Distribuzione del reddito
di Alberto Quadrio Curzio e Ilaria Pasotti
Sin dalle origini la scienza economica si è interessata della distribuzione del reddito e della ricchezza. Frequente [Quadrio Curzio 1972, 1993] è individuare quattro tipologie di dottrine sulla distribuzione del reddito che, in via di sintesi, denominiamo come segue: sociale di impronta Classica; funzionale di impronta Marginalista; delle forme di mercato di impronta Marshalliana; personale di impronta Paretiana.
Inoltre si è distinta, pur riconoscendone le sovrapposizioni e le connessioni, la distribuzione del reddito da quella della ricchezza.
Nell’esaminare il contributo degli economisti liberali italiani non si potrà applicare questo schema di classificazione perché in molti di essi vi è una composizione delle diverse impostazioni alla quale si sovrappone una forte attenzione agli aspetti istituzionali. La ragione di ciò sta nel fatto che quasi tutti gli economisti liberali italiani nei due secoli considerati erano anche impegnati politicamente o civilmente e questo li rendeva meno astratti e quindi più inclini a un razionale pragmatismo capace di combinare teoria e istituzioni, politiche e realtà. L’analisi teorica di questi economisti influenzava la loro azione politica o civile che, a sua volta, dovendosi misurare con la realtà, rendeva flessibile l’impostazione dottrinale. Non vi era in loro dunque dogmatismo teorico. Ogni economista liberale italiano è stato, in misura più o meno ampia, uno scienziato ma anche un attore nel sociale e nel politico e non solo un teorico. Per questa ragione ognuno va considerato a sé con le sue peculiarità. Data questa premessa, si pone allora un quesito: in base a quale paradigma si classifica come liberale un economista italiano nel periodo considerato? Lasciando alla conclusione una risposta a esso, procediamo alla valutazione del pensiero di alcune personalità a nostro avviso emblematiche tra gli economisti liberali italiani. Di queste tratteggiamo in modo schematico i principali contributi alla teoria della distribuzione, poiché si tratta di figure accreditate anche internazionalmente come studiosi e accademici che coprono temporalmente i due secoli considerati: Carlo Cattaneo, Francesco Ferrara, Maffeo Pantaleoni, Vilfredo Pareto, Luigi Einaudi, Costantino Bresciani Turroni. È questa una nostra scelta personale – che potremmo definire di accademismo liberale – nella consapevolezza che ci sono anche molti altri economisti liberali italiani ma che quelli selezionati sopra ci pare possano rappresentare figure paradigmatiche come combinazione tra impostazione accademica e impostazione politica. Nella parte finale delineiamo diversi approcci teorici alla distribuzione del reddito, che ricomprendono in una articolata sintesi diversi altri protagonisti del pensiero economico liberale a noi temporalmente più vicini. Anche se non potremo considerare molte personalità troppo recenti per poter dare sulle stesse quello che può definirsi un giudizio storico.
Carlo Cattaneo (1801-1869) è una delle maggiori figure liberali (o meglio liberal-riformiste) della prima metà del secolo XIX. Nella sua riflessione sono individuabili almeno tre principi generali sulla distribuzione della ricchezza. Il primo riguarda la correlazione tra i fattori che determinano la crescita della ricchezza di una nazione e la distribuzione della stessa. La ricchezza deriva dal contributo del lavoro e dell’umana creatività alla produzione e dall’accumulazione del capitale attraverso il risparmio. Di conseguenza: «I frutti si ripartiscono secondo l’importanza e la difficoltà del servizio, la rarità del talento, e la quantità di capitale collocata a coltivarlo» [Cattaneo 1839, p. 249]. Il secondo concerne la diseguale distribuzione del reddito e della ricchezza: «È un’illusione il credere che lo sviluppo della ricchezza sociale possa ottenersi senza un certo diseguale riparto» [Cattaneo 1839, p. 248]. Per Cattaneo, infatti, una distribuzione della ricchezza su base egualitaria comporterebbe un indebolimento dei fattori che sono connessi alla proprietà privata: «l’emulazione, la temperanza, l’economia [risparmio, N.d.R.]» [Cattaneo 1839, p. 248]. Scrive Cattaneo che «se oggi si desse a ciascun cittadino la stessa quantità di beni, il giorno successivo tale rapporto sarebbe già alterato perché alcuni avrebbero consumato nell’ozio la propria parte, mentre altri potrebbero risparmiarla; inoltre, se si dovesse ristabilire il rapporto di partenza ogni volta, si punirebbero il risparmio e la temperanza, avviando un processo di decadenza dell’industria e quindi di povertà generale» [Cattaneo 1839, p. 248]. Infine, il terzo principio rileva il ruolo delle istituzioni nella definizione dei rapporti tra le classi sociali nella distribuzione del reddito. Oltre agli strumenti giuridici, vi sono consuetudini e pratiche che regolano i rapporti tra proprietari e fittaioli: «lunga durata dell’affitto», «miglioramento rimborsabile», «bilancio di riconsegna», «certezza del possesso», «censo» [Cattaneo 1847, pp. 124-125]. Il liberalismo di Cattaneo si incardina sul rapporto tra proprietà-iniziativa-lavoro collocati in una cornice istituzional-sociale che inclinano a un riformismo liberale tipico della concezione cattaneiana di incivilimento [Quadrio Curzio, 2007].
Francesco Ferrara (1810-1900) riconduce a un principio unitario le determinanti del reddito, in polemica con gli economisti classici. Egli estende all’analisi della distribuzione il concetto di costo di riproduzione, mutuato da Carey ma sviluppato in modo originale a fondamento della sua teoria del valore e dello scambio [Ferrara 1856]. Egli scrive: «Da un lato adunque la formola del valore, che governa ogni cambio, deve inesorabilmente governare la partecipazione alla ricchezza; […] il contadino e il proprietario, il lavorante e il capitalista, si cedono a vicenda una parte della produzione comune, ed a vicenda ricevono l’utilità dello strumento, capitale o terra, o l’utilità del lavoro» [Ferrara 1853, p. 83]. A partire da questa impostazione, per Ferrara «cadono tutte le ipotesi d’ingiustizia nella distribuzione della ricchezza» [Ferrara 1856, p. 83]. Se esistono differenze nella distribuzione della ricchezza, esse derivano da due fonti che egli giudica diversamente. La prima è la naturale diversità tra gli individui per cui diverse sono le capacità di concorrere alla produzione e di partecipare alla distribuzione e che la trasformazione del lavoro passato in proprietà tende a consolidare e perpetuare [Ferrara 1853, p. 82]. La seconda fonte di diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza è la legislazione economica che limita il funzionamento delle leggi naturali, accordando ad alcuni individui la partecipazione alla distribuzione delle ricchezze in misura più che proporzionale al loro concorso alla produzione e a scapito di altri individui. Ferrara dunque critica le teorie di riforma sociale avanzate dal comunismo e dal socialismo che sostengono la necessità di eliminare la diseguaglianza tra gli individui e di regolamentare i rapporti di lavoro. Infatti, egli ritiene che una maggiore uguaglianza sociale ed economica comporterebbe un minor incentivo verso la produzione e una minore libertà di agire delle forze sociali ed economiche con una conseguente riduzione della ricchezza complessiva [Ferrara 1934-1935, pp. 107-110; 142-143]. Diversamente, attraverso le leggi naturali, le quali coincidono con quelle di mercato, ciascuno riceve in proporzione al suo contributo alla produzione. A ciò si connette anche il favore di Ferrara per le imposte proporzionali [Ferrara 1934-1935, p. 688].
Maffeo Pantaleoni (1857-1924) è il principale protagonista dell’affermazione del marginalismo in Italia del quale egli individua anche diverse criticità.
Nel contesto analitico dell’equilibrio parziale, Pantaleoni afferma che «la teoria della distribuzione non è altro della teoria del prezzo (o del valore) dei beni instrumentali. All’infuori di questi redditi non esistono che redditi caritativi e redditi da eredità» [Pantaleoni 1913a, p. 20]. Il prezzo di ciascun fattore di produzione è dato dalla sua produttività marginale. Tuttavia, Pantaleoni avverte anche la scarsa corrispondenza tra il sistema economico reale e quello descritto dagli schemi teorici con le sue implicazioni sull’ottimo impiego delle risorse operato dalla concorrenza e dalla distribuzione di reddito mediante il principio della produttività marginale. Con specifico riferimento alla distribuzione della ricchezza, Pantaleoni scrive nel 1898: «parlare di distribuzione di ricchezza e limitare in pratica la discussione – come il più delle volte fanno gli economisti – ai fenomeni di scambio, senza curare l’eredità, le leggi sulla proprietà e sui trasferimenti di essa, senza curare i rapporti di status già esistenti da tempo e quelli di nuova formazione, senza studiare la guerra, la tassazione, i furti, le truffe, non è questo forse un viziare tutto l’argomento in tal modo da rendere possibile la costruzione di qualsiasi teoria del tutto arbitraria?» [Pantaleoni 1898, p. 330]. Pantaleoni individua dinamismi economici, sociali e politici legati soprattutto allo sviluppo del sistema rappresentativo [Pantaleoni 1907-1909]. Tra questi: la «tendenza alla crescita delle spese generali» o fisse rispetto a quelle «specifiche» o variabili, connessa alla crescente dimensione delle imprese; il modificarsi delle condizioni di concorrenza nelle contrattazioni tra salariati e capitalisti per effetto della formazione dei «sindacati» e delle «leghe»; la formazione di assetti «parassitari» e «predatori»; l’espansione del settore pubblico e la conseguente creazione di un sistema di «prezzi politici» per alcuni beni e servizi. In particolare, il concetto di «prezzo politico» si inserisce nella sua riflessione sui fenomeni finanziari, che, avviata all’inizio degli anni Ottanta del XIX secolo, si impone per originalità nella letteratura italiana e non solo, in quanto sviluppata attraverso l’applicazione dello schema teorico marginalista [Pantaleoni 1883]. Definito il «prezzo politico» come prezzo che viene fatto pagare per la fornitura di un bene o servizio pubblico decisa da una classe politica dominante, Pantaleoni afferma che «il genere meno avvertito eppure più universale di prezzo politico è fornito dall’imposta» [Pantaleoni 1911, p. 23]. Infatti, un’imposta definita in funzione del reddito (sia proporzionale, progressiva o regressiva) introduce una discriminazione tra gli individui, «salvo il caso unico in cui il consumo che il cittadino fa di questi servizi o merci fosse la medesima funzione del suo reddito che si ha per l’imposta» [Pantaleoni 1911, p. 23, corsivo in originale].
Vilfredo Pareto (1848-1923) è l’economista che sviluppa l’analisi marginalista nello schema dell’equilibrio economico generale, ripreso nella costruzione originaria di Walras ma esteso e affinato nel suo rigore formale sulla base di nuovi concetti analitici.
Coerentemente con la condizione che definisce l’equilibrio economico generale e lo identifica con «il massimo di benessere (massimo di ofelimità) agli scambisti, tra i quali sono compresi i possessori dei diversi servizi» [Pareto (1896-1897) 1971, p. 54], la remunerazione di ciascun fattore produttivo (o «capitali» nella denominazione paretiana) coincide con il prezzo in corrispondenza del quale si ha uguaglianza tra la loro domanda da parte degli imprenditori e la loro offerta da parte dei loro possessori.
L’analisi teorica paretiana si muove anche in un’altra e più innovativa linea che, a partire da un’indagine empirica, conduce alla formulazione della legge di distribuzione dei redditi personali [Pareto (1896) 1971]. Sulla base di redditi individuati da statistiche fiscali, Pareto rileva che la curva di reddito tende a distribuirsi in modo pressoché invariante in Paesi e periodi storici diversi. A partire da questa legge, Pareto deduce due teoremi. Il primo afferma che la ripartizione dei redditi non è effetto del caso [Pareto (1896-1897) 1971, p. 988]. Il secondo dimostra che per far aumentare il livello del reddito minimo o diminuire la disuguaglianza dei redditi occorre che la ricchezza aumenti più rapidamente della popolazione [Pareto (1896-1897) 1971, p. 1002]. In tal senso, Pareto conclude: «il miglioramento delle condizioni delle classi povere è un problema di produzione della ricchezza» [Pareto (1896-1897) 1971, p. 1097]. Graficamente, la curva assume la forma «della punta della freccia o, se si preferisce, della punta d’una trottola», con i redditi più alti disposti al vertice, molto allungato, e il valore modale posto al livello medio-basso [Pareto (1896-1897) 1971, p. 346]. Questa analisi si intreccia con la sua riflessione sulla società. Infatti egli osserva che l’intervallo attorno al valore modale è «il crogiuolo dove si elaborano le future aristocrazie; da quella regione vengono gli elementi che salgono nella regione superiore», mentre gli elementi inferiori della regione medio-bassa vengono risucchiati nella regione infima, «ove vengono eliminati» [Pareto (1906) 1994, p. 369].
La linea di analisi paretiana è stata proseguita (in Italia ma anche all’estero) da statistici ed economisti con studi, sia teorici che empirici, sviluppati a partire sia da posizioni critiche sia di condivisione della costruzione paretiana. Tra questi ricordiamo negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione dell’opera di Pareto, gli studi di Rodolfo Benini (1897), di Costantino Bresciani Turroni (1905; 1906), di Giorgio Mortara (1909) e la formulazione da parte di Corrado Gini (1910) dell’indice di concentrazione che porta il suo nome.
Luigi Einaudi (1874-1961) è un economista la cui analisi della distribuzione del reddito ha una portata istituzionale anche per il ruolo cruciale delle imposte che non può essere compressa dentro il marginalismo a meno che tale assonanza sia limitata al fatto che le retribuzioni dei fattori devono essere correlate alle prestazioni.
Einaudi afferma la necessità di distinguere tra l’analisi applicata ad uno «schema teorico […] in cui sia vera la ipotesi astratta della concorrenza» [Einaudi 1949, p. 41] e l’analisi della realtà economica a lui contemporanea. Nella prima per Einaudi deve mantenersi valido il principio «che ognuno riceverebbe come prezzo dei propri prodotti, dell’uso del proprio capitale e delle proprie forze di lavoro, quella remunerazione che corrisponde esattamente al costo, al merito, al contributo fornito alla produzione complessiva» [Einaudi 1949, p. 41]. Nella seconda analisi invece devono considerarsi due aspetti. Il primo è la presenza di monopoli, siano essi naturali o artificiali, per cui «invece di remunerare i singoli fattori in rapporto al rispettivo merito, qui nascono grosse sacche di profitti a favore dei monopolisti. Questi assorbono una proporzione notevole, più o meno grande, di una massa minore di produzione» [Einaudi 1949, p. 45]. Il secondo aspetto deriva dalla constatazione che le posizioni iniziali degli agenti economici quando intervengono sul mercato sono tra loro differenti come risultato delle istituzioni vigenti nella società (tra le quali egli cita: il sistema educativo, l’esistenza di monopoli, il sistema politico) [cfr. Einaudi 1949, p. 50]. A partire da queste osservazioni Einaudi delinea i contenuti della «legislazione economica sociale», o in altri termini dell’intervento dello Stato che sia finalizzato al sostegno dell’efficienza di funzionamento del mercato e del processo di accumulazione. In tal senso, i monopoli devono essere o eliminati (monopoli artificiali) o regolamentati (monopoli naturali). Nel contempo, si deve «cercare di avvicinare, entro il limite del possibile, i punti di partenza e [ciò] si sviluppa secondo due linee: una è quella dell’abbassamento delle punte; l’altra quella dell’innalzamento dal basso» [Einaudi 1949, p. 52]. La finanza pubblica assume a questo proposito un ruolo fondamentale: da una parte un efficace e stimolante uso delle imposte attraverso la spesa pubblica può contribuire all’«innalzamento dal basso», dall’altra un adeguato sistema di tassazione può agire sull’«abbassamento delle punte». Preme soffermarci su quest’ultimo punto, e in particolare sulla posizione einaudiana nei confronti di due forme di tassazione, entrambe aventi quale principio cardine l’esenzione del risparmio, ovvero la fonte principale per la produzione e dunque la creazione di ricchezza. La prima è l’imposta ereditaria. Einaudi accetta che essa sia diretta solo agli eredi ma non al valore globale dell’asse ereditario: «libero cioè il creatore di una fortuna, piccola o grande, di trasmetterla, franca d’imposta ereditaria o gravata di moderate imposte, alla generazione successiva od a scopi collettivi da lui preferiti; ed incoraggiata perciò la formazione del risparmio ed il suo investimento produttivo» [Einaudi 1949, p. 213]. La seconda è l’imposta sul reddito, alla cui definizione Einaudi si dedica sin dall’inizio della sua carriera per approdare, attraverso il concetto di «ottima imposta» [Einaudi 1929], all’indicazione del reddito ordinario come base imponibile, ovvero «quel che l’uomo medio dovrebbe ottenere se usasse convenientemente, ossia secondo le norme osservate dal lavoratore o produttore ordinario, i mezzi produttivi personali e materiali da lui posseduti» [Einaudi 1949, p. 212]. Einaudi individua un precedente storico dell’imposta ottima in quell’imposta sul reddito catastale introdotta in Lombardia nel XVIII secolo [Einaudi 1929, p. 455].
Questa impostazione di Einaudi [Einaudi 1938, p. 244] ci riporta a un altro economista, da noi già considerato in queste note, che richiama la validità del sistema di tassazione sul reddito catastale: Carlo Cattaneo [Cattaneo 1847]. Questi due economisti sono simili anche per un altro aspetto riguardante la loro analisi della distribuzione del reddito: quello della relazione tra redistribuzione del reddito attraverso tassazione e territorio. Entrambi individuano nel federalismo il quadro istitituzionale-amministrativo ideale per organizzare un sistema tributario decentrato che coniughi l’esigenza di garantire l’esercizio delle funzioni di diversi livelli di governo, mantenendo sempre e comunque saldo il rispetto dell’unità nazionale, con la necessità di non aggravare il contribuente [Cattaneo 1849; Cattaneo 1850-1855; Einaudi 1982, pp. 226-245; 761]. Questo disegno istituzionale e le ragioni della sua opportunità è in entrambi esteso alla prospettiva dell’unificazione europea in uno stato federale [Cattaneo 1850-1855; Einaudi 1943; Einaudi 1944; Quadrio Curzio, Rotondi 2004].
Dopo queste grandi figure intendiamo delineare diversi approcci alla distribuzione del reddito che a nostro parere si possono distinguere nell’Italia postbellica e che mostrano una ricchezza di riflessione che ha quasi sempre un’impronta riformista che non può dirsi liberale in senso proprio del termine ma che non può essere trascurata nel mappare gli economisti italiani. Nell’elencazione che segue attuiamo delle radicali semplificazioni e sintesi che non rendono adeguatamente conto di questa ricchezza di contributi che essendo anche recenti risultano più difficili da collocare in una prospettiva storica. Inoltre, proponiamo delle «assonanze» tra le classificazioni e le personalità precedenti e le impostazioni postbelliche della distribuzione, pur riconoscendo che esse potrebbero anche essere considerate discutibili.
a) L’approccio istituzionale è stato impostato nella elaborazione della Costituzione della Repubblica italiana. La tematica della distribuzione del reddito emerge dagli articoli relativi alla finanza pubblica (artt. 23; 51; 81). I principi che informano questi articoli sono stati anche il risultato dei lavori preparatori per l’Assemblea costituente da parte della Commissione economica, presieduta da Giovanni Demaria (1899-1998) e composta tra gli altri da molti economisti italiani. In particolare, si fa qui riferimento ai lavori della Sottocommissione finanza (membri: Sergio Steve, Ezio Vanoni, Gaetano Stammati, Paolo Basevi, Giuseppe Micheli, Luigi Vittorio Berliri, Nunzio Bario), che si è avvalsa tra gli esperti dei contributi di Benvenuto Griziotti, Gino Borgatta, Francesco Coppola D’Anna, Valentino Dominedò, Ernesto d’Albergo. Questo approccio ha delle assonanze einaudiane nella misura in cui attribuisce alla tassazione e alla finanza pubblica un notevole ruolo nel correggere la distribuzione così come si genera attraverso il meccanismo del mercato.
Allo stesso appartengono tanti studiosi di scienze delle finanze italiani pur nella diversità dei modelli di economia pubblica adottati. Tra questi studiosi spicca Francesco Forte (1929) sia perché egli può considerarsi da raccordo tra due generazioni, sia perché egli attua una sintesi innovativa tra passato e futuro che si colloca nel solco dell’approccio di analisi finanziaria elaborato da Benvenuto Griziotti (1884-1956). La sistemazione di Forte è senza dubbio istituzionalista, ma si basa su un preciso modello di finanza pubblica, che è quello cooperativo, il quale tuttavia non è da intendersi nel senso riduttivo proprio di de Viti de Marco. Il modello di Forte si basa sia sul principio base per cui ciascuno riceve e paga in proporzione alla propria quota di contribuzione alla generazione di reddito (principio del merito, del beneficio, del costo ecc.) sia sul vincolo di mutualità fra i cooperatori. L’elemento di mutualità comporta una redistribuzione, nei limiti della rendita che si trae cooperando e del principio base predetto, che risulta compatibile con il mercato e lo sviluppo economico [Forte 2000; 2005; 2007].
Un’altra possibile variante dell’approccio istituzionale è quella che si rifà alla impostazione sociale dell’economia mista. Un esempio di questa impostazione è quello di Francesco Vito (1902-1968). Secondo Vito, il salario si determina nel «sistema di collaborazione» [Vito 1943, p. 194] fra imprenditori e lavoratori che, organizzati in associazioni legalmente riconosciute, stipulano contratti collettivi validi per tutti gli appartenenti alla categoria tenendo conto sia della produttività del lavoro sia del tenore di vita dei lavoratori sia dell’interesse generale dell’economia [Vito 1943, p. 194]. Nella misura in cui i mercati generano oltre ai profitti normali che devono rimanere all’impresa anche extraprofitti, questi ultimi vanno commutati in integrazioni salariali (assicurazioni sociali, supplementi proporzionati al carico familiare, assistenza sociale, mediante contributi sociali pagati dalle imprese per assicurare la giustizia sociale) [Vito 1948, p. 197].
b) L’approccio accademico è prevalentemente marginalista, come può comprovarsi dalla manualistica del periodo [Bresciani Turroni 1953; Fanno 1948; Papi 1958]. A questo approccio si rifanno gli economisti liberali, tra i quali facciamo qui riferimento a Bresciani Turroni (1882-1963). Egli afferma che «il concetto di produttività marginale rende possibile determinare la contribuzione specifica di ciascun fattore nel prodotto complessivo» [Bresciani Turroni 1953, pp. 214-215, corsivo nell’originale] e la produttività marginale è tanto più elevata quanto più scarso è il fattore produttivo relativamente agli altri fattori produttivi. Tuttavia, Bresciani Turroni riconosce anche che l’applicazione di questo criterio nella definizione dei redditi può causare «squilibri sociali», in quanto il fattore lavoro tende a essere presente in misura abbondante rispetto agli altri fattori produttivi. Si pone dunque «un problema di distribuzione, ed è compito dello Stato il risolverlo, mediante opportuni provvedimenti, che risultino, direttamente o indirettamente in un aumento del reddito dell’operaio, oltre il limite fissato dalla produttività marginale del suo lavoro» [Bresciani Turroni 1953, p. 280].
Questo approccio potrebbe avere delle assonanze con la posizione di Pantaleoni.
c) L’approccio che in via di approssimazione definiamo «contrattualista» copre un vastissimo spettro di posizioni che vanno da quelle della predominanza sindacale sino a quelle della concertazione. La loro rilevanza sta soprattutto nel fatto che queste impostazioni hanno caratterizzato un lungo periodo della storia italiana postbellica al quale hanno dato contributi interpretativi e propositivi molti economisti italiani. Una sintesi sarà perciò incompleta e opinabile ma una omissione completa sarebbe ancora più grave.
L’approccio sindacale e quello concertativo si collocano nel dibattito sulle politiche dei redditi che si sviluppa a partire dagli anni Sessanta e prosegue nei decenni successivi.
Il dibattito sulla politica dei redditi ha coinvolto sin dall’inizio sia accademici di diversa impostazione dottrinale [Aa.Vv. 1965; Aa.Vv. 1966; Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale 1966] sia responsabili della politica economica (ad esempio, l’allora governatore della Banca d’Italia, Guido Carli) [Carli 1993]. Esso si incentrava sulla necessità di correggere l’evoluzione delle remunerazioni monetarie dei fattori produttivi, e in particolare del fattore lavoro, in modo da renderle corrispondenti alla produttività degli stessi. Infatti, a partire dall’inizio degli anni Sessanta, in concomitanza con una situazione di quasi-piena occupazione e l’avvento di governi di centrosinistra, nel sistema economico italiano sono intervenuti cambiamenti strutturali che hanno provocato uno sganciamento delle dinamiche salariali rispetto al livello di produttività. Tra questi, una crescente e pervasiva presenza nel sistema contrattuale dei sindacati, organizzatisi in una complessa articolazione su tre livelli (confederali, di settore, all’interno della fabbrica). La rilevante forza contrattuale dei sindacati è stata favorita anche da disposizioni governative (lo Statuto dei lavoratori, 1969, e le revisioni del meccanismo della scala mobile) e da aperture della confederazione degli imprenditori, Confindustria (ad esempio, il cosiddetto Rapporto Pirelli, 1970). Diversi schemi possono caratterizzare un sistema contrattuale: da quello consistente in un intervento diretto e d’autorità del governo centrale ai tentativi istituzionali di composizione dei conflitti attraverso la creazione di meccanismi che incentivino all’accordo in forme diverse, quali ad esempio il cosiddetto neocorporativismo, con una forte centralizzazione da parte dell’autorità politica sino a quello della attuazione di un certo grado di coesione sociale (o cosiddetto patto sociale) [cfr. Roncaglia 1986; Tarantelli 1986]. Tra i fattori che rendevano difficile il raggiungimento di accordo tra le parti contrattuali vi era il meccanismo della scala mobile inteso a garantire l’adeguamento automatico del salario monetario all’aumento del costo della vita. Introdotto originariamente nel 1946, esso è stato successivamente sottoposto a varie modifiche, tra le quali l’adozione del «punto unico» in seguito a un accordo interconfederale siglato nel gennaio del 1975. Tra le interpretazioni di queste vicende una delle più interessanti è quella proposta da Ezio Tarantelli (1941-1985) che ha sintetizzato in un paradigma il sistema di relazioni industriali creatosi nella seconda metà degli anni Sessanta. Questo paradigma è rappresentato nei termini di una differenza sistematica tra le «regole domandate» dal sindacato, intese sia come salario reale atteso sia come trasformazione delle strutture economiche e sociali e di articolazione del potere, e le «regole offerte» dallo Stato volte alla gestione del conflitto sociale, come politiche monetarie e fiscali, cassa integrazione, espansione dello Stato assistenziale, ecc. [Tarantelli 1978]. Tra il 1984 e il 1985 il governo Craxi, con un decreto convertito in legge e poi approvato in via referendaria, ha ridotto di 4 punti percentuali l’indice salari-inflazione [Aa.Vv. 1984]. La scala mobile è stata poi abolita dal governo Amato nel 1992 e su impulso di Carlo Azeglio Ciampi (1920) è stata avviata la cosiddetta «concertazione». Infatti, nel maggio del 1992 Ciampi affermava: «L’abbattimento dell’inflazione in tempi brevi richiede che i processi di determinazione dei redditi nominali nei diversi comparti dell’economia siano tra loro coerenti e volti al fine della stabilità» [Banca d’Italia 1992, pp. 68-69]. La «concertazione» ha reso possibile la connessione della dinamica salariale all’inflazione programmata e ha rappresentato una delle componenti essenziali per la partecipazione dell’Italia al progetto dell’unione monetaria europea. Con l’adozione dell’euro, in Italia si è poi avviato, parallelamente alla riduzione dell’inflazione, un processo di aumento della produttività nel settore privato e una dinamica salariale non inflazionistica.
d) L’approccio della distribuzione nella crescita annovera diversi contributi. Siro Lombardini (1924) passa da un’analisi incentrata su sviluppo economico e struttura del mercato [Lombardini 1953] a una trattazione di come il sistema economico si adatta alle potenzialità di crescita. In particolare, un sistema economico può adattarsi sia attraverso l’aumento dei salari e le modifiche nella domanda dei beni di consumo, sia tramite gli investimenti all’estero, meccanismo che pure influisce sulla distribuzione dei redditi così come i «meccanismi omeostatici» delle economie aperte che tendono a preservare le strutture distributive di fronte ai mutamenti del mercato mondiale [Lombardini 1972]. Paolo Sylos Labini (1920-2005) analizza le forme di mercato, il cambiamento tecnologico e la distribuzione del reddito come fenomeni dinamici connessi tra di loro ed ai problemi della disoccupazione o del dualismo territoriale [Sylos Labini 1974]. A Luigi Pasinetti (1930) si deve la formulazione di ciò che è divenuto noto nella letteratura economica come «teorema di Pasinetti» [Pasinetti 1974]. Egli analizza le condizioni di crescita al tasso garantito e dimostra come la distribuzione del reddito e il tasso di profitto coerenti con tale crescita dipendono solo dalla propensione al risparmio dei percettori di profitti. Alberto Quadrio Curzio (1937) ha analizzato in diversi suoi contributi la connessione tra crescita, scarsità delle risorse e rendita [Quadrio Curzio 1967; 1975; 1980;1996].
Questo approccio, piuttosto differenziato, ha assonanze con quello dei Classici e delle forme di mercato di Marshall. In definitiva si potrebbe considerare italo-cantabrigense.
e) L’approccio adattativo e distrettualista di Giorgio Fuà (1919-2000) [Quadrio Curzio 2007, pp. 334-357] interpreta il decentramento produttivo che andava sempre più caratterizzando l’Italia dei distretti e dei sistemi locali di produzione come tentativo spontaneo del mercato di ristabilire la corrispondenza produttività-salario in termini compatibili con i contesti locali [Fuà 1976; 1983]. Fuà trae indicazioni «progettuali» [Quadrio Curzio 2007, p. 337] chiarendo che «un forte aumento dei redditi delle masse è ottenibile solo attraverso un forte aumento del reddito per abitante» [Fuà 1976, p. 85] e questo è conseguibile con varie misure tra cui l’ammodernamento della pubblica amministrazione e il rafforzamento delle strutture organizzative della produzione anche mediante «una politica sistemica per favorire la formazione dei quadri manageriali e la creazione di reti di assistenza tecnica e di servizi a disposizione delle imprese» [Fuà 1976, p. 86].
Analoghe argomentazioni sono sviluppate da Paolo Baffi (1911-1989). Egli afferma che le retribuzioni devono essere connesse alla produttività perché altrimenti fenomeni «che vanificano o stravolgono gli intenti egualitari» possono generarsi, creando infine disoccupazione giovanile e sommerso [Baffi 1977, p. 395]. Baffi individua dunque nella flessibilità una via per ristabilire i nessi tra retribuzioni e produttività. In particolare, il costo medio del lavoro e il ventaglio dei suoi livelli tra lavoratori e settori di attività dovrebbe cambiare in base alla composizione delle forze di lavoro, alla loro distribuzione geografica, alla dotazione di capitale fissi, alle istituzioni, al sistema di valori culturali e professionali [Baffi 1977, p. 395].
Questo approccio ha delle assonanze con una impostazione alla Cattaneo.
A conclusione della nostra trattazione ritorniamo al quesito iniziale e cioè: quale paradigma consente di classificare come liberale un economista italiano nel periodo considerato? La risposta non è facile a meno che si passi a una individuazione basata sulla appartenenza a un partito politico. Non volendo ricorrere a questo criterio consideriamo congiuntamente il momento di analisi teorica e il momento della sua applicazione all’interpretazione della realtà economica contemporanea nonché l’individuazione di linee di azione politica da parte degli economisti considerati. Teoria e istituzioni, politiche e realtà: è il binomio che caratterizza gli economisti italiani liberali prima presentati.
Nella loro analisi teorica emerge una continuità nell’adozione di una serie di concetti quali: la proprietà privata nella definizione dei rapporti tra le parti coinvolte; la concorrenza come meccanismo ideale di regolazione degli scambi tra le parti che tuttavia non va idealizzato per evitare gli eccessi; la remunerazione dei fattori di produzione determinata dal contributo che ciascuno di essi fornisce al processo produttivo. Tuttavia, il criterio di definizione della remunerazione dei fattori di produzione in base al contributo alla produzione ha spesso natura orientativa nel pensiero di molti degli economisti citati e risulta impossibile considerarlo a se stante senza tenere conto anche dei fattori di realtà, di politica e di socialità presenti nel loro argomentare.
Nell’applicazione dell’apparato analitico prima descritto alla realtà economica e quindi all’azione politica assume grande rilevanza il ruolo delle istituzioni e della contrattazione. Da una parte la realtà economica si allontana dal modello teorico di concorrenza perché sono presenti forme monopolistiche od oligopolistiche che spetta allo Stato regolamentare o eliminare (Pantaleoni, Einaudi). Dall’altra, l’applicazione meccanicistica del processo di remunerazione secondo i principi teorici della produttività potrebbe comportare situazioni non desiderabili da un punto di vista sociale (Einaudi, Bresciani Turroni, Vito) e lo Stato deve perciò intervenire attraverso opportune misure politiche. Ciò che caratterizza in via specifica il pensiero degli economisti italiani è il ruolo della tassazione (Ferrara, Pantaleoni, Einaudi). Anche in tal caso, comunque, il metodo delle tassazione più opportuno è quello che risulta essere meno invadente nei confronti della scelte dell’individuo, dalle quali discendono la produzione e dunque la ricchezza. Tuttavia, ancora una volta, è difficile considerare nel pensiero di questi economisti, l’individuo come avulso dalla società e dal ruolo della contrattazione tra le parti sociali per la distribuzione del reddito. Ed è per questo motivo che molti degli economisti prima citati sono liberali e sociali a un tempo in quanto è difficile vedere in loro il dualismo tra lo Stato, quale fonte delle norme essenziali e controllore del loro rispetto, e l’individuo, quale agente che opera in piena libertà attraverso un comportamento massimizzante entro queste norme. In vari nostri studi [Quadrio Curzio 2002; Quadrio Curzio 2007] abbiamo configurato il liberalismo sociale o liberalismo comunitario come una caratteristica distintiva del pensiero economico politico italiano. Pur non potendo illustrare qui questo paradigma noi riteniamo che esso sia quello che meglio riflette la concezione liberale italiana circa la distribuzione del reddito ricomponendo le impostazioni legate alla produttività, quelle legate alla contrattazione tra parti sociali che ha assunto negli ultimi tempi una migliore applicazione nelle sue valenze di secondo livello, aziendali e territoriali.
In conclusione, ciò che a nostro avviso caratterizza maggiormente gli economisti accademici italiani in tema di distribuzione del reddito è un impronta riformista, pragmatica e liberal-sociale.
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