Colonialismo
di Federica Guazzini
Nella competizione per la spartizione dell’Africa (1876-1885) l’Italia si inserì per ultima e si concentrò sulle aree ancora libere del Corno d’Africa, dopo che nel biennio 1881-’82 la cautela diplomatica della Sinistra storica aveva agevolato il controllo francese della Tunisia e quello britannico sull’Egitto. Questa cautela, dovuta alla prioritaria esigenza di completare l’unità nazionale e alle sfide politico-economiche del nation-building – problematiche che hanno indotto la storiografia a ritenere il colonialismo italiano tardivo, anacronistico e non commisurato alle risorse nazionali – fu rapidamente superata nella congiuntura imperialistica per ragioni di prestigio internazionale. Tali motivazioni si saldarono a interessi settoriali dei circoli militari e dell’industria che puntava a nuovi mercati, sovvenzioni e commesse: marina mercantile, cantieristica, industria bellica, oltre agli agrari del Sud. La politica coloniale, dapprima costola di quella estera, fu il frutto di scelte della diplomazia di gabinetto prese dal re e dall’esecutivo in base allo Statuto albertino, sostenute dai vertici dell’esercito e solo ex post discusse in Parlamento.
Rispetto alle altre potenze europee in Italia il blocco degli oppositori all’imperialismo coloniale fu più vasto, spaziando da esponenti delle estreme di Sinistra (G. Bovio) e Destra (S. Jacini), radicali, repubblicani (N. Colajanni), socialisti (A. Costa), cattolici e all’imprenditoria del Nord. Le stesse argomentazioni dell’anticolonialismo – debolezza del capitalismo finanziario, deficit pubblico, squilibri nord-sud – vennero invocate dai fautori dell’espansione per favorire i processi di modernizzazione, indirizzando l’emigrazione verso terre da porre sotto sovranità italiana e di cui si ipotizzavano risorse potenziali tali da giustificare gli sforzi. L’Italia sposò alla questione demografica i temi propri della retorica dell’imperialismo coloniale europeo, quelli economico-politici e la missione di civiltà; quest’ultima consentì un primo riavvicinamento dell’establishment liberale al mondo cattolico, favorevole all’affrancamento dalla «barbarie» degli africani, rappresentati come primitivi bisognosi d’essere colonizzati per accedere allo sviluppo. L’ideologia imperialista si alimentò dell’eredità storica dell’antica Roma, affiancata alle idealità liberali risorgimentali: la missione dei popoli di Mazzini e il primato morale e civile degli italiani di Gioberti trovarono nuova articolazione con il giurista P.S. Mancini. Sostenitore del principio di nazionalità e ideologo del diritto della nazione italiana all’indipendenza politica, come ministro degli Esteri (1881-’85) nel governo Depretis della Sinistra moderata attribuì restrittivamente tale diritto ai popoli civili e sostenne la colonizzazione degli altri quale obbligo di civiltà.
Agli esordi delle conquiste contribuì anche l’afflato umanitario dei missionari italiani nel Corno d’Africa che invocarono il sostegno governativo. L’evangelizzazione favorì indirettamente l’espansione e l’ideologia coloniale si nutrì della letteratura di viaggio e dei resoconti di esploratori nella regione nilotica, nel mar Rosso e nell’Oceano Indiano che a titolo individuale o supportati da associazioni geografiche e coloniali destarono interesse nell’opinione pubblica. Parlamentari, intellettuali e industriali, la cui esiguità numerica era inversamente proporzionale all’influenza politico-economica nella società, aderirono alla Società geografica italiana (Firenze 1867, Roma 1873), alla Società africana d’Italia a Napoli (1880), a Milano alla Società d’esplorazione commerciale in Africa (1879) e in vere e proprie associazioni coloniali quale la Lega navale (1897). Nel 1906 l’Istituto coloniale italiano divenne l’organo ufficiale per la formazione del consenso coloniale, favorendo nuove spinte all’espansione sempre correlate ai temi emigrazione e commercio estero.
Come altre potenze europee e per ragioni di prestigio internazionale l’Italia entrò ufficialmente nella scena coloniale a copertura di interessi di compagnie mercantili sostituendole nell’amministrazione territoriale. L’arteria commerciale del mar Rosso fu individuata per rafforzare la posizione nazionale in Europa e tutelare lo status quo nel Mediterraneo. Intese diplomatiche con Londra e l’Egitto e accordi con i capi locali agevolarono le acquisizioni. La baia di Assab, della compagnia Rubattino dal 1869, anno dell’apertura del canale di Suez, fu ceduta allo Stato italiano nel 1882 inaugurando la fase delle colonie commerciali. Con Massaua, occupata nel 1885, e con altre aree dell’entroterra nel 1890 fu formata la colonia Eritrea. Lungo la costa somala, spartita con Francia e Inghilterra, Roma aveva rilevato da Zanzibar i protettorati sui sultanati di Migiurtinia e Obbia nel 1889 e sui porti del Benadir nel 1892, affidati alla compagnia dell’Africa orientale italiana (Filonardi, 1893-’96) e poi a quella del Benadir fino al 1905. Entrambe fallirono nel cooptare i rappresentanti dei clan in un disegno commerciale che soffrì anche carenza di fondi governativi. Fittizio era il controllo del territorio somalo per la scarsità di mezzi e personale e le resistenze delle popolazioni: sulla costa le rivolte Bimal (1893 e 1896), nell’interno la frammentata competizione tra clan.
In Parlamento esponenti dell’opposizione conservatrice quali R. Bonghi e moderati della Sinistra quali F. Martini criticarono la politica coloniale del governo Depretis perché improvvisata e impreparata e ne confutarono la convenienza economica, ma inutilmente poiché le scelte operative furono mantenute al riparo da interferenze parlamentari. In Eritrea il governo coloniale gestito da generali impostò una politica espansionistica verso l’ovest sudanese e il sud dell’acrocoro etiopico, incontrando sporadiche ma agguerrite resistenze; aumentò gli organici militari e perseguì il divide et impera verso i vicini; eliminò la dissidenza autoctona, accentrò i poteri economici e indemaniò le terre più fertili. La rivolta locale nel dicembre 1894 pose fine ai propositi di colonizzazione latifondistica ma innescò una spirale di guerra. Questa politica coloniale era funzionale al gabinetto Crispi per distogliere l’attenzione dalle problematiche interne acuite da crisi economica e gallofobia. Amministrata da militari che tollerarono abusi e malversazioni riscontrati da una Commissione parlamentare d’inchiesta (1891) e caratterizzata da magre risorse, l’Eritrea venne concepita in funzione dell’espansione verso l’impero etiopico che nel 1889 si era tentato di porre sotto protettorato con il Trattato di Uccialli. Sconfessato dal negus, i propositi italiani subirono battute d’arresto (Amba Alagi 1895) e naufragarono con la cocente sconfitta di Adua (1896) che consacrò l’Etiopia unica realtà statuale africana a conservare la propria sovranità nell’era dell’imperialismo. L’Italia, nel parossismo dell’opinione pubblica, sancì il tramonto di Crispi e dell’espansionismo armato.
La politica coloniale fu messa in discussione in Parlamento: socialisti e repubblicani ne biasimarono metodo e merito e con la destra conservatrice denunciarono lo sperpero di denaro pubblico; i cattolici ne approfittarono per ribadire il distacco dallo Stato laico. Nonostante la risonanza dell’insuccesso, Umberto I e l’esecutivo del conservatore Di Rudinì non vollero rinunciare al ruolo internazionale che l’imperialismo garantiva all’Italia. La politica di raccoglimento mirò quindi a consolidare lo status quo contenendo le spese coloniali. In Eritrea la gestione passò al governo civile di F. Martini (1898-1908) che impostò il consolidamento amministrativo, tagliò il budget militare, avviò politiche infrastrutturali per rendere la colonia Paese di transito e di reclutamento per le truppe coloniali, oltre a riforme fondiarie che intaccarono relativamente i sistemi agrari tradizionali. Il successore G. Salvago Raggi retrocesse terre demaniali e sostenne il commercio d’esportazione. L’imperialismo italiano assegnò all’Eritrea l’individualità geografica e di popolamento che tuttora mantiene. In Somalia inazione e abusi condussero alla gestione diretta e alla proclamazione della colonia nel 1908. Il movimento del Mullah Muhammad Abdullah Hassan, guida della tariqa sufi Salihiya, coagulò i clan del Benadir ai sultani di Obbia e a quelli del Somaliland in un discorso religioso e protonazionalista somalo ostile al dominio italiano e britannico. Nel 1905 l’Italia aveva negoziato una tregua concedendo al Mullah l’area del Nogal, tra Obbia e Migiurtinia, ma la regione non si stabilizzò per il mancato rispetto dei contraenti; il controllo coloniale si consolidò nel 1921 alla morte del Mullah. I piani di sviluppo economici vennero perciò rallentati; il governatore L. Mercatelli adottò un modello di indirect rule e tentò di favorire i capitali italiani (specie tessili) trasformando la manodopera schiavale in salariato. Le resistenze dei mercanti arabi e indiani e dei Bimal, oltre all’ostruzionismo interno all’amministrazione, determinarono un rapido turn over di governatori che occuparono il basso Uebi Scebeli per avviare concessioni agricole ma a prezzo di aspre repressioni. Il governatore G. De Martino passò al dominio diretto nel 1910 e intensificò gli sforzi agricoli e zootecnici ma solo dopo la fine della Prima guerra mondiale furono avviate piantagioni al sud dalla Società agricola italo-somala.
La politica coloniale dell’Italia liberale si trovò dunque a gestire tra incertezze e indecisioni possedimenti economicamente poco rilevanti e problematici da sottomettere. Ciò contribuisce a spiegare la discrasia tra ideologia, progetti e realizzazioni. In Italia il rafforzamento del movimento anticoloniale nel dopo-Adua si era rivelato effimero: dal 1902 il socialismo imperialista auspicò una «colonizzazione proletaria» favorendo una convergenza d’interessi con i circoli coloniali, mentre liberaldemocratici e destra conservatrice smussavano la propria ostilità. Il sociologo Michels teorizzò l’imperialismo proletario individuando nel lavoro il singolare propulsore del colonialismo italiano e parte dei cattolici convergevano sulle colonie come sbocco all’emigrazione. Cancellare Adua e riscattare l’orgoglio nazionale fu il leitmotiv dei giovani nazionalisti (Corradini, Papini) e poi base della politica coloniale fascista; echi letterari (Carducci, D’Annunzio) e giornalistici traghettarono le tesi imperialiste nel nuovo secolo.
Assieme ad altre potenze europee e per questioni di prestigio internazionale, la Corona e il blocco sociale filoimperialista cercarono d’imporre i propri interessi politico-strategici in Estremo oriente. Dopo una prima umiliazione (San Mun 1899), l’Italia partecipò in Cina alla spedizione contro i Boxer, ricavandone una modesta concessione nella baia di Tien Tsin (1901). La prima fase dell’età giolittiana coincise con la graduale adesione all’imperialismo e la conservazione dello status quo coloniale: alle relazioni di buon vicinato nel Corno d’Africa si affiancò il trattato anglo-franco-italiano del 1906 che suddivise la regione in sfere di influenza assegnando l’Etiopia all’Italia per creare un unico blocco geoeconomico con Eritrea e Somalia. Dal 1901 un nuovo round di accordi tra potenze europee consentì a Roma di ottenere una prelazione su Tripolitania e Cirenaica, entrambe sotto sovranità ottomana, ma solo quando il Marocco fu spartito tra Francia e Spagna il governo di Giolitti, che seguiva personalmente l’intera politica coloniale, intervenne nel Mediterraneo.
Oltre a ragioni di politica internazionale, gli investimenti italiani avevano preparato il terreno alla conquista, patrocinata dagli industriali filoprotezionistici, mentre aspettative di riscatti fondiari per i contadini senza terra e un’emigrazione triplicata si sommarono a rivendicazioni nazionalistiche nella «nazione proletaria», invano confutate da moderati liberali, socialisti e sinistra rivoluzionaria che denunciavano l’imperialismo «straccione». Il colonialismo divenne componente cruciale dell’ideologia nazionalista i cui intellettuali invocavano la «necessità storica» di un imperialismo italiano bellicista e demografico. Liberalconservatori, movimento cattolico e parte dei socialisti sostennero l’esecutivo nella guerra contro la Turchia (1911-’12) che comportò anche l’occupazione del Dodecanneso. Ampia fu la partecipazione popolare, sostenuta da una campagna stampa trasversale agli schieramenti politici e patrocinata anche da Pascoli e D’Annunzio. Nonostante l’accorta preparazione diplomatica e l’ampia mobilitazione, la massiccia quanto inattesa resistenza militare arabo-turca smascherò la propaganda che dipingeva gli italiani liberatori del popolo libico e costrinse le truppe ad attestarsi sulla difensiva nella costa. La risposta all’insurrezione popolare libica fu una repressione dura, tra eccidi e deportazioni. Alle gravi perdite umane si sommarono gli ingenti costi finanziari della protratta campagna che incisero sul bilancio statale e frenarono i propositi di colonizzazione agricola. Nel 1917 gli accordi con la confraternita senussita compromisero i diritti di sovranità dell’Italia sulla Cirenaica, sebbene il modus vivendi fosse stato concepito per favorire la penetrazione verso l’interno.
Mentre dirigeva l’attenzione verso i Balcani e l’Asia minore e maturavano ragioni economiche, il governo conservatore Salandra-Sonnino rivendicò compensi coloniali (Patto di Londra del 1915) per schierarsi a fianco di Londra e Parigi nella Prima guerra mondiale. Nel clima di crescente nazionalismo furono redatti due programmi (massimo e minimo) con richieste motivate da esigenze di sicurezza e sviluppo economico. Alla conferenza di pace (1919) l’Italia tentò di avocare unità territoriale dalla Libia al golfo di Guinea; inappagata, mirò ad aree della Somalia francese e del Somaliland sempre con l’obiettivo dello Stato liberale di controllare l’intero Corno d’Africa. La disattenzione di ogni richiesta italiana nel riassetto post-bellico – furono acquisiti solo lievi ampliamenti frontalieri – dette origine alle recriminazioni della «vittoria mutilata», in cui patriottismo e revanscismo promossero una rilettura dell’ideologia coloniale all’insegna di una rancorosa aggressività che trovò più compiuta elaborazione dottrinale nel ventennio.
Il dibattito sulle continuità dell’imperialismo coloniale fascista rispetto al colonialismo dell’Italia liberale ha occupato a lungo gli studiosi. La politica africana del fascismo può configurarsi alla stregua di un totalitarismo coloniale imperfetto – secondo Labanca – che aggregò organicamente i miti storici, le tesi demografiche e impegnando inusitati mezzi e risorse si lanciò nell’occupazione integrale della Libia e nella guerra d’Etiopia macchiandosi di gravi crimini, politiche genocidarie e imponendo normative segregazioniste.
I modelli d’amministrazione coloniale dell’Italia liberale differirono nei possedimenti e nel tempo; pur ricadendo nella forma del dominio diretto variarono nella fenomenologia giuridico-istituzionale rispetto a quelli delle altre potenze coloniali. L’acquisizione di un bagaglio conoscitivo sulle società sottomesse, in funzione dell’esercizio del dominio, fu avviato in età liberale al pari dell’elaborazione di un diritto coloniale volutamente impostato su un flessibile pragmatismo nel sistema di giustizia differenziale che teoricamente meglio rispondeva alle consuetudini giudiziarie locali, ma in realtà manteneva un profilo di rigido autoritarismo e l’istruzione venne lesinata agli autoctoni. In Eritrea e Somalia sudditi e cittadini restarono marcatamente distinti mentre in Tripolitania e Cirenaica nel 1919 il ministro liberalnazionale G. Amendola concesse con gli Statuti cittadinanza e diritto di rappresentanza in assemblee locali; cooptandovi i capi locali sorse così la Repubblica tripolitana. Tale esperimento, anche se mirato ad acquisire consensi per stroncare la resistenza, rappresentava nell’Africa coloniale un’innovativa base legale di natura costituzionale all’insegna della futura assimilazione dei libici; sabotati dalle autorità militari e dai nazionalisti gli Statuti restarono lettera morta. Rappresentano comunque l’acme del colonialismo liberale per la storiografia che ne ha evidenziato la sfasatura temporale rispetto agli adattamenti della dottrina assimilazionista francese, anche se un simile tentativo fu condotto nella seconda metà degli anni ’30 dal Fronte popolare col progetto Blum-Viollette in Algeria e analogo fu l’esito.
Gli affari coloniali restarono pertinenza del Ministero degli Esteri – dove dopo Adua fu creato un Consiglio coloniale – fino alla guerra libica, al cui termine fu istituito il Ministero delle Colonie, articolato in tre direzioni generali per gli affari politici, civili ed economici. A livello amministrativo ogni colonia era retta da un governatore, nominato con decreto reale e dotato di vasti poteri, e ripartita secondo schemi diversi ma ispirati ai canoni della madrepatria; fu creato il Consiglio coloniale per l’Eritrea e la Somalia. Il corpo dei funzionari coloniali venne assimilato a quello diplomatico e consolare. Dal 1912 al 1934 Tripolitania e Cirenaica, colonie distinte, vennero rette da un unico governatore ma la sovranità restò nominale. I bilanci coloniali sempre in passivo resero indispensabili contributi statali annui. I regimi protezionisti in Eritrea e Libia non fecero mai decollare un cospicuo mercato coloniale privilegiato – l’interscambio riguardò tessile, pelli e poco altro – a conferma della debolezza dei motivi economici dell’imperialismo italiano. Se comparati al capitale finanziario e sociale investito, i risultati sono apparsi irrisori agli studiosi. Anche dopo la creazione dell’Ufficio emigrazione nel 1905, esigui furono i civili che scelsero l’oltremare italiano.
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale l’intero spettro politico nazionale tentò di evitare l’espulsione dall’Africa smarcando le colonie prefasciste dall’Etiopia e negoziando in sede diplomatica il mantenimento delle prime. Solo la Somalia fu assegnata in amministrazione fiduciaria all’Italia (1950-60) che si adoperò per preparare il paese all’indipendenza nazionale. Il mancato processo di decolonizzazione ha corrisposto a un lento processo di «decolonizzazione degli studi coloniali» che ha riguardato soprattutto la fase fascista, mentre la storiografia si è occupata prima e con maggior rigore del colonialismo liberale, fase cruciale per la storia sociopolitica e culturale d’Italia.
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