Fascismo
di Danilo Breschi
Il fascismo è esperienza politica e ideologica la cui primogenitura spetta all’Italia. Fin dal suo sorgere, il fascismo dovette fare i conti con la tradizione del liberalismo italiano; non solo perché si trattava della cultura politica più rilevante nel Paese, in grado di esprimere una classe dirigente da Cavour sino a Giolitti, ma soprattutto perché proprio il fascismo giunse al potere grazie ad una sostanziale sottovalutazione delle sue potenzialità rivoluzionarie da parte dei liberali. A differenza di altri Paesi europei, in Italia il liberalismo ha dovuto e deve tuttora rendere conto di sé a seguito della vittoria della ventennale dittatura fascista. Un’esperienza pagata a lungo e a caro prezzo dalla teoria e dalla politica liberale nostrane. In una nazione come l’Italia, proprio a causa di quel che è successo nel ventennio fra le due guerre e fino al 1945, è risultato assai difficile per la tradizione liberale riacquistare una dignità e soprattutto un ruolo politico e culturale centrale nella vita nazionale.
In un contesto del genere si comprende bene come risultasse efficace e comunque più difficilmente liquidabile la tesi affermata nel 1971 dallo studioso tedesco Reinhard Kuhnl, ennesima riedizione di un’interpretazione di stampo marxista terzinternazionalista, secondo cui liberalismo e fascismo non sono altro che due forme, solo apparentemente distinte, che il dominio classista borghese assume a seconda delle circostanze allo scopo di preservarsi e prosperare. Se guardiamo alla natura del regime instaurato dal fascismo e alle politiche che intese perseguire tra 1925 e 1940, resta indubbio che, come è stato anche di recente ribadito, «proprio nella contrapposizione all’idea liberale si può individuare il carattere costitutivo dell’ideologia legislativa del fascismo, il solo che conferisca una coerenza complessiva al disegno istituzionale» [Varvaro2006, p. 6]. D’altro canto, il vero nodo da sciogliere nel rapporto tra liberalismo e fascismo consiste nello spiegare le ragioni dell’avvento al potere di quest’ultimo. Nello stesso anno in cui usciva il libro di Kuhnl, ma da una ben diversa prospettiva ideologica e storiografica, scriveva Nino Valeri:
In qual modo e per quali vie e per quale ragione, dopo appena sessant’anni di regime parlamentare, successe la dittatura fascista e perché e come essa è durata così a lungo? La nuova Italia, sorta nel 1861 come figlia della libertà, covava dunque nel suo seno i germi illiberali che resero possibile l’affermarsi e il consolidarsi di un regime dittatoriale? [Valeri (1971) 1972, p. VII].
Questo il dilemma che ancora assilla la storiografia italiana: l’Italia liberale era dunque gravida dell’Italia fascista? La seconda è nata dal seno dell’età liberale? E, dunque, il rapporto tra liberalismo e fascismo è di continuità o addirittura di consanguineità ideologica nonché politico-istituzionale? Sono questi gli interrogativi cruciali a cui si deve tentare di dare una risposta.
Il fascismo è la creazione politica di un uomo d’azione, Mussolini, formatosi nella Romagna del repubblicanesimo e del socialismo massimalista e rivoluzionario. In lui non è certo possibile rinvenire alcuna traccia di liberalismo. L’obiettivo di Mussolini, che prese forma a mano a mano che si consumava la crisi dello Stato liberale, cui egli stesso contribuì in modo decisivo, fu quello di conquistare il potere a qualunque costo. A un simile disegno personalistico si accompagnò sempre il sogno del rivoluzionario di un tempo: abbattere le istituzioni esistenti. Nonostante la fedeltà a questa matrice massimalista e rivoluzionaria, Mussolini non poté non fare i conti con i liberali e con la tradizione ideologica che aveva più o meno ispirato la classe dirigente del giovane Stato italiano nel precedente sessantennio. Ma di più: una componente cospicua del seguito di studiosi e uomini di cultura che nel duce del fascismo credettero e con cui ritennero opportuno collaborare fedelmente pensò di recuperare e ravvivare un liberalismo del tutto peculiare, che era quello italiano, sperimentato sin dagli albori del moto risorgimentale. E qui fu compiuta un’operazione ideologica che oggi pare totalmente consapevole e pensata a tavolino, ma che probabilmente ebbe soltanto la fortuna di inserirsi in un contesto di profondo e tragico smarrimento dell’opinione pubblica moderata, che non era estremista né di sinistra né di destra. Opinione pubblica che era priva, da un lato, di una classe politica che fosse adeguata ai tempi postbellici, forte di un’identità precisa e compattata al suo interno dalle strutture gerarchiche ma dinamiche proprie dei moderni partiti di massa; e altresì priva, dall’altro lato, di una solida tradizione liberaldemocratica diffidente nei confronti dell’eccessivo potere statale.
Non possiamo poi dimenticare il fatto che la dottrina giuridica che aveva accompagnato e promosso la costruzione del giovane Stato nazione italiano non ammetteva altro al di fuori delle istituzioni statuali, e così i partiti di massa erano valutati come «antistato» e i diritti politici come fruibili solo grazie ad esse e all’interno del pieno rispetto di esse. Una dottrina, quella giuridica di ascendenza orlandiana, che aveva informato dei propri principi statocentrici e in fondo autoritari la classe dirigente che connotò con questi particolari attributi il proprio liberalismo. Influenzata dalla scuola tedesca, in cui finiva per prevalere il principio monarchico con forte limitazione del principio rappresentativo, la giuspubblicistica italiana propugnava uno «statualismo liberale» che rimuoveva ogni riferimento al contrattualismo rivoluzionario, americano e francese di fine Settecento, e quindi al potere costituente che risiede nel popolo e si solidifica in una costituzione scritta rigida. Se il popolo, secondo la definizione data dai giacobini, era l’«universalità dei cittadini viventi», occorreva al liberalismo post-rivoluzionario europeo, che intendeva rifondare istituzioni tanto libere quanto solide, la sostituzione di un popolo così concepito con un’idea di nazione intesa quale realtà storico-naturale. In altre parole, la nazione si configurava come un prodotto della storia e non come un frutto di un patto scaturito dalla libera volontà degli individui e ad essa sottoposto. I poteri pubblici non dipendono da «una costruzione contrattualistica dal basso», ma sono un «organico riflesso della nazione» e i custodi dei diritti [cfr. Lanchester 2004, pp. 114-115]. È solo muovendosi all’interno della compagine statuale che l’individuo acquista la titolarità, comunque derivata, dei diritti.
Il liberalismo italiano tardottocentesco, sia giuridico sia filosofico, non recepirà in maniera integrale e pedissequa questo tipo di impostazione, più specificamente tedesco. Nella misura in cui possiamo dire che il Risorgimento era stato figlio dell’azione, ora divergente ora convergente, di un’ala moderata, filomonarchica e diplomatica, e di una democratica, repubblicana e insurrezionalista, si può affermare che il variegato liberalismo italiano postunitario manterrà questa duplice anima che tra Otto e Novecento, in alcuni pensatori, finirà per fondersi. Ne scaturirà un liberalismo nazionale che mescolerà le due anime, e che avrà degli antesignani in personaggi di rilievo come i fratelli Spaventa, Bertrando, filosofo neohegeliano, e Silvio, patriota e uomo politico della Destra storica, che svolse a fianco di Cavour un ruolo di primo piano nella fase finale dell’unificazione italiana e ricoprì quindi numerosi incarichi ministeriali tra 1862 e 1876, divenendo infine senatore del Regno d’Italia nel 1889. Di quest’ultimo si riportava, in un profilo biografico pubblicato nel 1932, il seguente brano, quanto mai eloquente dell’idea di Stato propria di un importante corrente del liberalismo immediatamente post-risorgimentale: «Siamo nati ieri, siamo ancora fanciulli; siamo noi uno Stato forte davvero? Abbiamo fatto l’Unità d’Italia: credete che questa unità sia già così forte da resistere agli urti dei secoli? […] questa è la mia fede; ma l’opera che noi abbiamo fatto non dura che da quindici anni. Il Machiavelli diceva che gli Stati nuovi che sono deboli, si perdono. […] Voi siete adoratore dello Stato? Sì, io sono adoratore dello Stato» [cit. in Tagliacozzo 1932, p. 69].
In ogni caso, non può mai essere dimenticato quanto profondamente le condizioni storiche con cui si giunse all’unificazione politica della penisola condizionarono la scala di priorità dell’agenda politica e ideologica del liberalismo italiano. In definitiva i liberali, termine con cui si è sempre indicato i componenti della classe dirigente post-unitaria, «dovevano svolgere un ruolo che non consentiva loro di fare anche i difensori dell’individuo» ma piuttosto obbligava alla costruzione e al consolidamento più rapido possibile dello Stato, con tutto ciò che questo solitamente comporta in termini di scarsa sensibilità verso la tematica dei diritti individuali, civili e politici [cfr. Cardini 1996, p. 92]. La paura di perdere il bene così recentemente acquisito, ovvero l’unità nazionale, indusse la classe dirigente liberale a spingere oltremodo sul lato dell’intervento dello Stato quale forza coesiva e propulsiva. D’altro canto, lo Stato unitario giunse proprio a ridosso del momento – ultimo quarto dell’Ottocento – in cui si inaugurava in tutta l’Europa centro-occidentale la seconda fase costruttiva dello Stato moderno che assumeva la nuova denominazione e funzione di «stato amministrativo».
Da notare che in questa autentica rifondazione liberale in senso eticista, statolatrico e nazionalistico sono scarsi i riferimenti a Cavour, considerato come un abile diplomatico, «liberale» agli occhi dei fascisti e dei liberalnazionali solo nella misura in cui capace di realizzare l’unificazione politica dell’Italia e porre le premesse per la potenza di un nuovo Stato nazione. È interessante a tal proposito un accenno storico che Mussolini ebbe a fare nel discorso pronunciato alla Camera il 15 luglio del 1923, intervento decisivo per l’approvazione finale di quella che sarà poi nota come «legge Acerbo» e che avrebbe scardinato dall’interno la forma di governo dell’Italia liberale. Polemizzando con Giulio Alessio, ex radicale divenuto poi un deputato liberale del gruppo parlamentare della Democrazia sociale, il presidente del Consiglio ne sbeffeggiava in aula l’affermazione secondo cui il Risorgimento era stato un moto di riscossa che aveva coinvolto la popolazione. Così non era stato, sentenziava Mussolini; ma, al contrario, «il popolo italiano, nelle sue masse profonde», era stato «assente e spesso ostile» [Mussolini (1923) 1956, p. 312]. Semmai, il moto di riscatto nazionale decisivo, capace di preparare «realmente l’unità della patria», era stato innescato da una decisione che Cavour aveva preso «senza consultare il Parlamento, senza consultare il Consiglio dei ministri, e, soprattutto, a discrezione, senza porre condizioni di sorta». Il riferimento era alla guerra di Crimea. Quell’episodio così cruciale, chiosava il duce del fascismo, era una conferma del fatto indiscutibile che «nelle ore solenni la decisione è affidata al singolo, che deve consultare soltanto la propria coscienza!» [ibidem]. Il liberalismo cavouriano veniva dunque recepito e tramutato in una forma di pragmatismo ispirato da un forte senso patriottico, che poteva anche essere esaltato fino a farlo diventare un nazionalismo aggressivo ed espansionistico.
La continuità tra liberalismo e fascismo può essere meglio colta se ci si muove sul piano delle modalità storiche di funzionamento pratico del sistema politico dell’Italia post-risorgimentale, soprattutto a partire dalla cosiddetta «rivoluzione parlamentare» del 1876 che vide giungere alla guida del governo la Sinistra capeggiata da Agostino Depretis. Sul piano ideale e ideologico, e ancor più a livello di autorappresentazione, le divergenze tra liberalismo e fascismo sono enormi. Così numerose e rilevanti sono le differenze circa il modo di governare e il peso effettivamente riconosciuto all’istituto parlamentare e in generale ai meccanismi rappresentativi e, non ultimo, ai diritti civili e politici. È però nella storia del sistema politico italiano che si innesta l’avventura mussoliniana che non è solo forzatura extraparlamentare e colpo di mano violento, ma anche inserimento nel governo voluto e/o accettato di buon grado dalla quasi totalità della vecchia classe dirigente, sia politica sia intellettuale, dell’Italia appunto detta «liberale».
Come ha scritto Valeri, sulla scia degli studi di Christopher Seton-Watson, «la maggioranza dei deputati liberali condivise l’atteggiamento tollerante degli statisti anziani – Salandra, Giolitti, Orlando, Nitti –, i quali anziché allearsi contro il fascismo preferirono “gareggiare fra loro dietro le quinte per accaparrarsi l’appoggio fascista”. Il liberalismo non era più per essi una fede operante, ma una pratica corrente» [Valeri (1971) 1972, p. 18]. D’altro canto, dai tempi del cosiddetto «trasformismo», inaugurato da Depretis, il processo decisionale era appannaggio di gruppi parlamentari informi e mutevoli, «i cui membri erano uniti soltanto – ribadisce Valeri – da un atteggiamento di difesa contro le minacce delle due estreme, di destra e di sinistra, clericali e socialisteggianti in sboccio» [ivi, p. 15]. Se una affermazione del genere può essere mitigata e in parte corretta oggi alla luce delle più recenti acquisizioni storiografiche, resta il fatto che una simile percezione della realtà politica e parlamentare circolava ampiamente tra il ceto politico e la classe intellettuale dell’Italia che cercava di uscire dal trauma della guerra mondiale. Come osservava il liberale Olindo Malagodi, che era stato direttore de «La Tribuna», l’antiparlamentarismo così diffuso sin da fine Ottocento presso ambienti colti della politica e della società italiane era direttamente proporzionale alla «influenza delle classi popolari nelle istituzioni parlamentari» [Malagodi 2005, p. 204]. Il Parlamento era stato introdotto e valorizzato nella misura in cui era stato funzionale alla borghesia cittadina contro il regime aristocratico dei possidenti terrieri. Il suffragio universale, però, aveva fatto saltare gli equilibri pregressi e messo a dura prova la tenuta delle istituzioni del liberalismo censitario e capacitario. Questa almeno era l’opinione del liberale Malagodi a pochi anni dalla conquista fascista del potere. Un’opinione significativa per quel che rivela all’osservatore di oggi, ossia quanto fosse eterogeneo lo schieramento liberale italiano dei primi anni Venti e quanto il fascismo contribuì a dividerlo. Il movimento mussoliniano, poi diventato partito dominante nella coalizione di governo dal 1922 al 1924, poté far leva sulla paura dei ceti borghesi nei confronti del disordine dilagante.
Ed è questo l’elemento chiave per spiegare l’adesione iniziale al fascismo sotto forma di sostegno morale e approvazione politica di intellettuali liberali come Benedetto Croce e Luigi Einaudi. Elemento utile anche nell’offrire una possibile risposta al perché un antifascista indiscutibile quale Giovanni Amendola poté ipotizzare nell’ottobre del 1922, alla vigilia della marcia su Roma, l’avvio di una trattativa con i fascisti. Il modo in cui l’esponente liberal-democratico valutava il fascismo a meno di un mese dalla marcia su Roma è espresso in termini così eloquenti che meritano di essere qui sotto ampiamente riportati:
Se noi vogliamo che il nostro giudizio resti superiore alle correnti delle opposte passioni dobbiamo, infine, riconoscere che il «fatto» fascismo accompagna una salda e radicale restaurazione della coscienza nazionale quale rampolla dalla Vittoria, ed un consolidamento nell’anima italiana del valore morale della nostra partecipazione alla grande guerra. Domani, passato questo periodo di crisi violente, tutti i partiti politici torneranno ad avere uguale diritto di cittadinanza nella nostra vita pubblica e vi sarà indubbiamente in Italia, nonostante le momentanee impressioni di oggi, un importante partito socialista. Ma l’anima di quel partito non si troverà più in polemica, bensì vivrà in armonia con la coscienza nazionale, nella quale riconoscerà facilmente, così come ogni altro partito italiano, le sue necessarie premesse [Amendola (1922) 1924, p. 167].
Dunque, un fascismo che poteva essere recuperato nell’alveo della legalità e della costituzionalità liberal-monarchica una volta che, espletata la sua funzione equilibratrice in quanto forza antisocialista ovvero antisovversiva, avesse a propria volta accettato le istituzioni parlamentari e le garanzie statutarie. E proseguiva Amendola:
Questo è il fatto. E l’idea? Qual è l’idea ricostruttiva che dirige e regola la nuova corrente politica? L’idea appare, in parte, non chiara, né precisa. Appare, nel suo complesso, una idea che potrà riuscire sovvertitrice se non sarà, al più presto, subordinata e disciplinata al servizio dello Stato. La reazione di ieri poté essere diversamente giudicata, ma costituì un fatto di indiscutibile valore; l’organizzazione di oggi e la ricostruzione di domani, quali sono volute e tentate dal fascismo, fanno sorgere i dubbi più gravi, e richiamano uomini e partiti ad assumere ciascuno le responsabilità proprie [ivi, pp. 167-168].
Un altro dato pressoché comune a tutto il vario liberalismo italiano post-bellico è qui ben sintetizzato dall’intervento amendoliano: l’incapacità di definire un fenomeno politico e sociale così proteiforme e sfuggente come il fascismo. Al punto tale che la paura della minaccia «bolscevica» (mai dimenticare che siamo a pochissimi anni dall’ottobre del 1917 e dai moti filocomunisti a giro per l’Europa centro-orientale) e una certa fiducia accordata al «patriottismo» delle camicie nere portarono ad attribuire a questo oggetto non identificato quelle caratteristiche che rispondevano più ai desideri di «restaurazione» (e, per alcuni, di progresso) liberale propri di una classe dirigente allo sbando di quanto non rispecchiassero l’effettiva natura del movimento mussoliniano, intrinsecamente sovversivo.
Detto ciò, una valutazione storiografica dei limiti e degli errori della classe dirigente liberale dell’epoca non può incorrere nel peccato mortale di giudicare col senno del poi. Piuttosto è importante sottolineare quanto poté contare l’apparenza del fascismo, come cioè apparisse ai suoi contemporanei, e come questa immagine fosse condizionata sia dalle esigenze politiche contingenti di una classe politica liberale divisa e priva di leadership adeguata allo stato di eccezione vigente, sia dalle preesistenti categorie teorico-politiche che informavano l’ideologia liberale italiana di quegli anni. È su questo punto che si è potuto screditare integralmente la tradizione liberale risorgimentale e post-risorgimentale. È altrettanto indubbio che l’élite liberale non seppe valutare oppure sottovalutò il fatto che lo stato di eccezione fosse frutto di una duplice – bilaterale – minaccia eversiva, proveniente sia da destra che da sinistra, e da destra in misura vieppiù maggiore; oppure ancora, più semplicemente, si dovrà prendere atto che Salandra, Giolitti e gli altri scelsero il male minore, secondo una logica prettamente politica.
La strumentalizzazione di una tradizione politica e culturale e dei suoi massimi esponenti non cancella pertanto il fondo eversivo del disegno mussoliniano. Al contrario: già il 24 maggio del 1920 il duce del fascismo aveva affermato pubblicamente: «Non si deve mandare a picco la nave borghese, ma entrarvi dentro per espellervi gli elementi parassitari» [Mussolini (1920) 1954, p. 469]. La strategia è dunque chiara, anche se l’esito resta incerto, almeno sino al gennaio del 1925, correttamente indicato da Renzo De Felice quale momento di svolta nella costruzione di un regime definitivamente postliberale e antiliberale.
Mussolini prende esempio dalla prassi della vecchia classe politica liberale per innestarsi in una tradizione, e non guarda tanto all’ideologia e alle istituzioni rappresentative che sono state introdotte da quella stessa classe. Guarda a certe scelte e soprattutto al «modo» di governare. La sua, più che una interpretazione distorta, è una interpretazione volutamente parziale e riduttiva: ma non si può dire fosse storicamente infondata e, in fondo, errata. Al contrario, egli ha buon gioco il 16 novembre 1922, nel discorso di insediamento del suo primo governo, nel ricordare che con la sua nomina – da parte del Re – alla carica di presidente del Consiglio, sotto la pressione della marcia su Roma e dell’ormai pluriennale instabilità politica e sociale, «è accaduto per la seconda volta, nel breve volgere di un decennio, che il popolo italiano – nella sua parte migliore – ha scavalcato un ministero e si è dato un Governo al di fuori, al di sopra e contro ogni designazione del Parlamento. Il decennio di cui vi parlo – prosegue Mussolini – sta fra il maggio del 1915 e l’ottobre del 1922» [Mussolini (1922) 1956, p. 17]. Il riferimento è ovviamente alle modalità antiparlamentari, e a loro modo oligarchiche, con cui l’Italia era entrata in guerra pochi anni prima.
È pertanto nel crogiuolo della Prima guerra mondiale, nella propaganda di coloro che la cercano nel 1914-’15 (il governo e gli interventisti, democratici e non) e quindi la sostengono dal ’15 al ’18, che il liberalismo italiano subisce una torsione decisiva, fondendosi con altri «materiali» ideologici spuri e comunque inquinanti la sua natura. La saldatura con quanto di più apparentemente lontano fu certamente favorito dalla peculiarità di una tradizione liberale costituitasi nell’assillo costante di consolidare e sviluppare uno Stato neonato tra gli Stati maturi dell’Europa di fine Ottocento. Stati, questi ultimi, che fra l’altro venivano sempre più pensati e governati dalle rispettive élites nazionali come baldanzose e «grandi potenze» esportatrici di civiltà in una accesa competizione internazionale. Resta però indubbio che per gli uomini del Risorgimento «indipendenza dallo straniero ed unità politica e libere istituzioni formavano una triade inscindibile, ogni termine della quale richiamava necessariamente l’altro, non potendosi intendere unità senza indipendenza, né questa senza quella, né l’una e l’altra senza libertà; e le vicende o il travaglio di tutta la nostra storia ne era per loro la conferma» [Malagodi, cit. pp. 65-66]. Non solo: il liberalismo risorgimentale, e così quello della Destra e della Sinistra storica, non avevano mai respinto aprioristicamente e irrevocabilmente il concetto di democrazia. Semmai intendevano declinarlo nei termini di una più o meno graduale e controllata concessione statuale del suffragio e degli altri diritti individuali.
Viceversa, il liberalismo che avallò la prima fase del fascismo, sia come movimento sia poi come forza di governo, aveva già operato una netta scissione tra libertà e democrazia, equiparando quest’ultima all’anarchia dissolvitrice oppure a una utopia impraticabile se non nei termini di un comunitarismo tenuto in piedi da una massiccia ed omnipervasiva statalizzazione delle coscienze e delle volontà. Il pensiero di Giovanni Gentile, Gioacchino Volpe, Carlo Curcio, Carmelo Licitra e di molti altri ancora, aveva ben poco di liberale al di là della esplicita rivendicazione di quell’appellativo. Contava per essi assai più il peso della «tradizione italiana» all’interno della quale dichiaravano di volersi collocare. Un «primato» in cui la nazionalità come esclusività e supremazia sugli altri, anche geopolitica e militare oltreché etica e spirituale, finiva per pesare assai di più rispetto all’idea di un «primato» inteso come capacità di produrre alte opere dell’ingegno e favorire il benessere dei propri cittadini. Di questi ultimi non v’è alcuna traccia nel sedicente liberalismo filofascista, se non nella misura in cui tali cittadini sono partecipi del tutto e agiscono in funzione di quel tutto sintetizzato dallo Stato e da chi lo guida, animati quindi dalle virtù «spartane» rimpiante dall’utopia politica di Rousseau.
Il liberalismo che dà credito al fascismo dei primi anni Venti si nutre di un mito del Risorgimento che la guerra ha riattivato e diffuso presso ampi strati del ceto intellettuale italiano, recuperando quella ideologia nazional-patriottica che aveva avuto in Mazzini il suo «profeta», per usare la definizione che Gentile adotta in un suo importante scritto del 1923. E proprio nell’opera e nel pensiero del filosofo di Castelvetrano si compie quella fusione tra idealismo neohegeliano e mazzinianesimo che andrà a costituire l’elemento ideologico più originale del fascismo che si appresta a farsi regime. Non è certamente un caso che Gentile, nella celebre conferenza tenuta a Firenze nel marzo del 1925 e significativamente intitolata Che cosa è il fascismo, dedicasse ampio spazio a Giuseppe Mazzini e al suo concetto di libertà quale «bisogno della nazione verso gli stranieri e bisogno dei cittadini verso lo Stato» [Gentile 1925, p. 26]. Ma non solo questo: Gentile stabiliva un nesso diretto e molto stretto tra il fascismo e lo «spirito del Risorgimento» cui il movimento di Mussolini era ritornato «con quel maggiore vigore che poteva derivare dalla coscienza nuova della grande prova compiuta con tanto onore dal popolo italiano e dalla certezza della sua capacità di battersi e di vincere e contare insomma nella storia del mondo» [ivi, p. 29].
All’indomani della guerra, e di fronte alla minaccia di una rivoluzione di tipo bolscevico, quel patrimonio ideale e materiale non andava smarrito, ma semmai difeso e tradotto in uno Stato che finalmente compiva quell’unità di popolo e di nazione che il 1861 e il sessantennio successivo avevano mancato di realizzare. Il fascismo era perciò compatibile con quel «nuovo» liberalismo, o liberalismo rifondato, che in realtà era la riattivazione politica e ideologica, opportunamente modificata, di quella parte del moto risorgimentale decisiva per il compimento dell’unità nazionale ma che non aveva vinto la partita istituzionale. Stiamo parlando, ovviamente, del mazzinianesimo democratico e repubblicano. La modificazione operata riguardava l’abbandono della pregiudiziale repubblicana che per alcuni, si pensi a Delio Cantimori, veniva sostituita da un vago anelito rivoluzionario che il corporativismo, fra gli altri miti politici del fascismo, avrebbe incarnato sin dai tardi anni Venti.
Inoltre si abbinava un’idea di «Stato forte» che metteva d’accordo i liberal-conservatori come Salandra, i nazionalisti come Rocco e Federzoni, e quel variegato schieramento di sostenitori del realismo politico che annoverava tra le proprie file personalità intellettuali del calibro di Gaetano Mosca e Benedetto Croce. Da quest’amalgama scaturiva la «tradizione italiana» di cui parlavano intellettuali del calibro di Gentile e Volpe, e giovani studiosi come Curcio o Licitra. Curcio la definiva nel 1924 nei seguenti termini: «eccolo lo spirito che balza da tutto il cammino percorso dalla nazione italiana: organizzare lo Stato, disciplinarlo, dargli un contenuto spirituale, per imporlo al mondo» [Curcio 1924, p. 6].
Dal canto suo, Licitra, redattore della rivista «La Nuova Politica Liberale», organo fondato nel gennaio del 1923 su iniziativa di Gentile, Croce e Giuseppe Lombardo-Radice, spiegava bene, commentando l’iscrizione di Gentile al Pnf, l’operazione ideologica in atto, frutto di una peculiare e selettiva reinterpretazione della storia italiana dal Risorgimento in poi nonché della natura di quel liberalismo che vi aveva svolto un ruolo cruciale di guida in termini ideali e politici. Secondo Licitra, «dentro il vecchio liberalismo del Risorgimento» aveva agito una corrente liberale al contempo prettamente nazionale ed estremamente moderna che mescolava Gioberti, Cavour e Mazzini. Ripresa dalla Destra storica, tale corrente subì un’eclissi e un’emarginazione con l’avvento della Sinistra e di «un lungo periodo della democrazia a caratteri sociologici più che politici» [Licitra (1923) 1925, pp. 41, 42]. Ferma restando l’importanza di aver acquisito le masse alla vita pubblica, occorreva adesso saperle inquadrare nelle istituzioni dello Stato nazionale e trasformarle in un popolo di cittadini italiani ferventi e devoti verso l’ideale patriottico. Insomma, bisognava ricorrere a quella tradizione italiana che avrebbe combinato in modo virtuoso Stato e nazione, configurando un «nuovo liberalismo» che nel solco del moto politico e ideale risorgimentale si sarebbe mostrato adeguato ai tempi post-bellici, dal momento che l’idea liberale, «come ogni idea», si è trasformata «e ora si chiama, e si deve chiamare fascismo: la più coerente, la più storicamente matura e perfetta concezione dello Stato come libertà» [Gentile, in ivi, p. XXI].
Il fascismo delle origini, specialmente dopo la svolta a destra successiva al grave insuccesso elettorale del novembre del 1919, intercetta e si pone alla testa di quella che Pareto nell’aprile del 1922 vedeva come la «religione che principalmente domina[va]» la vita politica e sociale italiana, ossia il patriottismo [Pareto (1922) 1980, p. 1099].
Ben presto il fascismo egemonizzò il fronte della nazione e dello Stato, contrapposto a quello dell’«antinazione» e dell’«antistato» che socialisti, comunisti e, in parte, anche cattolici avevano occupato sostanzialmente di propria iniziativa. Questa difesa della nazione e dello Stato parve far meritare alla camicie nere di Mussolini l’appellativo di «liberale», in particolare da quegli ambienti del blocco neoconservatore emerso già nei primi anni Dieci sotto la guida di Antonio Salandra, che secondo un liberista democratico come Edoardo Giretti aveva invece usurpato il nome dei liberali. Ma, a conti fatti, nemmeno il liberismo radicale e democratico può oggi dirsi del tutto esente da responsabilità nella creazione di quel clima di sfiducia nei confronti delle istituzioni dello Stato liberale risorgimentale. Fu infatti l’antigiolittismo il catalizzatore di tutte le forze politiche e culturali che contribuirono in modo decisivo al tramonto di una certa idea di Risorgimento, quella liberale e parlamentare, aperta a una cauta e graduale ma altrettanto inequivocabile democratizzazione delle istituzioni. Si abbandonava il metodo liberale per cercare risposte più rapide e nette alla questione sociale, per quel che concerneva la politica interna, e alla sfida scatenata dallo scontro fra gli imperialismi delle grandi potenze, per quel che riguardava la politica estera.
Si pensi anche all’attacco che Giolitti e i governi a lui comunque vicini subirono nei primi vent’anni del Novecento da parte del «Corriere della Sera» di Luigi Albertini. Un suo autorevole collaboratore, l’economista liberale Luigi Einaudi, assunse verso il fascismo «posizioni di benevola attesa sperando che esso risolvesse i problemi dello stato liberale nel senso espresso dai liberisti» [Cardini 2009, p. 225]. A ciò contribuì l’abile mossa di Mussolini che conferì ad Alberto De’ Stefani il Ministero delle Finanze, a cui abbinò poco dopo anche quello del Tesoro. Come ha ricordato Riccardo Faucci, «per circa due anni gli economisti liberisti e il governo Mussolini marciarono in perfetto accordo» [Faucci 1986, p. 198] e De Felice ha ricordato come il 14 maggio del 1923 Einaudi definisse «un vecchio liberale di razza» il ministro De’ Stefani che, in quello stesso momento, era fatto oggetto di duri attacchi e critiche da parte della stampa fascista e dei più intransigenti seguaci del movimento mussoliniano [De Felice 1966, p. 452]. Furono il delitto Matteotti e il «silenzio degli industriali» su quel tragico evento, nonché la scelta antifascista di Albertini, a far abbandonare a Einaudi ogni illusione filofascista, anche se ancora nel luglio 1925 manteneva su De’ Stefani un giudizio in larga parte positivo.
Evidentemente, sia l’antigiolittismo dei radicali democratici come Antonio De Viti de Marco sia il filofascismo dei liberali liberisti come Einaudi avevano finalità ben diverse da quelle dei dannunziani, dei nazionalisti e di molti vociani, per non parlare dei socialisti massimalisti e dei sindacalisti rivoluzionari. Eppure la loro critica, sovente molto aspra e tesa a delegittimare la classe dirigente liberale sul piano morale, contribuì con gli altri attacchi politici e ideologici a far sì che «all’avvento del fascismo più nessuno credeva alla democrazia» [Sartori 1976, p. 34], o perché fieramente antidemocratico o perché amaramente disilluso. La delegittimazione culturale arrecata dagli attacchi concentrici del composito, e internamente contraddittorio, fronte antigiolittiano si sommò a una crisi oggettiva dello Stato aggravata dalla condotta spregiudicata dell’ala conservatrice e nazionalista dell’altrettanto composita classe dirigente liberale italiana. Una condotta che, soprattutto per le modalità scelte di ingresso nella Prima guerra mondiale, aveva portato all’isolamento del governo e del Parlamento.
Dopo il 1925 la rottura di ogni continuità con l’esperienza liberale, sia a livello politico-istituzionale sia a livello ideologico e di cultura giuridica, verrà dichiarata apertamente dallo stesso fascismo e troverà una esplicita e decisa traduzione legislativa nell’opera del nazionalista Alfredo Rocco, operante in qualità di ministro Guardasigilli. Non ci doveva più essere uno Stato «agnostico», bensì, scriveva Rocco nel 1927, uno Stato con «una sua propria vita e suoi propri fini, superiori a quelli dei singoli, a cui i fini dei singoli devono essere subordinati», aggiungendo che «lo Stato fascista contiene il liberalismo e lo supera: lo contiene, perché si serve della libertà quando essa è utile; lo supera, perché raffrena la libertà quando è dannosa» [Rocco 1927, p. 16]. Alla fine degli anni Venti, ancor prima dei cambiamenti strutturali indotti dalla grande crisi del 1929, la trasformazione dello Stato italiano da liberale a fascista poteva dirsi compiuta.
Bibliografia
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