrealizzabile, perché ogni operatore avrà previsto correttamente tutte le scelte degli altri; avrà cioè formulato i suoi piani nella consapevolezza di quel che il mercato gli permette di fare e di ciò che non gli è possibile realizzare.
Se però le cose stessero realmente in tal modo, non ci sarebbe bisogno del capitalismo e della sua articolazione di mercato. Un individuo qualsiasi potrebbe coordinare i piani di tutti, potrebbe cioè porre in essere un generalizzato sistema di pianificazione. E tuttavia i «dati» che il Pianificatore dovrebbe conoscere non sono assolutamente noti. E la loro mancata conoscenza dà luogo a una situazione problematica, a cui l’economia capitalistica cerca di dare soluzione tramite il processo concorrenziale: che è per l’appunto finalizzato a scoprire tali dati per mezzo dell’attività imprenditoriale svolta da una miriade di operatori. Ecco perché Hayek non ha esitato a scrivere che, se ognuno potesse sapere «tutto ciò che la teoria economica chiama i dati, la concorrenza sarebbe inutile e rovinosa»; ma il punto è che «quali beni siano scarsi, o quali cose siano dei beni, e quanto siano scarsi o che valore abbiano, sono esattamente queste le cose che la concorrenza deve scoprire» [1988b, pp. 197-199].
Si può pertanto dire che il marginalismo ha introdotto la dimensione soggettiva nell’economia, ma la teoria dell’equilibrio economico generale lo priva della sua fecondità: perché è la «camicia di Nesso» che sopprime lo spazio dell’azione umana e rende incomprensibile il processo di mercato. Non è accidentale che Enrico Barone, dopo avere utilizzato gli schemi di quell’equilibrio per dare soluzione al problema del «ministro della produzione», abbia concluso: «allorché alcuni scrittori collettivistici […] sperano che con la produzione organizzata si possano risparmiare gli sperperi e le distruzioni di ricchezza che […] [gli] esperimenti [della concorrenza] traggon seco […] con ciò dimostrano semplicemente di non aver punto un’idea chiara di che cosa sia la produzione, e di non essersi mai accinti allo studio, un po’ a fondo, del problema che incomberà al ministro che vi sarà preposto nello Stato collettivista» [cfr. Infantino 2008, pp. 206-213].
Partendo dal presupposto che i dati rilevanti siano noti, la teoria dell’equilibrio economico generale non è in grado di «catturare» il dinamismo della società capitalistica, l’incertezza in cui si svolge l’azione. Gli schemi di quella teoria sono un mero esercizio di logica, il cui formalismo tiene fuori da ogni considerazione il carattere creativo, innovativo e imprenditoriale dell’agire. Non c’è quindi vera e propria azione. Questa scaturisce infatti da una situazione di disequilibrio; e approda a un’altra situazione di disequilibrio. Il che rende permanente l’esigenza di agire.
Bisogna allora riflettere su quanto ha scritto Schumpeter, il quale ha messo in dubbio la genuinità del liberalismo paretiano: perché Pareto, «osservando con appassionato furore le gesta degli uomini politici nelle democrazie liberali d’Italia e Francia, […] è stato dall’indignazione e dalla disperazione indotto ad assumere un atteggiamento anti-étatiste che, come gli eventi avrebbero dimostrato, non era veramente suo proprio» [1990, vol. 3, p. 1057]. Ma lo stesso Schumpeter non si è reso conto dell’impossibilità di far convivere scelta ed equilibrio, tant’è che ha accreditato l’idea che Barone avesse risolto il problema del calcolo in un’economia socialista, avesse cioè indicato come sostituire il mercato con il sistema delle equazioni della teoria dell’equilibrio economico generale.
Anche Maffeo Pantaleoni è rimasto rinserrato all’interno del territorio rigidamente utilitaristico. Ed è caduto pure in altri fraintendimenti. Quando nel 1909 ha presentato l’edizione italiana dei Grundsätze der Volkswirtschaftslehre di Carl Menger, egli ha ritenuto che la prima lacuna di quell’opera stesse nella mancanza della «concezione dell’equilibrio generale economico». Ma ciò è esattamente quel che dà modo alle pagine mengeriane di contenere un’autentica teoria dell’azione, di porre in evidenza come il processo di mercato si articoli tramite la scelta individuale. Pantaleoni riteneva che le uniche opere in grado di dare compiuta conoscenza in campo economico fossero quelle di Pareto (il Corso e il Manuale). Ed è questa la ragione per cui si è a lungo soffermato sulla questione della massimizzazione sociale dell’utilità, giungendo anche a vedere nello Stato l’ente illuminato capace di sollevarsi sopra gli interessi dei singoli. Il che equivale a credere nell’esistenza di una fonte privilegiata della conoscenza. Ed è questa una posizione incompatibile con la logica di mercato, perché in tal modo il processo capitalistico viene delegittimato dalla mano pubblica. Pantaleoni ha fatto sostanzialmente proprio l’itinerario paretiano. Il punto è però che la questione della massimizzazione si pone solo all’interno di un universo statico come quello dell’equilibrio economico generale, in cui sono noti i dati rilevanti. Quando tuttavia, come nella quotidianità operativa, gli attori si trovano davanti a una situazione problematica, che impone di formulare congetture anche sui dati di quella stessa situazione, parlare di «massimizzazione» non ha alcun senso: non si sa infatti cosa massimizzare. Si comprende allora che l’allocazione competitiva delle risorse è, «al pari degli esperimenti scientifici, prima di tutto ed essenzialmente, un processo di scoperta […] [e] non si può dire della concorrenza, come di nessun altro tipo di esperimento, che essa porti a una massimizzazione di un qualche risultato misurabile. Semplicemente, essa porta, in condizioni favorevoli, all’uso di maggiori capacità e conoscenze di qualsiasi altra procedura» [Hayek 1986, pp. 442-443].
Pantaleoni vedeva giustamente nel capitalismo una «rivoluzione perpetua» [1925, p. 222]. E ciò lo avrebbe dovuto portare lontano dagli schemi dell’equilibrio economico generale. Il che non è avvenuto. I suoi scritti contengono anzi un’ancora più inquietante deriva: l’adesione al nazionalismo e l’esaltazione della guerra, giudicata un’occasione per rifondare moralmente una collettività e accrescere la sua ricchezza. È una posizione totalmente insostenibile, contraria anche ai princìpi su cui Pantaleoni basava la sua difesa del liberoscambio.
Con Antonio De Viti de Marco, c’è un recupero del territorio su cui aveva operato Francesco Ferrara. Questi aveva rifiutato la «paterna sollecitudine dello Stato», ma aveva ben compreso che spetta ai governanti il compito di fornire determinati servizi ai cittadini. De Viti de Marco ha contrapposto lo Stato democratico o cooperativo allo Stato monopolista o assoluto. Ha rivolto le sue preferenze al primo. E ha spiegato che i servizi pubblici, poiché hanno lo scopo di rendere possibile l’attività privata, costituiscono un fattore della produzione. È così che attività pubblica e attività privata si integrano, c’è fra di esse uno scambio: «I cittadini contribuiscono beni privati che lo Stato trasforma in beni pubblici» [De Viti de Marco 1953, p. 49]. Sono in errore coloro che «non amano di trattare l’obbligo delle imposte come la contropartita del diritto di ricevere servizi pubblici. Ciò ricorda, in forma attenuata, i tempi in cui l’imposta era il tributo che i vinti pagavano al vincitore» [ibidem]. Non è quindi la «sovranità dello Stato» che giustifica le imposte. Ciò è quanto accade nello «Stato etico» o assoluto, ma nello Stato cooperativo le imposte sono il prezzo dei servizi prestati ai cittadini.
Per un verso, c’è dietro tutto ciò la consapevolezza che «il principio del valore subiettivo non consente confronti di sensibilità fra individui diversi» [ivi, pp. 124-125]: non ci può pertanto essere che ostilità nei confronti del «germanesimo economico» e di quelle concezioni che, sacrificando la libertà individuale di scelta, fanno dello «Stato assoluto» la variabile indipendente dell’ordine sociale. E c’è, per altro verso, la comprensione dell’insopprimibilità dell’«industria governativa». Lo sviluppo capitalistico ha bisogno dei servizi prestati dalla mano pubblica. Come dire che il liberalismo non può coincidere con il laissez-faire. D’altronde, Hayek ha scritto che «né Locke, né Hume, né Burke […] si posero mai a difesa di un completo laissez-faire che, come dicono le parole, fa parte […] della tradizione razionalistica francese e che in senso letterale non è mai stato difeso da nessuno degli economisti classici inglesi» (Hayek 2007, pp. 162-163).
La fornitura dei beni pubblici crea però dei problemi. De Viti scriveva: «È vecchia osservazione che i parlamenti sono, in grandissimo numero di questioni, rappresentanze di interessi particolari – di classi e di regioni – e che in questi casi la maggioranza si forma di accordi o di reciproche concessioni, in modo che il risultato finale non coincide con l’interesse generale del Paese» [cfr. Cardini 1985, p. 35]. Accade cioè che lo scambio di voti in Parlamento, fra gruppi di interesse, sottragga allo Stato «la forma e la sostanza delle organizzazione cooperative – e lo spingano – verso il tipo monopolistico; alcuni gruppi se ne […] [impadroniscono] e realizzano soprarredditi di monopolio» [ivi, p. 376]. È questo un tema che, in tempi più vicini a noi, sarà ripreso da Buchanan per sostenere la necessità di una costituzione economica, capace di vincolare i provvedimenti di spesa alla deliberazione di maggioranze particolarmente qualificate [cfr Infantino 2008, pp. 314-317].
Degli insegnamenti di De Viti, come di quelli della Scuola austriaca di economia, ha beneficiato Luigi Einaudi, fra i cui contributi alla «decifrazione» del capitalismo occorre sicuramente annoverare l’idea secondo cui la libertà politica poggia sulla proprietà privata e sul processo capitalistico da quella alimentato. È questo il tema su cui, com’è ben noto, si è sviluppata la polemica con Benedetto Croce. Benché sicuramente accoglibili, gli argomenti di Einaudi non hanno l’adeguata ampiezza teorica: utilizzano il semplice buon senso. Già in The Commonwealth of Oceana, pubblicato da James Harrington nel 1656, la proprietà privata viene vista come il mezzo della libertà politica. Vengono poi i Voyages di Bernier, la cui pubblicazione è incominciata a partire dal 1670, nei quali quel legame viene confermato [cfr. Infantino 2008, pp. 319-320]. E da allora gli autori che, in un modo o nell’altro, si sono misurati con il tema sono numerosi e concordanti. Einaudi avrebbe potuto fare ricorso a un materiale molto esteso, rinvenibile anche in campo avverso al suo. Il primo formulatore del teorema secondo cui la proprietà privata sta alla base della libertà può infatti essere considerato Platone, che intendeva tuttavia sopprimere l’autonomia individuale e chiedeva per l’appunto la soppressione della proprietà privata. Il che è stato riproposto, a distanza di tanti secoli, da Karl Marx.
Una ripresa della tesi «scozzese», stando alla quale il capitalismo è nato senza alcuna progettazione da un processo avviato dall’«anarchia feudale», dalla mancanza cioè di un forte potere centrale, si è avuta per merito di Luciano Pellicani, che si è impegnato in una rilevante opera di carattere storico-sociologico. Pellicani ha scritto: «1) è stata la particolare natura del Potere pubblico feudale – uno Stato che non riuscì a essere mai tale – e della società feudale – un sistema di forze in lotta permanente fra di loro – che rese possibile in Europa ciò che i popoli orientali – con l’eccezione dei giapponesi – non sono riusciti neanche a immaginare: la liberazione dell’economia e quindi la formazione e lo sviluppo, per tanti versi prodigioso, del sistema di mercato; 2) la città autonoma è stata il «primo motore» dell’Aufbruch che ha permesso all’Europa di sopravanzare tutte le altre civiltà e di estendere su di esse la sua egemonia culturale» [Pellicani 1988, p. 179]. Detto diversamente: «solo grazie alla formazione di un sistema politico a struttura policentrica il capitalismo è riuscito a svilupparsi sino a imporsi come il modo di produzione dominante. Esso poté fare i primi passi, proprio in quanto si erano aperti, nel seno del mondo feudale, numerosi interstizi di libertà. In questo senso, si può senz’altro dire che la storia del capitalismo e la storia del Potere limitato sono un’unica storia o, quanto meno, si presentano sulla scena come due storie strettamente intrecciate» [ivi, p. 178]. E ancora: «nei Comuni, incominciò l’esplorazione metodica dell’universo dell’economia, dei suoi princìpi costitutivi e delle sue potenzialità: una esplorazione che porterà alla formazione di una nuova forma mentis, tutta dominata dalla razionalità calcolatrice e, quindi, in netta antitesi alla mentalità cristiano-feudale» [ivi, p. 194].
Anche Sergio Ricossa ha spiegato l’origine del capitalismo mediante l’«anarchia feudale». E ha criticato Pantaleoni per avere questi messo sullo stesso piano la storia della Cina, dell’India e del nostro Medioevo, Ricossa ha opportunamente affermato: «proprio nel nostro Medioevo il cambiamento per il cambiamento si impose per la prima volta, pur fra numerosi ostacoli: proprio allora si prese gusto a una via moderna contrapposta alla via antiqua e cominciò, in nome della ragione, l’attacco frontale agli usi, alle consuetudini, alle tradizioni, alle credenze, agli assoluti (fino a mettere in dubbio la ragione stessa). Il fenomeno non fu affatto limitato al campo dell’economia […]; ma nel campo dell’economia fu prorompente, avendo trovato nel mercato di concorrenza l’istituzione adatta a dispiegarne gli effetti. Appunto perché l’innovazione economica offende gli interessi costituiti, essa è l’arma adatta ad attaccare e vincere nel mercato di concorrenza» [1995, pp. 28-29].
Con l’aiuto di autori italiani, si può ancora chiarire un punto. C’è in Weber una spiegazione delle origini del capitalismo sintonica rispetto a quella fornita dai moralisti scozzesi. Tale spiegazione utilizza la via dell’«anarchia feudale» e vede nella città occidentale, e in senso specifico nella città medioevale, il «luogo di ascesa dalla servitù alla libertà per mezzo del profitto economico monetario» [Weber 1968, vol. 2, p. 555]. Ma di ciò, con riferimento a Weber, si discute poco. Il nome del sociologo tedesco è di norma associato all’idea secondo cui l’etica protestante avrebbe favorito l’affermazione (non del capitalismo, il cui sviluppo era da tempo in atto, ma) dello spirito capitalistico. È questa una tesi che Weber ha però esposto in modo ambiguo. Egli ha infatti scritto che, «a creare un’etica capitalistica – non certo intenzionalmente – fu […] l’ascesi intramondana del protestantesimo» [ivi, vol. 1, p. 577]. Ma la sua «ricostruzione» mette sovente ai margini la dichiarata inintenzionalità del processo. E altre volte la orienta verso una direzione improponibile: quella della vocazione, intesa calvinisticamente. Ma Calvino non ha mai affermato quel che Weber gli ha attribuito. La «vocazione» del protestantesimo è accettazione di quel che si ha, non ricerca del successo in quanto testimonianza della predestinazione divina. E non ha nulla a che vedere con la «prontezza» di cui si nutre l’attività imprenditoriale.
Con Fanfani [1944, pp. 166-167], occorre allora obiettare a Weber che accogliere la sua interpretazione equivale a sottoscrivere l’idea che per secoli sia esistita un’economia capitalistica senza il suo spirito animatore. Il che è davvero insostenibile. E bisogna orientare verso altra direzione l’inintenzionalità del processo attraverso cui la religione ha influenzato lo sviluppo del capitalismo. Il protestantesimo è nato per riaffermare gli imperativi religiosi, per frenare cioè le forze capitalistiche. Ci sono tuttavia dei fattori che hanno condotto a un esito esattamente opposto a quello progettato dai riformatori: 1) il rigetto del monopolio della rivelazione e del ruolo del clero come intermediario esclusivo fra Dio e i fedeli; 2) la diffusione delle sette riformate, la cui «competizione» ha alla fine condotto alla libertà di coscienza; 3) la reazione assolutistica della Controriforma, che ha creato, soprattutto nelle aree in cui ha avuto maggiore forza, un habitat ostile a ogni attività innovativa [Pellicani 1988, pp. 101-111].
Bibliografia
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