Diplomazia (età repubblicana)
di Maurizio Serra
La tradizione politica italiana ha conosciuto nella prima fase unitaria ministri degli Esteri che venivano dalla carriera diplomatica e da quella militare, a lungo affine per reclutamento sociale e funzioni, o che potevano comunque essere considerati dei tecnici. Il caso più eminente, anche per la durata – complessivamente quasi undici anni, tra il 1863 e il 1901, più altri incarichi di rilievo internazionale – fu quello di Emilio Visconti Venosta. Tale stato di cose corrispondeva all’intento della Corona di mantenere la supervisione sulla politica estera fino ai limiti dello Statuto albertino, se non oltre. Ma anche dopo l’avvento del fascismo, e malgrado l’adozione di alcuni provvedimenti contro la tradizionale apoliticità dei diplomatici (ingresso di esterni senza concorso, abolizione della segreteria generale ecc.) un ministro come Galeazzo Ciano, che veniva dalla carriera, era visto con diffidenza nei ranghi del Pnf, malgrado la parentela con il Duce. Interni alla «casa» furono anche i suoi immediati successori, Giuseppe Bastianini (sottosegretario con Mussolini nei cinque fatidici mesi di febbraio-luglio 1943) e Raffaele Guariglia, ministro nel primo gabinetto Badoglio nell’altro fatidico periodo, dal 25 luglio all’8 settembre.
Appare dunque improprio parlare di diplomazia «fascista», a parte quella pur non trascurabile frazione della carriera che diede vita al Ministero degli Esteri della Repubblica sociale nel 1943-1945. La carriera nel suo complesso rimase legata alla monarchia e scarsamente ideologizzata sino alla fine del regime e del conflitto. Dalla diplomazia veniva Renato Prunas, vero ministro degli Esteri e non solo segretario generale del Ministero durante il Regno del sud, di cui seguì tutta la vicenda, dal suo arrivo a Brindisi a fine ottobre 1943, sino al rientro del governo a Roma, nel giugno 1944. Prunas conservò notevole influenza quale ministro «ombra» di Bonomi e De Gasperi, fino al suo allontanamento da parte di Nenni, nel novembre 1946. Diplomatico di formazione era anche il successore di Nenni, Carlo Sforza, ministro (dopo il precedente del 1920-21) dal 1947 al 1951, nella fase determinante per la collocazione occidentale del Paese. Ma proprio il declino di Sforza – figura autorevole ma «senza truppe», per la quale dal luglio 1951 alla morte, l’anno successivo, De Gasperi ideò il dicastero senza portafogli degli Affari europei – segnò il passaggio a un’era in cui governo, Parlamento e partiti presero in mano la guida della politica estera e non l’avrebbero più lasciata ai tecnici. Quando, cinquant’anni dopo, il Ministero degli Esteri è stato nuovamente affidato a un diplomatico, l’ambasciatore Renato Ruggiero, si è consumata una parabola molto simile a quella che si verificò con Sforza, salvo che sono bastati alcuni mesi e non alcuni anni per portarla a termine.
Un altro motivo di questa scarsa ideologizzazione è che, dall’Unità a oggi, malgrado tre sostanziali cambiamenti di regime, l’amministrazione degli Esteri è rimasta regolata da meccanismi di reclutamento e progressione interni e si è dimostrata una delle più refrattarie all’inserimento di personalità di nomina politica. Persino le immissioni nei ruoli (e corrispondenti estromissioni) dell’era fascista, nel 1928 e nel 1932, ebbero carattere tutto sommato contenuto e l’ondata di epurazione dell’immediato dopoguerra – con la parallela immissione di ambasciatori politici, espressione del Ccln – era già conclusa intorno al 1950, data alla quale gli esterni erano ormai pochi (Tarchiani, Brosio, Fenoaltea) e gli epurati erano stati in maggioranza riammessi in servizio. Nulla di paragonabile a quel che accadde in Germania, nel 1933 e in direzione opposta nel 1945, o in Spagna, dopo l’avvento di Franco, e successivamente dopo la fine del franchismo. E nulla di paragonabile, per guardare alle transizioni democratiche, allo spoil system americano, in cui gli ambasciatori politici cambiano normalmente come i ministri e gli alti funzionari con l’avvento di un diverso presidente, o al «terremoto» del Quai d’Orsay, dopo la prima elezione di Mitterrand nel 1981.
La selezione interna, accompagnata da sostanziale trasparenza nella progressione della carriera, anche se con inevitabili influenze esogene, si è rivelata fondamentale per creare uno spirito di corpo, una «cultura». Ne consegue il mantenimento di una sostanziale neutralità o apoliticità della carriera, passata nel frattempo dalla monarchia alla Repubblica con poche dimissioni volontarie. Essa è stata diversamente interpretata da studiosi e osservatori come continuità di funzioni, al servizio del Paese, o conformistico adattamento al potere/regime pro tempore.
Quando Luigi Einaudi, nel suo discorso d’insediamento a presidente della Repubblica, il 12 maggio 1948, si scagliò contro «il mito dell’inaffidabilità internazionale dell’Italia», esprimeva un’esigenza morale ma anche politica che, nel primo quindicennio di sviluppo del Paese, quello del centrismo e del «miracolo» economico, comportò scelte lungimiranti e coraggiose in senso atlantico-europeista che videro la diplomazia italiana schierarsi compatta in tal senso, dopo qualche tentazione neutralista, conclusasi intorno al trattato di pace. Chi risalga alle condizioni dell’Italia di allora difficilmente potrà negare l’importanza delle scelte fatte per evitare non solo una guerra civile di tipo greco, ma soprattutto la marginalizzazione del Paese nel blocco occidentale, sotto forma di un Patto Mediterraneo già ipotizzato da Washington e Londra. La diplomazia italiana continuò a battersi negli anni Cinquanta per ottenere l’aggancio dell’Italia al processo comunitario quando una parte influente del mondo politico, imprenditoriale e finanziario sosteneva opzioni ancora protezionistiche. È allora, per riprendere un’espressione corrente, che il Paese entrò veramente «in» Europa.
È la rendita di posizione di cui l’Italia si è avvalsa per tutta la Guerra fredda con una sostanziale stabilità di approccio, se la si confronta con la stessa Francia del rifiuto della Ced, della politica gollista della «sedia vuota» o della inesausta querelle interatlantica. Ma, una volta compiute le scelte fondamentali, l’Italia si è riorientata, a partire dalla metà degli anni Sessanta, verso il primato della politica interna. Era una scelta corrispondente all’esigenza di allargare la base sociale di una democrazia partecipativa, ma ha relegato tendenzialmente e a lungo la politica estera in secondo piano. Il riorientamento di larga parte della classe dirigente – imprenditoriale e finanziaria, non solo politica, e non solo pubblica – al basso profilo internazionale si nutrì della convinzione, o piuttosto dell’illusione, che questo auto-declassamento potesse consentire al Paese di trovare nuovi spazi di mediazione internazionale, mentre esso era l’indice di un larvato neutralismo e della contaminazione dei ruoli tra governo e opposizione, che avrebbe informato gradualmente la cosiddetta prima Repubblica dall’avvento del centrosinistra ai primi anni Novanta.
In questo contesto, la diplomazia si trovò spesso, non per sua scelta, ad assumere sempre più spesso compiti vicari, «sul campo». Questo ruolo di supplenza ha prodotto alcuni risultati tangibili. Un esempio fra tutti: fu la dirigenza della Farnesina, non quella politica, ad agire tenacemente per far entrare l’Italia tra i membri costitutivi dell’allora G6 al vertice di Rambouillet nel 1975, facendo leva sull’interesse di Stati Uniti e Regno Unito a non lasciare al condominio franco-tedesco la rappresentanza dell’intera Europa continentale, fianco sud compreso.
È tuttavia la politica che deve guidare e «l’intendenza»anche di più alto livello, seguire; a meno di entrare in quella prospettiva del governo tecnocratico che in un regime democratico è un controsenso, se non peggio. Dal ruolo di supplenza si scivola facilmente alla «politica della sedia» e il prestigio di un Paese si compendia nell’occupare un posto alla tavola dei grandi, meglio se tacendo. La professionalità del diplomatico rischia allora di decadere a virtuosismo più o meno brillante. Ma anche il consenso, che è lo strumento preferito del diplomatico, non è sempre sufficiente a tutelare l’interesse nazionale. Questa esigenza è emersa con particolare vigore dopo la caduta del muro di Berlino e la fine dell’impero sovietico, allorché l’Italia non ha più potuto godere delle «rendite di posizione» della Guerra fredda e ha dovuto, in una delicata e non conclusa fase di travaglio istituzionale, rielaborare le direttrici di politica estera.
Un altro aspetto operativo è dato dal fatto che esistono ancora, nella normativa sul Ministero degli Esteri e nell’articolazione degli uffici nella sede centrale e nelle Rappresentanze all’estero, rilevanti competenze che negli altri Paesi sono in genere demandate ad amministrazioni tecniche. L’ordinamento repubblicano assicura al Ministero degli Esteri, in primis alla carriera diplomatica, una competenza esclusiva nella gestione della politica estera che altre prestigiose amministrazioni come il Quai d’Orsay e il Foreign Office non hanno preservato con pari ampiezza e centralità. La prima riforma organica del dopoguerra, che trovò attuazione con il d. p. r. 5 gennaio 1967, n. 18, comportò l’unificazione dei diversi ruoli: diplomatico, consolare, emigrazione, commerciale, Oriente e stampa. La seconda riforma ha comportato la riorganizzazione delle direzioni generali e dei servizi (d. p. r. 11 maggio 1999, n. 267) e il riordino della carriera diplomatica (d. leg. 24 marzo 2000, n. 85). In particolare, l’art. 12 del d. leg. 30 luglio 1999, n. 300 ha stabilito al primo comma che al Ministero degli Esteri «sono attribuite le funzioni e i compiti spettanti allo Stato in materia di rapporti politici, economici, sociali e culturali con l’estero»; e al secondo, che «nell’esercizio delle sue attribuzioni, il ministero assicura la coerenza delle attività internazionali ed europee delle singole amministrazioni con gli obiettivi di politica internazionale».
È stato un vantaggio per la carriera diplomatica che ha potuto aprirsi per tempo a tematiche quali l’ambiente, la salute, il commercio, lo sviluppo, la proprietà intellettuale ecc. che fanno ormai parte integrante della politica estera. Ma oggi, a parte la concorrenza parallela rappresentata dalle diplomazie parallele degli enti locali e delle Ong, il problema del coordinamento e dell’unità di indirizzo rischia di riacutizzarsi con la realizzazione del servizio per l’azione esterna (Eas), o servizio diplomatico europeo, ormai decisa, a prescindere dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. I partner maggiori, ma anche gli altri, compresi quelli di più recente adesione spesso avvantaggiati dal multilinguismo, si stanno attrezzando per coprirne fin dall’inizio i posti-chiave. Già questo sembra dimostrare che, all’interno dello spazio comunitario, la competitività professionale in campo diplomatico è destinata ad aumentare e non a ridursi.
In conclusione, si può dire che la diplomazia italiana ha continuato a operare nell’era repubblicana, sia durante la prima fase del dopoguerra che dopo i rivolgimenti del 1989, nel senso di una fondamentale e convinta adesione ai valori della cultura politica occidentale e del multilateralismo. Spetta tuttavia alla direzione politica del paese assicurare che questa grande risorsa professionale possa continuare a operare al meglio, sul piano delle risorse e degli obiettivi, per garantire all’Italia il ruolo che le compete nell’ordine internazionale di oggi e di domani.
Bibliografia
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