Forze armate
di Gregory Alegi
Il rapporto tra la prospettiva liberale e le forze armate in Italia si può compendiare in un rispettoso disinteresse nel quale la consapevolezza della necessità di un apparato militare si fonde con la naturale riluttanza a mettere in dubbio il ruolo tradizionalmente attribuito all’Esercito a partire dall’epoca sabauda. Questa impostazione, pressoché costante nell’intero arco di tempo del XIX e XX secolo, lasciava di fatto ai vertici militari una larga autonomia in ogni aspetto dall’organizzazione alla gestione. Anche i governi democratici esercitavano in modo limitato i poteri di indirizzo e controllo politico, supplendovi in modo piuttosto impreciso la costante limitazione della spesa. L’ingresso nella Nato valse a modificare tali atteggiamenti solo in parte, nel senso di trasferire in ambito internazionale (e dunque fuori della sfera politica italiana) le maggiori decisioni strategiche, l’elaborazione delle dottrine d’impiego fondamentali e lo sviluppo dei principali equipaggiamenti ma lasciando proseguire con le modalità precedenti le decisioni rimaste in ambito nazionale.
Della stretta correlazione tra economia e politica di sicurezza nazionale era consapevole, non solo in termini di capacità operative e di opzioni politiche, già Adam Smith (in questo non diverso dai mercantilisti). La preoccupazione per le minacce alla libertà dall’esterno trovava un limite nell’opposto timore per l’uso delle forze armate in funzione di ordine interno. Contemperare le due esigenze fu un punto centrale del dibattito sulla Costituzione americana, che ne conserva traccia nel diritto individuale a portare armi quale base per un’autodifesa tramite milizie volontarie. Cavour ebbe chiari i potenziali vantaggi di politica estera derivanti da un apparato militare efficiente, ancorché non necessariamente ingombrante. Oltre che nella partecipazione alla guerra di Crimea (1856), ciò è evidente nella sua assunzione del ministero della Marina da lui stesso istituito nel 1860. Ma Cavour fu un’eccezione. In Italia i temi militari non appassionarono in genere i liberali, forse perché la lealtà dinastica impediva di invadere una delle tradizionali prerogative regie anche quando – come nella sfortunata guerra del 1866 – questa diventava ostacolo concreto alla condotta delle operazioni. L’impegno personale di alcuni giovani borghesi, in parte per autonomo convincimento ma più spesso per convenzione sociale, si tradusse assai raramente in un interesse permanente per i temi della difesa nazionale. Tra gli intellettuali l’eccezione più notevole fu l’economista Enrico Barone (1859-1924), già docente di storia militare, capo dell’Ufficio Storico dell’Esercito e fondatore del giornale «La Preparazione».
Per l’intero periodo post-unitario e liberale i dicasteri della Guerra e della Marina furono assegnati a generali e ammiragli. Le rarissime presenze civili furono interinali, brevi e solitamente affidate allo stesso presidente del Consiglio (per esempio Ricasoli nel 1861 e Di Rudinì nel 1891), preferendosi sovente affidare l’interim della Guerra a un ammiraglio (o, viceversa, della Marina a un generale) piuttosto che a un civile. Unica eccezione, tattica più che significativa, i 15 mesi di Severino Casana nel 1907-1909. Tale prassi, interrotta dal fascismo (ma solo formalmente, giacché se Mussolini rivestì i ministeri militari per circa 15 anni, i sottosegretari che lo affiancarono furono gli stessi capi di Stato maggiore) e definitivamente accantonata dalla Repubblica, era marcatamente diversa da quanto già accadeva in Inghilterra (dove il War Office è retto da un civile a partire dal 1717, salvo due anni di Kitchener nel 1914-’16, e l’Ammiragliato dal 1806) e in Francia (dove la III Repubblica affidò il dicastero della Difesa a civili nel 1888 ed in via esclusiva dal 1917).
Il modello, non molto moderno, era reso peggiore nella sua applicazione pratica. Il capo di Stato maggiore fu introdotto nel 1882 come consulente del Ministro, a sua volta sottoposto al re in quanto capo delle forze armate. Le riforme del 1906-1908 previdero una duplice responsabilità di comando (del ministro in tempo di pace, dal capo di Stato maggiore in tempo di guerra). A questo debbono aggiungersi i ridotti contatti diretti consentiti ai capi di Stato maggiore, gli scarsi rapporti interforze (Esercito e Marina non si parlavano e meno che mai pianificavano assieme) e quelli almeno altrettanto limitati tra la sfera politica e quella militare. Da ciò la persistente difficoltà di gestire le operazioni, in campagna (come nel 1866) e sul campo di battaglia (come ad Adua nel 1896).
La Rivoluzione francese introdusse la leva obbligatoria dei cittadini, che fu un elemento centrale della concezione napoleonica di distruggere l’armata nemica colpendola rapidamente con la maggior forza possibile. L’innovazione si diffuse in tutta Europa, con la sola Gran Bretagna riluttante alla coscrizione in tempo di pace. Nel 1861 il Regno d’Italia estese la leva all’intero Paese, suscitando reazioni soprattutto nei territori ex borbonici che non l’avevano mai conosciuta. Di qui un’ampia renitenza, che spesso alimentava quel brigantaggio che per un quindicennio impegnò quasi metà dell’Esercito. La natura iniqua della coscrizione emerge dalla sua durata (dapprima di 5 anni in fanteria e 7 in cavalleria, ridotta a 2 per tutti entro qualche decennio), dalla possibilità di sostituzione o surrogazione a pagamento (pare usata dal 60 per cento dei 200.000 uomini del contingente 1862; poi sostituita dal 1872 con il volontariato di un anno, di fatto per i soli borghesi perché soggetto a 2.000 lire di tassa) ma soprattutto dalla sperequazione tra obbligo militare universale e diritto di voto riservato al 2 per cento della popolazione. Solo nel 1912 Giolitti parificò le due categorie con l’esplicito riconoscimento del voto anticipato ai 21 anni per gli analfabeti aventi prestato servizio militare.
Pur contribuendo a mescolare le persone dei diversi Stati preunitari, la coscrizione non era sufficiente per creare forze armate pienamente italiane. Sintomatica la riluttanza piemontese a incorporare ex garibaldini ed ex volontari, ai quali non di rado furono preferiti gli ex borbonici, paradossalmente ritenuti più rassicuranti sotto il profilo disciplinare e persino dinastico. Più equilibrata la situazione della Marina per la prevalenza di forze e tradizioni delle Due Sicilie. L’amalgama si creò quindi sul campo (segnatamente attraverso la terza guerra d’Indipendenza del 1866, la presa di Roma del 1870, la campagna d’Eritrea del 1884 e d’Etiopia del 1896, la guerra di Libia nel 1911-’12) e nelle scuole militari che rinnovarono lentamente i quadri preparando la svolta della prima guerra mondiale. La fornace dell’Isonzo fece saltare l’equilibrio, ma fu solo con Caporetto che il vertice cessò di parlare – letteralmente – piemontese e al Comando supremo arrivò il napoletano Armando Diaz.
Più complesso valutare il rapporto tra forze armate e popolazione, nel quale certamente pesava l’impopolarità associata al frequente ricorso all’Esercito in funzione di ordine pubblico. Difficile, per esempio distinguere tra responsabilità del governo, forzature della Corona (come per l’inutile decorazione e nomina a senatore del generale Bava Beccaris che a Milano nel 1898 fece sparare sulla folla) e partecipazione individuale, oppure stimare l’impatto positivo dei Carabinieri o dell’intervento militare in caso di disastri quali i terremoti di Messina (1908) e di Avezzano (1915).
La Prima guerra mondiale mise a dura prova i sistemi liberali di tutto il mondo. La durata infinita e la dimensione totalizzante dello sforzo bellico incrinarono ovunque il consenso popolare anche per l’evidente tendenza della sfera militare a invadere le competenze dei governi. In Italia a questi problemi si sommarono la mancanza d’informazione da parte del governo (che non comunicò ai capi di Stato maggiore le clausole militari della Triplice alleanza e del Patto di Londra) e la determinazione del generale Luigi Cadorna di non dividere con alcuno l’esercizio delle prerogative di capo di Stato maggiore dell’Esercito, incarico al quale era stato chiamato nel luglio 1914 per la morte improvvisa del generale Alberto Pollio. Cadorna riconosceva al governo il solo diritto di rimuoverlo, un atteggiamento che riproduceva esattamente i rapporti politico-militari in pace.
Alla vigilia della guerra, l’Esercito versava in uno stato di disordine e impreparazione acuito dagli sforzi fatti per la conquista della Libia (1911-1912). L’ordinamento Spingardi del 1914 prevedeva una forza bilanciata di non più di 250.000 uomini e ferma di 24 mesi: una dimensione del tutto inadeguata a quanto pochi mesi dopo la guerra europea avrebbe imposto. Cadorna riuscì a far crescere l’Esercito non solo in quantità – passando dalle 36 divisioni di fanteria del 1915 alle 69 del 1917, in aggiunta al rimpiazzo delle ingentissime perdite causate dalle offensive a oltranza quando geografia e tecnologia premiavano la difensiva – ma anche, sia pure più lentamente, in capacità tattica e dotazioni tecniche. Questi risultati organizzativi, non disprezzabili in considerazione del livello iniziale, non si erano però tradotti in successi militari e avevano, al contrario, richiesto un altissimo tributo di sangue. Di qui la continua tentazione di avvicendare Cadorna, velleitaria persino nei tre scontri maggiori. Il primo si concluse nel febbraio 1916 con le dimissioni del ministro della Guerra Zupelli; il secondo, scaturito dal successo dell’offensiva austriaca dal Trentino fino agli Altipiani, portò nel giugno 1916 alla sostituzione del governo Salandra con Boselli, che nominò il riformista Bissolati ministro per i rapporti con il Comando supremo; il terzo, nell’estate 1917, vide Cadorna accusare Orlando di tollerare un disfattismo interno che si riverberava sul morale dell’Esercito, danneggiandolo. Né Salandra né tanto meno Boselli ebbero il coraggio di difendere le prerogative di governo e Parlamento, come sottolineò impietosamente nell’ottobre 1916 il processo al colonnello Giulio Douhet, reo di aver inviato a Bissolati relazioni che auspicavano una strategia diversa da quella di Cadorna. In quell’occasione Cadorna vietò l’ingresso di ministri in zona di guerra, arrestò il deputato Michele Gortani (sfruttando, è vero, l’ambiguità del contemporaneo grado militare, ma comunque impedendone la partecipazione ai lavori parlamentari), addirittura fece sancire al tribunale militare il divieto di comunicare ai ministri notizie diverse da quelle del Comando supremo. Sotto l’evidente timore di una crisi politica innescata da eventuali dimissioni di Cadorna, l’impostazione fu ratificata dalla Cassazione.
Da questi scontri, talvolta di pubblico dominio perché discussi alla Camera e per essa giunti sui giornali, Cadorna uscì paradossalmente rafforzato, anche grazie al sostegno del «Corriere della Sera» di Luigi Albertini e alla capace opera di propaganda svolta da Ugo Ojetti. Di qui la tentazione, diffusa negli ambienti nazionalisti, di trasformare il capo militare in dittatore, esautorando anche formalmente governo e Parlamento. Che Cadorna fosse ispiratore attivo, protagonista passivo o del tutto inconsapevole di tali disegni è forse meno importante del fatto che la stampa, quasi prefigurando gli esiti ultimi della crisi, lo indicasse già come «duce». Persino di fronte al disastro di Caporetto fu più facile sostituire il presidente del Consiglio che il comandante supremo. Boselli, già traballante, cadde in un voto di fiducia già programmato. Ma Cadorna, che per 30 mesi aveva silurato e decimato senza esitazione per mancanza di spirito aggressivo o per mantenere la più rigida disciplina, puntò i piedi. Solo la decisione francese e inglese di vincolare i rinforzi alla rimozione di Cadorna obbligò il nuovo governo Orlando ad agire, peraltro nell’ambigua forma della promozione al consiglio interalleato a Parigi.
Come Marx ed Engels avevano inizialmente sostenuto (sia pure per ricredersi dopo la fallimentare esperienza della Comune di Parigi nel 1870-’71), la guerra (o, in questo caso, il disinteresse e l’incomprensione per il trauma arrecato all’ordine sociale) finì per innescare esiti rivoluzionari. Quando la mobilitazione militare di massa si specchiò nel suffragio universale, i tradizionali strumenti della politica liberale si dimostrarono insufficienti a dominare le sfide simultanee della smobilitazione (da quattro milioni a 500.000 uomini in un anno), della crisi economica e delle aspettative nazionali e sociali alimentate in vari momenti. Di qui, dalle questioni che la guerra aveva rinviato e dagli echi di Russia scaturì il disordine che per due anni preoccupò gli italiani su ogni versante politico.
Anche se pochi militari avrebbero condiviso l’incredibile (e improbabile) esperimento politico di D’Annunzio e De Ambris, nel 1919-1920 la crisi di Fiume palesò la frattura nel mondo militare tra vertici di carriera, in larghissima parte ancora sensibili ai doveri istituzionali, e forze mobilitate per la guerra. Benché tutto fosse certamente a favore delle forze regolari, di fronte alla possibilità di uno scontro fra italiani (e con D’Annunzio, del quale si temeva il carisma) il governo esitò per 15 mesi prima di sgomberare da Fiume i marinettiani «disertori in avanti». In questa preoccupazione si può già intravedere tutta la cautela di Diaz nella notte della marcia su Roma («l’Esercito farà il suo dovere, però sarebbe bene non metterlo alla prova»). Per quanto a tanti livelli militari e fascisti s’incontrassero su nazionalismo, antisocialismo e combattentismo, è innegabile che l’ispirazione antimonarchica e sociale del movimento fascista fosse indigesto alle forze armate che giuravano al bene inseparabile del Re e della Nazione. Dal punto di vista tecnico non v’è dubbio che pochi soldati e carabinieri avrebbero facilmente fermato i fascisti. Era già accaduto a Sarzana nel luglio 1921 e nell’ottobre 1922 ne erano convinti Facta, Badoglio e, nonostante le simpatie fasciste, Di Giorgio. Ma confermando che i governi liberali non dialogarono davvero con le forze armate, al momento di (non) firmare lo stato d’assedio Vittorio Emanuele III preferì ascoltare Diaz.
Fino al 1925 in alcune questioni militari si udì un’eco liberale. Un esempio è la nascita della Regia aeronautica come terza forza armata indipendente nel 1923. Nella scelta giocarono certo la passione aeronautica di Mussolini e gli aviatori a lui vicini quali Aldo Finzi (poi sottosegretario agli Interni) e Attilio Longoni (per pochi mesi del 1919 segretario dei Fasci di combattimento). Ma in sostanza essi furono più rumorosi che efficaci: il provvedimento emanato da Mussolini seguiva concetti maturati dagli ultimi governi liberali e lasciava la grande maggioranza dei mezzi aerei agli ordini diretti di Marina ed Esercito, che pose addirittura il veto alla nomina dell’eretico Douhet, subito dissociatosi dall’organizzazione a lungo vagheggiata. Ancora più eloquente il dibattito sull’ordinamento militare, che contrapponeva la «nazione armata» a quella «preparata» e la «lancia» allo «scudo». Dietro a questo stava l’idea, variamente articolata, di ovviare alla necessità di ridurre le spese militari mediante un aumento qualitativo che compensasse i tagli all’insostenibile ampiezza dell’ordinamento imposto da Diaz nel gennaio 1923. Il progetto presentato nel 1924 da Di Giorgio, ora ministro, scatenò i timori dell’Esercito e quelli dei liberali, che vi intravedevano un suo ulteriore cedimento alla Milizia (cioè agli squadristi regolarizzati) alla quale, all’apice della crisi Matteotti, Di Giorgio aveva distribuito 100.000 fucili. Per evitare il pur remoto rischio di crisi politica Mussolini sconfessò il ministro, costringendolo alle dimissioni. Due mesi dopo creò un capo di Stato maggiore generale riservato all’Esercito e sovraordinato a Marina ed Aeronautica, ma anche subordinato al presidente del Consiglio. Il fascismo riusciva dunque dove il liberalismo aveva sempre fallito.
Dopo la Seconda guerra mondiale la politica italiana fu dominata dalle ripercussioni della contrapposizione dei blocchi guidati da Usa e Urss. Per quanto rassicurati dalla collocazione atlantica, i liberali non la tradussero mai in accettazione incondizionata. Einaudi mirava piuttosto a una federazione europea in grado di sostenere forze armate che la proteggessero verso Est e imponessero rispetto a Ovest, mentre il gruppo di Pannunzio ospitava il germe dell’obiezione di coscienza e della non violenza. Approdata in ambito radicale con Pannella, quest’ultima posizione finì per confluire in un blocco antimilitarista con quelle cattolica e socialista, di tutt’altra origine e intento. Nel 1947 i dicasteri militari furono unificati nel ministero della Difesa senza mutamenti sostanziali, tanto che l’incarico di capo di Stato maggiore della difesa uscì dall’area Esercito solo nel 1972. Maggior varietà si ebbe nei ministri, civili come i sottosegretari e talvolta con inconsuete esperienze di guerra, dalla Spagna repubblicana (Pacciardi) alla Resistenza (Taviani). Gli impegni assunti con l’ingresso nella Nato nel 1949 furono il puntello dello strumento militare, ma anche l’alibi per mantenere uno status quo incentrato sulla coscrizione e di fatto garantito dall’ombrello atomico statunitense. Il periodo di leva nell’Esercito oscillò tra i 12 mesi del 1947 ai 18 del 1951, per scendere sino a 12 nel 1975, con periodi più lunghi in Marina. La durata del servizio, che si riduceva a nove mesi effettivi, era poco per un efficace impiego di sistemi complessi: problema solo parzialmente temperato dalla possibilità di attingere a strati sociali che ben difficilmente avrebbero fornito volontari. I coscritti erano una riserva per interventi di protezione civile (come l’alluvione in Polesine del 1951, il terremoto in Friuli del 1976 e quello in Irpinia del 1980), di ordine pubblico (per esempio l’operazione «Vespri Siciliani» del 1992-1998) e di varie iniziative extra militari. La leva portava nelle forze armate anche molti militanti di sinistra, creando problemi di sicurezza comuni anche alle aziende più sindacalizzate. Di qui polemiche su «schedature» e discriminazioni, peraltro giustificate dalla necessità di prevenire lo spionaggio comunista. Su questo pericolo e sui finanziamenti sovietici a numerose organizzazioni pacifiste, compresa la Campaign for Nuclear Disarmament attiva contro l’installazione dei missili Cruise (accettata in Italia nel 1979 dal tripartito Dc-Psdi-Pli presieduto da Cossiga), esistono oggi riscontri documentati.
Le forze armate dovettero affrontare una ricostruzione materiale, professionale e morale. La prima fu resa possibile dai massicci aiuti statunitensi, anche se i parametri quantitativi e qualitativi Nato erano assai maggiori di quelli che l’Italia era in grado (o disposta) a mantenere. La rifondazione professionale fu ostacolata dalla difficoltà di spiegarsi la sconfitta, secondo l’atteggiamento che si può riassumere nel leggendario motto di El Alamein «Mancò la fortuna, non il valore». Di fatto solo una trentina di anni dopo la storiografia militare avrebbe abbandonato le spiegazioni consolatorie basate su errori del dittatore, di questo o quel generale, del mai amato alleato tedesco o su presunti traditori (in realtà spesso sistemi avanzati come l’organizzazione Ultra per la decifrazione dei messaggi). La rinascita morale imponeva di rintracciare nella tradizione risorgimentale valori compatibili con il nuovo assetto repubblicano e democratico ma, come negli altri campi della vita nazionale, l’adeguamento di norme e consuetudini fu generazionale. Sopravvisse per vent’anni persino l’arcaico istituto dell’attendente, il militare di leva assegnato personalmente all’ufficiale per aiutarlo nel disbrigo delle incombenze private.
A ritardare la necessaria evoluzione della mentalità militare contribuì anche il meccanismo di autodifesa indotto dal pregiudizio del Pci e di altre formazioni marxiste nei confronti delle forze armate. Sintomatica l’ossessione di golpe militari, attribuiti tra gli altri al generale Giovanni De Lorenzo (cosiddetto «Piano Solo» del 1964) e all’ambasciatore Edgardo Sogno (brevemente incarcerato nel 1974). Entrambi si erano distinti nella Resistenza, con Sogno addirittura rappresentante del Partito liberale nel Cln Alta Italia, sottolineandone la composita realtà poi schiacciatasi nella memoria sulla sola componente comunista. Analogamente ricorrenti le storie di «servizi segreti deviati», «doppia lealtà» o addirittura «alto tradimento». Sebbene i fatti fossero esagerati e le loro interpretazioni forzate, liberali e moderati non seppero o non vollero difendere le forze armate, rafforzandone il senso di isolamento e l’identificazione con la destra, tanto più forte nei corpi e reparti più prestigiosi. Le riforme della Difesa nel 1965 coincisero con l’ambizione di una capacità nucleare nazionale, da sviluppare nel campo della propulsione e in quello dei vettori, ma abbandonata prima per motivi interni e quindi per l’adesione al Trattato di non proliferazione. Fu però conservata la capacità di imbarcare ordigni americani su aerei e missili italiani, naturalmente sotto doppia chiave. In quegli stessi anni la fine degli aiuti americani mise in difficoltà i bilanci della Difesa, la cui complessa struttura rendeva peraltro possibile una lettura espansiva (comprendendovi anche compiti e forze di sicurezza, pensioni ecc.) o riduttiva (in termini di sola «funzione difesa»). Sembra tuttavia accertato che le spese correnti abbiano sempre largamente prevalso sull’investimento, considerato improduttivo da molti economisti liberali che ne sottovalutavano l’importanza per lo sviluppo di tecnologie avanzate. Questo, insieme a una frammentazione industriale superata solo a fatica negli anni Novanta, favorì la più comoda lettura del settore in chiave puramente occupazionale. Persino le leggi promozionali del 1975-1977 diluirono i fondi straordinari su un numero eccessivo di programmi, a scapito della rapidità di sviluppo. Nel 1979 la smilitarizzazione dei controllori di volo fu gestita tollerando – anzi premiando – un aperto ammutinamento, con gravi conseguenze sulla disciplina. Due anni dopo la Polizia (peraltro dipendente dal Ministero degli Interni) fu smilitarizzata e iniziò ad accogliere personale femminile. Nelle forze armate il servizio militare femminile fu introdotto su base volontaria nel 2000.
Con l’operazione Libano nel 1980 le forze armate italiane tornarono a operare all’estero in contesti operativi. Le prime operazioni di guerra vennero nel 1991 durante la prima guerra del Golfo. La forte opposizione della sinistra al professionismo militare, peraltro mai universalmente gradito dall’Esercito, sopravvisse per oltre 15 anni alla caduta del muro di Berlino. La chiamata alle armi fu infine sospesa (ma senza abolire la leva) nel 2005 quando era ministro della Difesa il liberale Antonio Martino. La continua riduzione della spesa per l’investimento ha però negato molti dei recuperi di efficienza prodotti dalla parallela fortissima riduzione numerica.
Bibliografia
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