Diritto penale
di Daniele Velo Dalbrenta
La riflessione penalistica italiana di ispirazione liberale si presenta piuttosto frastagliata, e non di rado alla confluenza tra correnti di pensiero e sensibilità culturali differenti quando non confliggenti.
Per venire a capo di tale eterogeneità, sembra opportuno passare in rassegna quegli autori che hanno imperniato la loro teoria penale sull’assunto irrinunciabile per qualsiasi impostazione che voglia dirsi «liberale»: l’esigenza di delimitare i poteri dello Stato nell’esercitare la coercizione penale, l’unica che possa intaccare i beni fondamentali degli individui (essenzialmente: vita, libertà, proprietà); laddove, nelle versioni libertarie, la suddetta esigenza rientra nell’ambito della più comprensiva e radicale critica alla pretesa legittimazione dello Stato a esercitare, in quanto tale, qualsiasi forma di coercizione nei confronti degli individui.
Nel corso della presente esposizione sarà dato seguire il declinarsi del predetto assunto in tre fondamentali filoni penalistici, ai quali ricondurre non pochi autori italiani, al di là di loro professioni di fede nel liberalismo (talora del resto impossibili, al pari della piena consapevolezza di «italianità», per ovvie ragioni cronologiche): un filone protoliberale di ascendenza illuministica, laico e riformista; un filone liberale in senso proprio e stretto; un filone libertario, ancora in via di consolidamento.
Le origini del liberalismo penale italiano, se non del liberalismo penale tout court, si fanno comunemente risalire a Cesare Beccaria, il cui celebre Dei delitti e delle pene (1764) costituì un ineludibile atto d’accusa nei confronti della giustizia penale d’Ancien Régime, denunziandone senza mezzi termini crudeltà, storture, formalismi e tortuosità varie.
Peraltro, contrariamente a quel che perlopiù si ritiene, Beccaria, col suo pamphlet, non invocò tanto la tutela dell’individuo dinanzi allo Stato quanto piuttosto il contemperamento delle (astratte) ragioni illuministiche dell’umanità della pena con quelle (concrete) del controllo sociale perseguito dal sovrano attraverso lo strumento penale. Non per niente tracce del pensiero di Beccaria si possono rinvenire nell’opera riformatrice dei sovrani «illuminati» dell’epoca, da Caterina II di Russia a Giuseppe II d’Austria a Pietro Leopoldo di Toscana così come nei fermenti pre-rivoluzionari del Plan de legislation criminelle di Marat.
Dal punto di vista teorico, la posizione di Beccaria trova la propria rispondenza nell’adozione di una concezione generalpreventiva, cioè di quella concezione per la quale la pena deve colpire il colpevole di un crimine per sortire un effetto di dissuasione nei confronti della generalità dei consociati: nella convinzione che costoro sappiano ogni volta ben calcolare costi e benefici della propria condotta, e che quindi non s’inducano a delinquere in presenza di un sistema penale che massimizzi il rischio di pena e minimizzi la convenienza del crimine.
Entro tale quadro teorico, però, le stesse proposte di abolizione della pena di morte e della tortura giudiziaria, veri capisaldi dell’umanitarismo penale di Beccaria, derivano in realtà dalla ritenuta inutilità di detti istituti per il sistema penale, di cui anzi pregiudicherebbero l’effettività: tant’è vero che così l’una come l’altra vengono da Beccaria stesso ammesse, sia pure in circostanze eccezionali, laddove invece ritenute efficaci ai fini della tenuta del sistema (nella Relazione di minoranza, scritta con Gallarati Scotti e Risi, egli seguita a giustificare la pena capitale per i casi di sedizione e di tumulto; quanto poi alla tortura, nello stesso Dei delitti e delle pene viene ammessa almeno in un particolare caso: quello del testimone reticente, là dove ricorrano ragioni di ordine pubblico). Per le medesime ragioni di politica criminale, poi, Beccaria teorizza la riduzione del delinquente a «bestia di servigio», corrispondente a una condanna ai lavori forzati, come pena esemplare che meglio dovrebbe valere a trattenere dal crimine la gran maggioranza dei consociati.
E nonostante tutto, residua al fondo di quest’opera cruciale un principio di liberalismo, perlomeno nel cercare di porre un freno razionale al dispiegarsi del potere sovrano: come si legge in chiusa, «perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata à delitti, dettata dalle leggi» [Beccaria (1764) 1984, p.129].
La teoria penale di Beccaria, non schiettamente liberale nella sostanza così come poco «italiana» nelle idee portanti (guardando egli a Montesquieu, Voltaire, Rousseau e in generale agli autori francesi), costituiva espressione di un certo bouillon de culture, al quale si possono ricondurre significative opere coeve come quelle di Verri, Risi, Natale, Goodricke. Ciononostante, per concisione, chiarezza e diffusione del «messaggio», fu essa a porre le basi per una rinnovata riflessione penale all’insegna delle libertà individuali. Gli inizi di questa nuova stagione si possono già intravedere nella Scienza della legislazione (1780-1788) del giurista Gaetano Filangieri (1753-1788), monumentale opera concepita con caratteristiche quasi codicistiche, e apparentemente tesa a «riplasmare» la società, ma che in realtà riapre alla «tradizione», per ritrovarvi un senso del giuridico che in Dei delitti e delle pene si direbbe smarrito tra gli ideologismi illuministici. Ne deriva una prospettiva di inconsueta ampiezza che, «affacciata» sull’antichità classica, reintroduce motivi di ascendenza giusnaturalistica scartati, o comunque passati in secondo piano in Dei delitti e delle pene (a favore dell’impianto contrattualistico), e sintetizzabili nel nesso tra diritto divino, natura, morale, giustizia.
In quegli stessi anni, poi, l’incipiente riflessione penale liberale italiana cominciava altresì ad assumere vero e proprio carattere dottrinale grazie all’apporto di Francesco Maria Pagano (1748-1799), giurista che compì un passo decisivo verso l’affrancamento della teoria penale da quell’utilitarismo politico-criminale a essa connaturato nella sintesi di Beccaria. Espressione prima di questa svolta è una concezione della pena che, abbandonando il generalprevenzionismo, abbraccia il «retribuzionismo». Per quest’ultima concezione, com’è noto, la pena si giustifica quale castigo che spetta al colpevole per il male arrecato ad altri, avendo egli tenuto una condotta lesiva da cui doveva, e poteva, astenersi. Ovviamente, come in ogni concezione retribuzionistica anche nella concezione di Pagano (che peraltro rimane invischiata in logiche arcaiche di taglione e di pubblica vendetta), si pone il problema di definire – di volta in volta – il «male» da colpire con la pena a esso proporzionata (e non possiamo in proposito dimenticare che diversi autori considerati liberali hanno ammesso la stessa pena capitale).
Con Gian Domenico Romagnosi (1761-1835), autore spesso accostato a Jeremy Bentham e Paul Johann Anselm von Feuerbach a formare la triade dei numi tutelari del liberalismo penale, la riflessione italiana esce dagli angusti confini della cultura illuministica francese che aveva innervato l’opera di Beccaria, per estendersi all’orizzonte europeo, e rinnovare lo stesso utilitarismo penale.
Nella famosa Genesi del Diritto penale (1791), Romagnosi si occupa dell’origine «naturale o metafisica» del diritto di punire, distinguendola tanto da quella «storica o accidentale» quanto da quella «morale», per approdare a un utilitarismo che si concreta nei principi di eguaglianza, giustizia, libertà ed equità, da lui condensati nel precetto evangelico: «Ciò che non vuoi che sia fatto a te, non fare ad altri, e quello che tu esigi dagli altri, praticalo tu verso di essi» [Romagnosi (1791) 1996, p. 139]. Su tali premesse egli viene così precisando il concetto di difesa sociale, invero centrale nel diritto penale moderno. In particolare, Romagnosi sottolinea che se «la società concorre alla difesa dei singoli suoi membri al fine di serbare se stessa allo stato di aggregazione», «in forza del delitto» essa «acquista un incontrastabile diritto ad arrecar un dato male al delinquente», «sciolta da quel vincolo di dovere, che trattenevala dal nuocergli», mentre «il delinquente perde [il] diritto d’essere rispettato nell’esistenza e negli altri beni» [ivi, p. 197]. Non colpisce, pertanto, che Romagnosi aderisca anch’egli alla teoria generalprevenzionistica, chiarendo anzi che il sistema penale tutto trova a un tempo la propria giustificazione e il proprio limite nella «contro-spinta morale» che determina rispetto all’impulso criminale degli individui.
Altra figura degna di nota, nel panorama del liberalismo penale italiano, fu quella di Giovanni Carmignani (1768-1847). Ancorché si tratti di un autore di passaggio, che tenta di incrociare un giusnaturalismo «spiritualistico» con un illuminismo più eclettico che mai, è pur vero che Carmignani ragiona ormai con decisione di diritto penale in termini di libertà da garantire ai consociati. Come si legge nei suoi Elementa juris criminalis (1822-1823): «L’interna sicurezza sociale, della quale solo il Diritto criminale si occupa […], dipende da ciò: 1) che la costituzione del sommo impero […] detragga dalla naturale libertà dei cittadini quella sola parte la cui detrazione sia strettissimamente necessaria al conseguimento della sicurezza medesima […]; 2) che quell’avanzo della naturale libertà dei cittadini […] resti sacro e inviolabile contro ogni eccesso degli uomini, delle leggi e dei magistrati» [Carmignani 1863, p. 5].
Più in generale, nelle pagine di Carmignani si trovano ormai ben sviluppati molti temi che diverranno centrali nella successiva riflessione liberale italiana sul diritto penale: a cominciare dal primato della legge, che introdurrebbe, sotto forma di libertà civile, l’unico accettabile succedaneo della libertà naturale degli individui.
Nei primi decenni del secolo XIX, il filone proto-liberale di ascendenza illuministica venne rivedendo l’impostazione originaria, sfumando progressivamente in qualcosa di diverso. Come in Carlo Cattaneo che, sulle orme del Verri, volge la propria attenzione alle condizioni disumane della vita carceraria del tempo [Delle carceri, della deportazione, delle galere; 1847], offrendo un significativo contributo a un movimento per l’umanizzazione della pena – latamente liberale, salve certe tentazioni «correzionali» – che andava sviluppandosi a livello europeo, e che annoverò autori come Beaumont, Tocqueville, Lucas, Howard, Arenal.
E con lo sfumare del filone riformistico, ecco delinearsi un secondo filone di liberalismo penale italiano, alternativo al primo, che si propone di ricondurre a termini morali, e dunque metapolitici, il rapporto tra giure penale e umana libertà. Stemperata di un certo rigorismo del passato (ben scorgibile nel Genovesi), tende così a riemergere ed affermarsi la concezione di pena come retribuzione di un male commesso nei confronti di individui e, solo di riflesso, nei confronti della società tutta, sostituendosi all’idea generalpreventiva di matrice utilitaristica, e anzi in certo qual modo inglobandola (emblematico De Giorgi, Idee fondamentali sopra le legge dell’ordine morale, in appendice all’edizione delle Opere di Romagnosi del 1841).
Per quanto, però, il dibattito con l’utilitarismo penale si faccia acceso (si veda il carteggio Mamiani-Mancini, Fondamento della filosofia del diritto e singolarmente del diritto di punire – 1841), e non manchino contemporanei esempi di concezioni «retrive» (si veda il Taparelli d’Azeglio di Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sui fatti – 1851), l’idea retributiva viene rivalutata dalla cultura penale liberale dell’epoca, ancorché con una certa cautela.
Antonio Rosmini Serbati (1797-1855), per esempio, evidenzia i limiti nei quali incorre il diritto penale, stante l’ordine umano di giustizia a cui appartiene, e ricomprende le ragioni della difesa sociale in una più alta istanza di giustizia affidata all’idea retributiva, richiamando il potere politico all’esigenza di non usare comunque dello strumento penale per estromettere il puniendo dalla società.
Anche Pellegrino Rossi (1787-1848) evidenzia quei limiti umani nella conoscenza e nell’azione che, lungi dal vanificare la giustizia terrena, ne riconfermano l’essenzialità di compito inesauribile di riconduzione del giuridico al morale, e nel recuperare l’istanza etica come istanza fondativa del giure penale ammette la possibilità degli effetti intimidativi e financo emendativi della sanzione penale.
È però solo con Francesco Carrara (1805-1888), allievo di Carmignani, che ci troviamo finalmente dinanzi a un compiuto liberalismo penale italiano, corrispondente al secondo dei filoni enucleati all’inizio della presente trattazione.
Con il suo imponente sistema, Carrara opera una mirabile sintesi dell’intera riflessione penalistica precedente in termini anti-utilitaristici, considerando la condotta penalmente rilevante, quale rimproverabile uso del libero arbitrio, come «ente giuridico» la cui «essenzialità deve consistere impreteribilmente nella violazione di un diritto» [Carrara 1993-2004, I, p. 32]. Corrispondentemente, il «fondamento» della pena, nella teoria carrariana, viene riconosciuto nella «tutela giuridica», vale a dire, nella tutela, di cui s’incarica lo Stato col suo diritto penale, degli inalienabili diritti connaturati all’individuo umano, e la cui garanzia ultima è di natura trascendente («la legge eterna […] promulgata da Dio», egli dice). Peraltro, nel concreto dell’esperienza, la pena statuale deve ubbidire anche ad una «finalità» più contingente, presentata come «ristabilimento dell’ordine esterno della società», attraverso la legge penale in vigore, e ciò può comportare che si debba tollerare, accanto alla previsione di condotte che costituiscono nel concetto reato, in quanto appunto violazioni di diritti soggettivi (mala in se), la previsione di condotte che per se stesse costituiscono mere trasgressioni di precetti accidentalmente provvisti, dallo Stato, di comminatoria penale (mala quia prohibita). Ciò che rimarca ulteriormente il compito, di cui è investita la scienza criminale, «di frenare le aberrazioni dell’autorità sociale nel “divieto”, nella “repressione”, e nel “giudizio”, onde questa si mantenga nelle vie di giustizia e non degeneri in tirannia» [ivi, p. 31]. Carrara, del resto, ha ben chiara l’impossibilità, per l’uomo, di attingere un criterio ultimo per scindere il bene dal male e quindi di proporzionare perfettamente, nella retribuzione, il male della pena al male del reato.
La teorica di Carrara, pur incline ad una certa astrattezza, ha segnato un punto di riferimento per schiere di penalisti italiani che si riconobbero nella sua vocazione liberale, venendo riconosciuti unitariamente come Scuola classica. A parte i vari Brusa, Buccellati, Canonico, Giuliani, Tolomei, Zuppetta, autori degni di nota, ma di non eccezionale levatura, se ne possono contare diversi altri che forse meglio testimoniano la vitalità della lezione carrariana: pensiamo a Pessina, Lucchini, Ellero, Impallomeni.
E tuttavia il liberalismo penale italiano, al quale Carrara aveva finalmente conferito una fisionomia precisa, si trovò presto impegnato sul fronte del positivismo penale difeso dalla nascente Scuola positiva di Lombroso, Ferri e Garofalo, nella cui istanza di modernizzazione scientifica esso intravide, e giustamente, enormi rischi per la libertà individuale. Basti pensare all’assunto di base di una caratterizzabilità antropologica, psicologica e sociologica del delinquente che permetterebbe di riconoscere un più o meno elevato grado di pericolosità congenita e/o acquisita negli individui; stanti tali premesse deterministiche la pena non poteva che venire concepita come «prevenzione speciale», e cioè in funzione di una pericolosità presunta, in forza di certi pretesi riscontri scientifici, e dunque anche in mancanza di qualsiasi fatto di reato.
Nondimeno si rivelò un errore, commesso dalla gran parte degli esponenti della Scuola classica italiana, limitarsi a osteggiare la richiesta di apertura del diritto penale agli apporti scientifici, perdendo di vista la concretezza del fenomeno criminale in un’epoca in cui, avvenuta da poco l’unificazione nazionale, questo veniva percepito più vivamente dall’opinione pubblica, anche nei suoi legami con squilibri sociali e sommovimenti politici vari (come in primis la questione del brigantaggio meridionale).
La furibonda lotta che divampò tra le Scuole classica e positiva, egualmente dogmatiche (l’una rispetto al libero arbitrio, l’altra rispetto al determinismo), non poté che condurre a un punto morto, e fu così che in Italia, a partire dall’età giolittiana, il pensiero penale venne assumendo una curvatura critica nei confronti di entrambe, cercando una via d’uscita ora attraverso un approccio tecnico-giuridico (il quale peraltro, facendo della legge penale statuale un nuovo dogma, riuscì molto congeniale, nella sua pretesa neutralità, al nascente regime fascista), ora, al contrario, con un approccio «umanistico» (cristiano o moral-naturalistico).
Comunque sia, con la temperie di cui sopra, vennero meno – in Italia come altrove – le grandi individualità e, altresì, le grandi scuole che avevano gettato le fondamenta (anche) di un pensiero penale liberale. Le vicende belliche, e immediatamente postbelliche, fecero il resto, aprendo a un periodo – che coprì gli anni ’50-’60 del secolo XX – in cui il pensiero penale liberale si eclissò nel dibattito italiano, in un quadro ordinamentale più complesso che mai (attesa l’esigenza di risolvere il pregresso ordinamento fascista in quello repubblicano). Per lunghi anni, le convinzioni liberali, più che tradursi in articolate teorie, poterono perlopiù trapelare nella rilettura del diritto penale vigente, e talora anche al servizio di un impegno politico: com’è senz’altro il caso di Enrico De Nicola (1877-1959), primo Presidente della Repubblica sorta dalle ceneri dell’Italia fascista, al quale si deve un impegno costante in tal senso, oltre a un sostanzioso corpus di scritti che sottolinea il ruolo fondamentale delle garanzie processualpenalistiche. E questo a fronte di una dogmatica non di rado sensibile ad istanze liberali, benché forse a tutta prima non riconoscibili per tali, specie nei casi in cui venivano richiamati valori che sembravano più che altro condurre su un terreno filosofico-morale, sovente cristiano, rinovellando idee «umanistiche»: emblematica, a questo riguardo, la posizione di Giuseppe Bettiol (1907-1982).
Con gli anni ’70 del Novecento si rese però ancor più difficile, per i giuristi liberali, tornare a riflettere sui confini della reazione punitiva statuale in una situazione d’emergenza nazionale, dovuta all’imperversare di un terrorismo dai molti volti. Di questi anni, semmai, andrà ricordato l’imperituro sacrificio di chi, come l’avv. Fulvio Croce (1901-1977), diede la propria vita in difesa dei valori liberali quali unici valori in grado di fondare il diritto penale.
Poco a poco, però, si rideterminarono le condizioni per tornare a dibattere sui fondamenti stessi del diritto di punire, e si ricominciò a farlo, in campo liberale, con piglio fortemente critico e, in certo qual modo, reazionario.
L’opera-manifesto di questa rinnovata capacità critica del liberalismo penale, Perché punire? (1978), si deve a un acuto filosofo, di formazione kantiana, Vittorio Mathieu, il quale ha prima di tutto buon gioco nel denunciare le contraddizioni della teoria penale contemporanea, tutta intrisa di un umanitarismo senza umanità e ipocritamente paga solo di una pena che non sia pena (e non a caso spesso fortemente critica nei confronti del liberalismo: come emerge dagli scritti di Baratta e Costa). Centrale, nell’auspicato recupero del senso stesso della giustizia penale, il concetto di libertà, alla luce del quale Mathieu rimette in discussione il ruolo (secondario) dello Stato, riportando in primo piano la necessità di una legislazione penale che si sostanzi nella tutela della libertà dei consociati: «ciò che si vuol difendere, punendo il delitto, non è un particolare sistema, bensì la “possibilità trascendentale” di rapporti tra volontà libere. […] È evidente che, buono o cattivo che sia, l’intento del diritto penale […] è di prendere sul serio la libertà» [Mathieu 1978, pp. 170-171]. Di talché, nel contesto dell’ordinamento giuridico, le norme civili stanno alle norme penali come le regole di un gioco stanno alla possibilità medesima del giocare.
Se in Perché punire? rivivono i fasti del classicismo penale, con un forte atteggiamento critico verso l’impostazione illuministica, nell’anno stesso della sua pubblicazione veniva anche dato alle stampe un altro lavoro di dichiarata impronta liberale che si riallacciava invece espressamente al filone razionalistico dell’illuminismo penale, facendo soprattutto leva sui principi di legalità e certezza del diritto. Stiamo parlando de Il problema filosofico della pena di Mario Alessandro Cattaneo, le cui conclusioni, tributarie al pensiero illuministico italiano anche di un certo eclettismo, negli anni successivi verranno riprese e sviluppate in molti altri lavori, tra cui ricordiamo Pena diritto e dignità umana (1990).
Eppure, senza nulla togliere a opere come quelle succitate, che hanno ravvivato un dibattito filosofico-penale fino a non molto prima considerato d’altri tempi, bisogna riconoscere che l’apporto più influente dell’ultimo decennio, per l’architettura non meno che per l’ambizioso disegno di una teoria generale del garantismo, si deve a Luigi Ferrajoli: si tratta di Diritto e ragione (1989), imponente trattazione dei principi fondamentali del diritto penale ormai giunta alla 9^ edizione, e tradotta anche all’estero.
Ferrajoli, come Cattaneo, declina motivi del classicismo penale con un utilitarismo di derivazione illuministica, concependo la sanzione penale come extrema ratio, finalizzata a evitare il male maggiore, e cioè la ragion fattasi. A differenza di Cattaneo, però, la torsione della teoria penale di Ferrajoli risulta di liberalismo sociale, e ancorata a un modello di Stato di diritto democratico che appare piuttosto astratto, e comunque, nell’ottica in cui si pone l’autore, oggetto al più di adesione fideistica. Ne risulta con ciò minato l’intero sistema garantista, i cui principi cardinali, pur ricavati dalla tradizione, vengono risolti nell’opzione politica di fondo, e proposti nei termini di un’autoevidenza assiomatica che esclude qualsiasi possibilità di fondazione propriamente razionale.
Se il liberalismo penale del nostro tempo, pur secolarizzato e frutto di molte contaminazioni, sembrerebbe dunque dibattersi, in sostanza, tra i due filoni storici in precedenza esaminati, in una direzione nuova, e vicina alle tesi libertarie, sembra invece muoversi la recente teoria riparazionistica della pena, andando a costituire il terzo e ad oggi più innovativo filone del liberalismo penale italiano.
Non che non si fosse parlato già in passato di riparazione penale.
In Italia, tra l’altro, questa concezione non fu certo prerogativa di autori che si riconoscevano nel liberalismo (se liberali come Romagnosi e Carrara la criticarono, almeno quale finalità fondamentale della pena, altri liberali come Rosmini, e addirittura il positivista Garofalo, la difesero), e ha trovato un punto di riferimento in opere, come quelle di Del Vecchio e Amato, dalle connotazioni variegate.
Se guardiamo all’estero, poi, anche molto di recente, sono venute in evidenza diverse teorie riparazionistiche che hanno proposto la «privatizzazione» della pena per ridare spazio e dignità alle vittime di reato (tra le opere di riferimento, To serve and protect – 1998, di Benson, e Las contradicciones del derecho penal – 2000, di Rojas).
Il contributo più rappresentativo di questo filone di liberalismo penale italiano sembra dovuto a Francesco Cavalla, e ha per titolo La pena come riparazione. Oltre la concezione liberale dello stato: per una teoria radicale della pena (2000). Ancora nel 1978, con un’opera controcorrente (la monografia La pena come problema), Cavalla aveva denunciato il comune atteggiamento razionalistico delle teorie penali moderne (ivi comprese quelle della Scuola classica), consistente nel rifiutarsi di radicalizzare la critica al preteso «diritto di punire» dello Stato, e dunque nell’accettare un potere di fatto esercitabile sugli individui senza incorrere in altri vincoli che in quelli che lo Stato stesso s’è posto.
Per contro, invece, bisogna riconoscere che l’unica alternativa percorribile, per la giustizia penale, è quella di rinvenire una mediazione che, evitando la contraddizione di usare una forza differente solo di grado rispetto a quella usata dal delinquente, tenga in uno i diritti della vittima di reato e quelli dello stesso reo, non certo calpestabili in considerazione del reato (e ciò non in virtù di un astratto garantismo, bensì per ragioni di principio). L’autore prende così le distanze dall’idea di mediazione corrente in Italia, non solo perché questa di frequente cela in sé presupposti antitetici rispetto al liberalismo, ma anche perché vede nella riparazione una via d’uscita dalla giustizia penale, anziché la struttura della stessa. Per Cavalla, invece, l’ordine reintrodotto nella società dalla pena pubblica dovrà costituire mediazione nel senso che potrà considerarsi «valido – cioè, «buono», degno di essere osservato da una pluralità di soggetti – [se e solo] se comprende in se stesso, prevedendola, la possibilità del proprio superamento» [Cavalla (2000) 2004, p. 77]: se, cioè, lo Stato per primo è disposto ognora a rimettere in gioco il senso e il portato dei propri precetti penali ai fini di una più adeguata tutela dei diritti individuali della vittima, e del loro contemperamento con quelli del reo. Tutela che si ottiene solo stabilendo, nel concreto dell’esperienza, le migliori modalità di riparazione del danno di reato.
Mette conto infine segnalare, tra i numerosi scritti di autori ascrivibili alla scuola di Francesco Cavalla, la prospettiva di Federico Reggio, il quale apre criticamente alla Restorative Justice statunitense, specie nella versione fornitane da Howard Zehr (Changing Lenses – 1990), lasciando intravedere nuovi, promettenti sviluppi del filone riparazionista.
Bibliografia
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