Filosofia politica
di Raimondo Cubeddu
Come scrive un suo critico, il liberalismo è «un tentativo di risolvere il problema politico (e teologico-politico) tramite mezzi economici» [Leo Strauss] o, con altre parole, un tentativo di risolvere l’incertezza, fonte di conflitti, tramite l’economia di mercato concorrenziale e la Rule of Law. Esso si fonda sulla teoria dei diritti naturali (vita, libertà e proprietà), sulla separazione tra sfera privata (che comprende anche la religione) e sfera pubblica (quella inerente la produzione e distribuzione dei «beni pubblici»), sulla teoria della divisione e del bilanciamento dei poteri finalizzata a una riduzione del potere, su una costituzione intesa come garanzia delle libertà individuali. Il liberalismo, quindi, poiché mira a una progressiva diminuzione delle scelte collettive, intraprende una serrata battaglia contro ogni tipo di monopolio, fiducioso negli effetti benefici per l’intera società della concorrenza e della ricerca individuale della felicità e della conoscenza.
Il liberalismo italiano, per una serie di motivi, coltivò soltanto alcuni di questi ideali. Anzi, generalmente, pensò che essi potessero essere realizzati tramite l’intervento dello Stato, magari di uno Stato ispirato, anche in un regime liberal-democratico, da alti e nobili ideali «etici». In breve, esso non comprese che ciò avrebbe comportato più politica, e quindi più «scelte pubbliche», e meno libertà; vale a dire che la produzione politica del diritto, della moralità e del benessere non avrebbe prodotto la «società buona» ma soltanto maggiore incertezza.
Il suo «dramma» può essere riassunto in due tesi di Carlo Antoni e di Bruno Leoni, entrambe degli anni Cinquanta. Nel 1955, nel saggio Una polemica illustre, apparso su «Il Mondo», Antoni scriveva che il rapporto tra liberalismo e liberismo è una «questione di natura universale ed è una di quelle che travagliano la civiltà del nostro tempo, [che] è stata dibattuta da noi nei modi e nei termini propri della nostra tradizione. Ancora una volta, cioè, il pensiero italiano ha mostrato il suo peculiare interesse per la distinzione delle attività dello spirito umano» [Antoni 1967, p. 225]. Ma già nel 1950, in Il nostro compito, saggio di presentazione della rivista «Il Politico», Leoni aveva scritto che era giunto il momento di porre termine alle vecchie distinzioni tra politica, economia e diritto e che era ormai il caso di guardare a queste discipline in una prospettiva nuova. Era perciò necessario trovare un punto di integrazione tra i diversi punti di vista tale per cui «l’economia apparirà allora né più né meno di un ramo della scienza politica, mentre la giuridica […] apparirà essere altro importantissimo ramo della scienza politica» [Leoni 1950, pp. 5-8].
Difficile dire da che parte stessero ragione e torto.
Indubbiamente Antoni centra il problema fondamentale della storia del liberalismo italiano e lo sviluppo dell’ideologia liberale che si manifesterà in quegli anni nel mondo, sperimenterà (con risultati non pari alle speranze) la possibilità di coltivare gli ideali di libertà in quella che allora era definita «economia mista». Antoni però, enfatizzando, scambia una situazione storica con un’acquisizione dell’italico pensiero; mette in campo cioè una sorta di revival della presunta «missione» assegnata dalla storia all’Italia, una missione che aveva nutrito cuori e menti, quando non la prassi politica, di protagonisti del Risorgimento e di loro epigoni, e la cui mancata realizzazione era alla radice della crisi del liberalismo italiano incapace di realizzare l’impossibile missione o qualcosa di altrettanto significativo.
Leoni non aveva affatto torto a sostenere che le rigide differenziazioni e separazioni tra le discipline andavano riviste se non eliminate, e che la speranza di poter coltivare la libertà individuale in un sistema istituzionale in cui l’economia era diretta dalla politica era illusoria e si sarebbe risolta in una diminuzione delle libertà individuali e in un incremento delle scelte collettive. Se soltanto si pensa a quell’integrazione dell’analisi economico-politico-giuridica che si svilupperà nelle scienze sociali nella seconda metà del XX secolo (e di cui Leoni può essere considerato un precursore), si comprende l’acume delle posizioni da lui tempestivamente assunte.
Ma ciò porta a dire che quello del liberalismo italiano è proprio un «caso interessante» [cfr. Settembrini 1991, p. VII]. Croce, in un certo senso, anticipa Keynes e i Liberals, mentre il «liberale classico» Leoni, che si muove in sintonia con i suoi amici della Scuola austriaca, anticipa Ronald Coase, i neo-istituzionalisti e pure i Libertarians.
Con tutti i rischi del caso si potrebbe allora riassumere la vicenda del liberalismo italiano dicendo che si tratta di un confronto tra pensatori che credono di poterlo arricchire attingendo ad altre filosofie politiche, e pensatori che riflettono sui problemi teoretici del liberalismo e sui suoi massimi esponenti. Infatti – ed è quasi superfluo ribadirlo –, per quanto già alla fine del XVIII secolo pensatori italiani (ad esempio Cesare Beccaria, Gaetano Filangeri, Antonio Genovesi, Pietro Verri, ed altri) avessero formulato idee che sarebbero state assorbite nel corpus dottrinario del liberalismo, esso non nacque in Italia e non vi annoverò tanto filosofi politici che lo innovassero in maniera significativa quanto una discreta quantità di pensatori politici che rifletterono sulle vicende e sui problemi italiani. Si segnala un solo filosofo politico autentico – Croce – che vi introdusse elementi appartenenti a tradizioni tanto diverse che finì quasi per snaturarlo; ed un altro – Leoni – che, pur non essendo un filosofo in senso proprio, dette un contributo alla soluzione di alcuni dei suoi problemi teorici e alla rinascita del «liberalismo classico». Alla schiera dei pensatori politici va aggiunto un altrettanto cospicuo numero di economisti e di scienziati politici dai quali, invece, vennero contributi importanti ad ambiti particolari del liberalismo. Basti soltanto pensare alla rilevanza che nell’ambito della scienza politica assunsero la «teoria delle élites» e gli studi sul potere di Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Guglielmo Ferrero, e alla rilevanza di Marco Minghetti, Maffeo Pantaleoni, di Pareto, di Luigi Einaudi, di Francesco Papafava e di Antonio de Viti de Marco nell’ambito dell’economia e della scienza delle finanze, i quali continuarono e innovarono una tradizione di primaria importanza nella scienza economica anche perché caratterizzata da una diretta partecipazione alla vita politica.
Il carattere della tradizione liberale italiana consiste allora in un tentativo di trovare la valenza universale della fortunata vicenda dell’Unità italiana (o di attribuirgliela), e nell’aspirazione a rinnovarla non tramite una teoretica e interna riflessione, ma (si pensava) arricchendola di spunti, elementi e parti che provenivano da altre tradizioni di pensiero – dall’hegelismo per Croce e per i fratelli Spaventa, dal positivismo per gli élitisti, dalla dottrina sociale della chiesa per i cattolici liberali, e dal socialismo per molti altri.
Le filosofie e la cultura che si diffondono in Italia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento hanno infatti poco di liberale nel significato che il termine aveva assunto nella prima metà del XIX secolo, tendono anzi a identificare il liberalismo con una borghesia meschina, pavida e refrattaria agli ideali e ai modi di vita che si andavano diffondendo in quegli anni. Ma dal positivismo e dal naturalismo, come pure dal nazionalismo e dallo spiritualismo, per quanto certamente non omogenei, non poteva venir fuori niente che potesse rivitalizzare una tradizione liberale italiana che, oltre tutto, iniziava a subire il fascino del «germanesimo» economico, giuridico e politico. Ed è anche da dire che le menti migliori – pur senza mai elaborare una qualsiasi filosofia politica – si dirigeranno verso quelle filosofie, sovente sincretisticamente assemblate, piuttosto che nella direzione del liberalismo.
Con la sua tardiva adesione al liberalismo, Croce portò a esso quanto aveva maturato negli anni precedenti all’avvento del fascismo senza arricchirlo d’altro che di quella distinzione tra liberalismo e liberismo, necessaria affinché la sua adesione non sembrasse una sconfessione del suo passato hegeliano e marxista. Quella distinzione, estranea alla tradizione liberale come si era fino ad allora configurata anche in Italia, si sarebbe dimostrata come un peso difficile tanto da portare quanto da scaricare. Il timore di contrapporsi a Croce e di incorrere nel suo sarcasmo, infatti, da una parte scoraggiò le giovani generazioni – ma non personaggi che, come Einaudi, godevano di altrettanto prestigio intellettuale – a pensare il liberalismo al di fuori di quella dicotomia e della «religione della libertà»; e dall’altra ne indusse altri, rafforzati dalla tesi crociana e dalla lettura dell’ultimo Mill e di Leonard T. Hobhouse, a credere che il nesso tra libertà, istituzioni liberali ed economia di mercato non fosse necessario ma storico e ad approdare al marxismo, al socialismo, o (come nel caso di Guido Calogero) ad altre e diverse soluzioni come quelle del liberalsocialismo e del socialismo liberale (che è cosa diversa dal pensare, come fecero Giovanni Montemartini e la Scuola italiana di Scienza delle finanze, che anche le «scelte pubbliche» debbano tener conto della razionalità economica di mercato).
E quando, dopo la guerra, emerse una nuova generazione, essa era pur sempre intrisa di crocianesimo, e il massimo della sua autonomia intellettuale si manifestò nel tentativo di conciliarlo con le altre esperienze liberali maturate nei decenni precedenti (tipico l’interesse per il costituzionalismo americano e per Tocqueville di Nicola Matteucci e di Vittorio de Capraris), con la teoria economica keynesiana e con quelle tradizioni filosofiche che Croce aveva esorcizzato (come fu il caso dell’attenzione di Nicola Abbagnano per l’esistenzialismo). Ma questo dette ancora una volta vita soltanto a un «liberalismo aristocratico», e non ancora a un confronto creativo con la teoria democratica che ispirava la Costituzione o con quel liberalismo che negli anni Sessanta maturerà nell’Occidente e generò un’incomprensione di fondo che portò a dei veri e propri abbagli e ad imprudenti attribuzioni di patenti liberali a pensatori che una più attenta disamina avrebbe dimostrato estranei ad ogni liberalismo. Perché potesse succedere qualcosa, e qualcosa, con Leoni, successe, bisognava «liberarsi» dal soffocante abbraccio delle categorie crociane e contemporaneamente accettare il fatto che la tradizione liberale italiana risorgimentale e post-risorgimentale o aveva già dato ciò che poteva dare, o era ormai diventata incapace di esprimere qualcosa di originale.
Una tendenza che, con la parziale sostituzione dei punti di riferimento, continuerà anche nel dopoguerra, in cui si manifesta un’incomprensione di fondo del carattere che i diritti naturali rivestono per il liberalismo, e che consente incaute aperture ad altre tradizioni sottovalutando che ogni ampliamento della sfera statuale, a prescindere dai motivi per cui veniva attuata, avrebbe finito per comprimere e in prospettiva per distruggere la libertà individuale e le sue garanzie. Ci si illuse, in definitiva, sia che la nobiltà del fine, avrebbe redento la rottura del canone, sia che quei diritti, che collocavano l’economia nella sfera privata, fossero stati superati (se non, come per Croce, inesistenti o storici) [cfr. Croce (1909) 1955, pp. 609 e ss.], e che quella distinzione fosse stata resa vana dallo sviluppo di una scienza economica che avrebbe incrementato il benessere tramite l’interventismo statale ma avrebbe conservato, e anzi pienamente realizzato, le libertà individuali.
E i liberali italiani, in sintonica continuità con la loro originaria natura élitaria, si illusero che bastasse la loro integrità morale e intellettuale a garantire che l’interventismo non degenerasse in statalismo, che l’occuparsi della realizzazione dei diritti sociali ed economici fosse il prosieguo della missione educativa nazionale che già avevano svolto nelle vicende unitarie, e che questo potesse avvicinare il popolo – inteso non come titolare di diritti, aspettative e interessi che potevano anche entrare legittimamente in conflitto con quelli della borghesia liberale, ma come entità morale da educare – all’idea liberale. Insomma, si inserirono in un’euforia statalistica che non soltanto non erano in grado di modificare per penuria di risorse teoretiche, ma che non erano in grado di guidare neppure soltanto parzialmente. Furono così costretti a «testimoniare» (magari col magone) ma continuando, con una pervicacia autodistruttiva, a cercare la soluzione nel passato, o in modelli estranei al liberalismo, piuttosto che in un serrato confronto con quello che il liberalismo era diventato.
Fin dal suo esordio, e palesemente nel pensiero e nell’operato di Cavour, la peculiarità del liberalismo italiano è così rappresentata dal tentativo di conciliare i princìpi liberali, e in specie quelli del libero mercato e del libero scambio, con le esigenze che in termini di realismo politico imponeva la realizzazione dell’unità nazionale. Di qui il problema della nazionalità visto nella sua dimensione dell’organizzazione istituzionale, dell’omologazione di istituzioni, leggi e regolamenti, e di sostegno, se non di stimolo, alle attività produttive sia come modernizzazione dell’agricoltura, sia come spinta alla creazione di nuove imprese industriali e finanziarie.
Mentre negli altri Paesi europei il liberalismo si era formato entro uno Stato nazionale consolidato da secoli, o, come in America, fece un tutt’uno con la creazione dell’Unione, in Italia il nascente liberalismo, dovette lottare da un lato contro il potere assoluto dei sovrani, da un altro lato contro le pretese della Santa Sede di mantenere privilegi che le derivavano dalla tradizione e dalla rappresentanza della fede professata dalla larghissima maggioranza degli italiani, e da un altro lato ancora dovette tener conto del nascente movimento democratico e socialista e stare ben attento a non farsi superare da questi in termini elettorali.
Una situazione per certi versi inedita, complessa e fragile, che caratterizzò a lungo l’elaborazione teorica e l’azione del movimento liberale italiano portandolo sovente a compromessi teorici e pratici che finirono per indebolirlo. Inizialmente, infatti, la strada scelta da Cavour fu quella di ottenere tramite il progresso economico, sovente inteso in termini fideistici, quella rivoluzione che appariva difficile da conseguire tramite strumenti politico-parlamentari anche per via delle ricorrenti perplessità della monarchia sabauda [cfr. Romeo, 1984]. Il liberalismo italiano non fu quindi l’espressione politica della borghesia, ma un progetto di intellettuali, sia borghesi, sia aristocratici, sia religiosi, che mirava a far nascere contemporaneamente una borghesia ed una nazione. Un progetto tanto originale, quanto di difficile realizzazione, che lo indurrà ad allontanarsi progressivamente dal modello del laissez faire manchesteriano che lo aveva influenzato nei primi decenni dell’Ottocento.
Esistettero da subito critici liberali di tale elaborazione teorico-politico-economica, ed essi si fecero più forti dopo l’Unità d’Italia sostenendo un modello politico-economico che i governi che pur si dichiaravano liberali sembravano aver dimenticato, ma la loro elaborazione teorica, di indubbio valore internazionale, come già nel caso di Francesco Ferrara [Faucci 1995], non riuscì a esprimere un progetto politico che potesse contrapporsi vittoriosamente ai mille compromessi cui era assoggettato chi doveva far fare a una borghesia che in pratica non esisteva e che spesso si confondeva con il latifondismo agrario, una nazione, uno Stato, un popolo e un’economia industriale moderna. Il tutto nell’ostilità del potere spirituale romano interprete di una dottrina cattolica i cui tratti politici mal si conciliavano con la filosofia politica liberale sia per quanto riguarda i diritti, i doveri e i compiti dell’istituzione Chiesa, sia per quanto riguarda la concezione dei diritti individuali, sia per quel che concerne la dottrina sociale e le istituzioni educative. Ciò detto, non è assolutamente da dimenticare che in ambito cattolico vi furono dei personaggi, sovente ecclesiastici (come Antonio Rosmini e poi Luigi Sturzo), che ebbero il coraggio ed il merito di elaborare, nell’emarginazione ostile delle gerarchie, una teoria politica tendente – nei limiti di ciò che era dottrinalmente possibile – a conciliare, se non a fondere, la tradizione cattolica con quella liberale, soprattutto economica. Un progetto filosofico-politico che forse costituisce il più importante contributo teorico italiano alla tradizione liberale.
Da questo punto di vista, la debolezza del liberalismo italiano non fu tanto l’esito della mancanza di grandi pensatori, quanto il risultato del suo doversi confrontare con problemi che le altre tradizioni liberali non avevano incontrato nel percorso della loro affermazione. Di qui la sua specificità e l’indubbia valenza storica della sua esperienza.
Già le circostanze in cui fu promulgato quello Statuto albertino [cfr. Rebuffa2003] che per un secolo costituì il quadro istituzionale entro cui dovette muoversi il liberalismo italiano ebbero poco di liberale; e a esse va aggiunto che quello Statuto conteneva non tanto una dichiarazione di princìpi ispirati alla tradizione dei diritti naturali, quanto un disegno istituzionale entro cui articolare le dinamiche politiche e i rapporti tra i vari organi dello Stato. Nascita quindi assai poco propizia che ne segnò indelebilmente la crescita.
Queste caratteristiche, riassumibili nella nota frase di Massimo d’Azeglio «l’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani», caratterizzarono la storia del liberalismo italiano fino a ben oltre l’avvento della Repubblica; ed è quasi scontato che verso la fine del XIX secolo esso dovesse recepire e per molti versi far propria quell’esperienza di «costruzione di una nazione» che caratterizzò anche l’esperienza tedesca. Tant’è che questa prese lentamente il sopravvento sull’elaborazione dottrinale autoctona del periodo risorgimentale e finì per esercitare sul liberalismo italiano un’influenza che pian piano si sostituì a quella francese e inglese che pure furono di modello, sia a livello economico, organizzativo e costituzionale, nella fase del Risorgimento.
L’originalità del liberalismo italiano, per lo meno nel secolo dello Statuto albertino, va dunque vista nel modo in cui esso affrontò il problema della contemporanea realizzazione dei princìpi giuridici, politici ed economici del liberalismo con la complessa esigenza di creare «uno Stato ed un’identità nazionale» in un contesto caratterizzato dalla presenza di un forte potere spirituale i cui irrinunciabili princìpi, soprattutto nel campo civile ed educativo, erano avversi e comunque non sempre complementari. E non fu impresa facile né di poco conto.
In definitiva, quel carattere élitario se non aristocratico che il liberalismo italiano ebbe fin dalle sue origini, che coltivò intensamente fino a «Il Mondo» e che, anche per motivi storici legati alle vicende dell’unificazione, lo rendeva estraneo alle masse intese come il campo in cui, con risultati diversi, coltivare la propria vena pedagogica (d’ispirazione idealistica o positivistica), lo condannò a vita grave. Dissuadendo, per di più, l’attenzione di energie intellettuali che non avevano proprio intenzione e interesse a sottoporsi a un vaglio intellettuale e di stile di vita da parte di quella élite/casta che aveva occupato il liberalismo italiano trasformandolo in una vicenda di «famiglia», se non di «famiglie», alle quale sin verso la fine del XX secolo era difficile accedere.
Una situazione emblematicamente riassunta dalla corrispondenza di Antoni con Hayek e dal (connesso) «caso Leoni» [cfr. Pertici 2000; Cubeddu 2003] il quale, non a caso, non legò con l’entourage de «Il Mondo» e ne venne abbondantemente ripagato, trovando però all’estero, e presso i principali esponenti del liberalismo del suo tempo, quella considerazione che, nonostante la nobiltà dei lombi accademici di provenienza, gli venne allora negata in patria. Ma Leoni, subito dopo la guerra, aveva iniziato a fare quel che altri non fecero e che i liberali italiani iniziarono a fare solo a partire dagli anni Ottanta: leggere e capire il mondo senza i paraocchi crociani. Per di più, aveva qualcosa da dire e sufficiente acume e indipendenza intellettuale da guardare alle esperienze straniere per quel che erano, senza quei filtri che avevano costretto altri giovani della sua generazione cimentatisi sui medesimi temi, a restare degli studiosi di vaglia.
Se le opere di Croce, quale che possa essere il giudizio del suo «etico liberalismo», possono essere comunque considerate il documento filosofico della «resistenza liberale» al fascismo, dopo la sua caduta e l’affermazione del «regime costituzionale», è mancata la grande opera, o il grande pensatore, che restaurasse o ricreasse il liberalismo dell’età repubblicana in un «Manifesto». Non poteva esserlo la figura di Einaudi, economista più che filosofo, e per di più formatosi nella prima metà del secolo, né poteva esserlo Piero Gobetti, la cui Rivoluzione liberale, era un giovanile assemblaggio di testi degli anni Venti che, pur riflettendo in maniera talora originale sui problemi di quegli anni, non poteva certo considerarsi un testo di filosofia politica, e neanche poteva esserlo Freedom and the Law, opera così estranea alla tradizione liberale italiana che lo stesso suo autore, Leoni, non si peritò di tradurre e che sarà tradotta soltanto molti anni dopo la prima edizione americana [Leoni 1995].
Mancò così, come scrive Norberto Bobbio [cfr. Bobbio 1992, p. 210], un’opera che fornisse una fondazione filosofico-politica alla Repubblica e a maggior ragione tale giudizio vale per il liberalismo italiano che recepì modelli di liberalismo provenienti dall’estero, più che elaborarne uno proprio. La nuova Costituzione fu così difesa e argomentata da giuristi e da uomini politici (indubbiamente di alta statura morale e culturale), ma non fu, e non poteva essere, anche per le contingenze politiche della sua elaborazione, intesa come una «costituzione liberale». La funzione di ripensamento del liberalismo, con tutti i limiti del caso, venne così assolta da un settimanale, «Il Mondo», in cui scrivevano fior di filosofi, economisti, storici e uomini di cultura dando vita a un singolare connubio prima di crocianesimo ed einaudismo e poi di crocianesimo e keynesismo.
Né il dibattito «liberalismo-liberismo», né il pensiero di Gobetti, potevano costituire il fondamento teoretico a un «Manifesto del liberalismo italiano» del dopoguerra. E il fatto che esso non poteva sentire come propria la Costituzione fece sì che la sua difesa, fino al tentativo di trasformarla in un’opera di filosofia politica di carattere addirittura normativo, venne assunto, anche in questo caso con evidenti limiti di carattere filosofico, da una classe di giuristi formati alla scuola del costituzionalismo di Kelsen e di Costantino Mortati, che (come più volte notò Matteucci) poco avevano a che vedere con la tradizione del costituzionalismo liberale.
Certamente non mancarono pensatori, ma la grande opera della filosofia politica liberale italiana del dopoguerra non è venuta, e forse non poteva venire alla luce. Freedom and the Law, come si è detto, non apparteneva alla tradizione liberale italiana, e comunque, sicuramente, non aveva lo scopo di ricostruirlo in una visione unitaria proiettata a porsi come la base del futuro dell’italico liberalismo il quale si insterilì nell’innaturale prolungamento del dibattito liberalismo-liberismo e nella polemica su Gobetti e sulla sua eredità nell’azionismo [cfr. Bedeschi 2008], fino a quando una nuova generazione fu indotta a volgere ancora una volta l’attenzione a quel che avveniva nel resto dell’Occidente cimentandosi con le varietà di liberalismo che vi si erano allora affermate e che, in varia misura, si erano allontanate dalle esperienze economiche e politiche keynesiane. Da una parte con la tradizione Liberal di John Rawls e di Ronald Dworkin e la teoria degli Human Rights; da un’altra parte col Classical Liberalism della Scuola austriaca, di quelle di Chicago e della Public Choice,e con le varie tipologie di neo-istituzionalismo; da un’altra parte ancora con le varie componenti del Libertarianism. Senza poi dimenticare coloro i quali non sicuri dei fondamenti teoretici del liberalismo classico pensano li si possa rafforzate attingendo sia alla dottrina della legge naturale cattolica, sia fondendo la teoria dell’economia di mercato con quella della sussidiarietà come intesa dalla dottrina sociale della Chiesa e dal magistero papale.
Molti studi, talora di rilevanza internazionale (come lo fu la Storia del Liberalismo europeo di Guido De Ruggiero), ma la grande opera di filosofia politica ancora manca.
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