Germania
di Fabio Grassi Orsini
Per quanto i processi di unificazione di Italia e Germania avessero seguito percorsi paralleli, i due sistemi politici ebbero evoluzioni diverse. Entrambi gli stati sulla base della lettera delle loro carte fondamentali al momento della loro promulgazione erano delle monarchie costituzionali, ma nel corso degli anni si produsse una divaricazione tra le due costituzioni: infatti, per effetto di una prassi consuetudinaria l’Italia divenne una democrazia parlamentare, mentre la Germania rimase ancorata al modello originario. Se, quindi, in Germania prevaleva il «principio monarchico», in Italia si impose quello «parlamentare». Vi erano, poi, numerose differenze tra la costituzione del Kaisereich e quella del Regno d’Italia, non solo per quello che riguardava la formazione dei governi, che nell’impero tedesco erano responsabili verso l’imperatore, mentre in Italia venivano nominati dal re ma dipendevano, a partire dall’inizio del Novecento, dalla fiducia della camera dei deputati. Questa situazione favorì in Germania l’emergere di un cancellierato forte, finché vi era un’intesa con l’imperatore, mentre in Italia il primo ministro rimase un primus inter pares dotato di pochi poteri, molto debole nei confronti della camera dei deputati. Anche per quello che riguardava il sistema bicamerale, in Italia vigeva un bicameralismo perfetto (anche se sbilanciato a favore della camera bassa) mentre la camera alta tedesca aveva competenze diversificate.
La maggiore differenza tra i due sistemi stava tuttavia nel diverso ruolo dell’amministrazione: in Italia, nonostante quest’ultima avesse uno statuto che ne riconosceva la neutralità, l’interferenza della politica nella gestione amministrativa fu molto forte, anzi, nei primi decenni postunitari spesso i segretari generali e i prefetti erano uomini politici (senatori o deputati) e soltanto nel Novecento vi fu una professionalizzazione della burocrazia. Negli stati tedeschi e specialmente in Prussia, invece l’alta burocrazia ministeriale e territoriale, che già a partire dalla fine del XVIII sec. si era emancipata dai tratti più marcatamente assolutistici della Gewalt del principe, durante la prima metà dell’Ottocento aveva saputo consolidare il proprio prestigio etico-sociale e la sua influenza politica. Essa mantenne stretti legami non solo con le élites dominanti pre-industriali, l’aristocrazia terriera di antico lignaggio e della grande proprietà terriera, il clero e l’esercito, ma anche con quei ceti possidenti e colti di formazione accademica, soprattutto giuridica e cameralista, più direttamente interessati all’affermazione dello stato di diritto (Rechtsstaat). Sotto la copertura del «principio monarchico» e della dipendenza esclusiva dall’autorità sovrana, essa aveva rafforzato – nel solco della tradizionale identificazione tra «politica» e «amministrazione» – il suo ruolo di effettivo baricentro del potere politico. L’amministrazione in Germania era di fatto l’unico garante dell’imparzialità del diritto e dei superiori interessi dello stato nei confronti dei parlamenti e dei partiti, sorti relativamente tardi e privi delle competenze tecniche necessarie. Tra l’altro, questi ultimi erano composti essi stessi di funzionari in quanto rappresentanze che rispecchiavano le forze divergenti della società, come sorta di mero correttivo all’iniziativa dei governi.
Il modello tedesco ebbe comunque meno importanza nella cultura costituzionale italiana di quanto lo ebbero i modelli francese e inglese. Ciò nonostante, non si può sottovalutare la grande influenza che la cultura giuridica tedesca ebbe sui costituzionalisti italiani specialmente in materia di scienza dello stato e sull’idea di partito. Si tratta di temi che ebbero una preminenza, sia in Germania che in Italia, nel momento in cui si doveva costruire un nuovo stato e si dovevano superare ostacoli che provenivano da resistenze di tipo regionale, religioso e sociale. Riguardo al problema della partecipazione popolare, i teorici della politica nei due paesi furono costretti a dare la precedenza alla sicurezza dello stato rispetto a quello della democrazia. In questo quadro, la legittimazione dei partiti fu una questione importante non solo per la teoria politica, ma anche per la prassi parlamentare. Per questa ragione i costituzionalisti italiani, che avrebbero preferito il «modello Westminster», guardarono con interesse al modo in cui la scienza giuridica tedesca aveva risolto la questione attraverso l’elaborazione della teoria del Rechtsstaat. Basti pensare all’influenza che von Mohl, Rohmer, Schmoller, Bluntschli, von Gneist esercitarono sui costituzionalisti italiani della «scuola storica» (Bonghi, Brunialti, Palma) e di giuspubblicisti come von Stein su Spaventa. Ruggero Bonghi fu tra le personalità politiche del tempo quello che più approfondì la questione teorica dei partiti, analizzando la loro evoluzione storica su di una base comparata. Le fonti del suo primo saggio sono principalmente Brougham, Russel, Buren, Burke, Alison e sopratutto von Gneist. Nella ricerca di quale fosse la definizione più corretta di partito, egli sosteneva che i partiti che dovevano avere una loro legittimazione erano soltanto i «partiti dello stato»:
I partiti religiosi o di altra fatta, che precedono i politici nello sviluppo dello Stato, sono intesi a sciogliere lo Stato e a spezzarne il governo: i partiti politici, invece, suppongono collo stesso lor nascere, che lo Stato esista, non lo discutono più, combattono intorno a esso, come ciò che è loro, o che aspirano a mettere nelle proprie mani e a possedere. Il moto della macchina dello Stato è prodotto come in ogni macchina da una forza che spinge e una che trattiene; i partiti fanno a vicenda questo ufficio […] Se non che questo ufficio non lo possono adempiere, se queste due forze non operano nella cerchia dello Stato, non esorbitano nell’una e nell’altra, non s’appuntano ambedue sul governo, e non restringono la loro opera nell’uso dei diritti e delle funzioni proprie di questo [Bonghi 1865, pp. 11-12].
Marco Minghetti, nel criticare «il governo di partito», si rifaceva alla critica di Rudolf Gneist, il teorico del Rechtsstaat,per condannare l’ingerenza partigiana nell’amministrazione, considerandola un «residuo dell’assolutismo». Secondo Minghetti, il «governo di partito» si manifestava in modo particolare nell’impiego dell’apparato amministrativo e della polizia nell’interesse della maggioranza a danno della minoranza; nell’abuso metodico nella ripartizione degli impieghi pubblici per favorire i propri seguaci; nell’alterazione del diritto pubblico per favorire gli interessi di partito; nella partecipazione degli impiegati pubblici alle lotte politiche; nell’occupazione da parte dei partiti dei municipi, dei consigli provinciali, delle opere pie. L’ingerenza dei partiti nell’apparato giudiziario aveva come conseguenza, poi, la dipendenza della magistratura dal potere esecutivo. Anche Palma nei suoi studi fece riferimento alle teorie della classificazione dei partiti, ma dichiarò la sua insoddisfazione nei riguardi delle dottrine di Rhomer e di Bluntschli, considerando l’una troppo astratta e generale per adattarsi ai casi concreti e l’altra troppo «subiettiva» e «fantastica» [Palma 1885, p. 349]. La sua analisi rispondeva all’esigenza di interpretare i fenomeni politici alla luce di un criterio storico piuttosto che filosofico o sociologico.
Nel respingere il criterio astrattamente classificatorio adottato dagli autori citati, egli dimostrava la consapevolezza che non solo si trattava di un metodo insufficiente e poco rigoroso per analizzare a livello teorico la fenomenologia del partito, ma che esso conteneva, tra l’altro, un pericolo ben peggiore che consisteva nel rifiutare la comprensione della realtà, finendo per indicare un modello astratto buono per tutte le situazioni. Più oltre, nello stesso capitolo, Palma ribadiva questa considerazione affermando che:
I partiti, inoltre, non possono essere immobili, ma sono soggetti ad alterarsi, a trasformarsi secondo che mutano i bisogni e le condizioni pubbliche […] l’immobilità è dei fossili e dei corpi inorganici; nel mondo politico ciò che ha vita vuol dire che deve subire l’influsso delle nuove generazioni, che arrecano nuove idee e nuovi bisogni, delle nuove condizioni intellettuali e morali, economiche e sociali [ivi, pp. 352-353].
Orlando si dimostrò molto al corrente del dibattito a livello internazionale sul partito. Infatti, pur tributando i massimi elogi possibili al saggio minghettiano, non gli risparmiò qualche critica sia di carattere metodologico che politico. Ad esempio espresse riserve sulla preferenza accordata da Minghetti alla teoria dei partiti di Bluntschli rispetto a quella di Rohmer. Nella stessa sede, Orlando lasciò trapelare le sue riserve nei riguardi dell’eccessivo ottimismo di Minghetti riguardo all’avvenire dei partiti. Egli, infatti, non condivideva la convinzione espressa da Minghetti circa l’attenuazione dei conflitti tra i partiti che si sarebbe avuta con l’evoluzione della società. Nella costruzione della sua teoria della rappresentanza e ancor più nella formulazione del concetto di sovranità nazionale fondata sulla dottrina dello stato-persona, che fu una originale «traduzione italiana» della teoria dello «stato di diritto», Orlando si ispirò a Jellinek e a Laband. Sulla scia di Orlando, la «Scuola italiana di diritto pubblico» esercitò una sua egemonia. Nel primo dopoguerra, vi fu un ritorno di interesse per la cultura costituzionale tedesca e in particolare per la costituzione di Weimar che fu oggetto di studio da parte di studiosi liberali; attenzione che si riaccese durante la fase costituente nel secondo dopoguerra.
Sarebbe tuttavia restrittivo considerare solo questo aspetto della presenza tedesca nella cultura italiana. Tenendo conto che sarebbe impossibile, anche sinteticamente, ricostruirne i vari influssi, per quanto riguarda le matrici filosofiche del liberalismo italiano è quasi superfluo accennare ad esempio al debito verso l’hegelismo dei fratelli Spaventa e dello storicismo di De Sanctis, nonché l’importanza che esso ebbe sull’idealismo di Croce e Gentile. Non è possibile poi in questa sede riferirsi all’incidenza della cultura germanica sulle scienze sociali e sul pensiero economico italiano senza accennare, ad esempio, alla influenza della scuola «classica» su F. Ferrara, il quale fu un deciso avversario in nome del liberismo del «socialismo della cattedra» tedesco e del «germanesimo economico»in Italia. Alle posizioni di Ferrara, si contrapposero personalità come quelle di F. Lampertico e soprattutto di L. Luzzatti, ammiratore della legislazione tedesca, che importò in Italia l’esperienza di Schulze-Delitzsch nell’organizzare il sistema delle banche popolari. Notevole fu anche la recezione dell’«economia regolata» di Rathenau nel primo dopoguerra, pubblicato per ispirazione di Croce da Laterza. Merita poi più di una citazione il rapporto tra Röpke ed Einaudi e la fortuna dell’«economia sociale di mercato» non solo sugli economisti a lui vicini, ma anche su esponenti del «nuovo liberalismo» come Carandini, Cattani e soprattutto Panfilo Gentile. Anche tra Croce e Hayek vi fu un interscambio[Griffo 2004]. Notevole influenza ebbero poi von Mises e Hayek sui neo-liberisti, cui si deve in tempi più recenti la ripresa di un dibattito sul liberalismo in Italia.
Anche nel campo della sociologia politica italiana, nonostante Mosca e Pareto facessero registrare un loro primato, non si può non ricordare l’incidenza di R. Michels, che è da considerarsi italiano d’adozione, non solo per i suoi rapporti e i suoi scritti con il movimento operaio, il socialismo e il marxismo italiani, ma per il suo contributo sul piano scientifico dato alla «scuola elitaria» con la «legge di ferro» sull’oligarchia, tanto che Burham lo vede associato a G. Mosca e Pareto in una triade che definisce «machiavelliana». Se si considera il rapporto con la sociologia tedesca e quella italiana è necessario ricordare quanto abbia pesato il pensiero di M. Weber soprattutto sugli studiosi che hanno lavorato anche più di recente attorno all’idea della leadership e di partito «carismatico» (Cavalli).
Non meno importante fu il contributo degli studiosi tedeschi sulla storiografia italiana, basti l’esempio del Cavour di Treitschke, che ebbe molta fortuna in Italia, e l’influenza su Croce e più tardi su Chabod. Per quanto riguarda questo più ristretto campo si deve osservare che questa influenza fu a corrente alterna, a seconda dalle diverse fasi che attraversarono le relazioni politiche tra i due paesi. Ma già nella fase precedente l’Unità, si deve ricordare la grande incidenza del romanticismo tedesco sul clima intellettuale italiano, durante il periodo napoleonico e durante la prima Restaurazione e in particolare sulla formazione dell’idea di nazione. Basti pensare alla recezione che ebbero all’epoca i Discorsi alla nazione tedesca di Fichte – ancora un secolo più tardi Nitti rivolgendosi ai giovani italiani vi fece riferimento – o l’influenza di Goethe sul giovane Mazzini, senza dimenticare che i patrioti italiani leggevano nelle segrete borboniche i Dolori del giovane Werther, come ricorda Croce a proposito di Giuseppe Poerio. D’altra parte, non si può dimenticare anche il pregiudizio antitedesco della «scuola neoguelfa», dei Troya, Balbo, D’Azeglio, che negli scritti politici e nei romanzi storici, ma anche in quelli più propriamente storiografici, esaltarono il mito dell’età comunale come il momento di riscatto e di risorgimento nazionale, in contrapposizione all’impero, in funzione della costruzione di un’identità nazionale. Tale mito lascerà una traccia nella medievistica e in tanta parte della cultura, che verrà molto influenzata da un pregiudizio antitedesco, anche successivamente all’Unità. Sarebbe sufficiente citare il saggio di Pasquale Villari L’Italia e la civiltà latina e la civiltà germanica del 1862 e il saggio di V. Imbriani di critica alla letteratura tedesca. Forse il periodo in cui si guardò con maggiore simpatia alla Germania furono gli anni Sessanta, quando sembrò che vi fosse un parallelismo tra il processo unitario italiano, guidato da Cavour e quello tedesco alla cui guida era Bismark, due personalità diverse che seguirono anche metodi differenti, facendo il primo ricorso soprattutto alla forza della diplomazia e il secondo alla forza delle armi. Fu il già citato von Treitschke a proporre nella sua biografia di Cavour (1869) il modello italiano al popolo tedesco, sostenendo questo parallelismo tra i due moti di unificazione nazionale. Ma questo idillio ebbe breve durata, perché la guerra franco-prussiana non solo riaprì la discussione sulla diversa natura dei liberalismi italiano e tedesco, ma svelò interessi nazionali non più convergenti, in un assetto europeo nuovo, costituitosi dopo la sconfitta francese a Sedan, che sconvolgeva il sistema diplomatico italiano.
Sul piano ideologico era in particolare Bonghi a mettere in luce il carattere illiberale ed autoritario della politica bismarckiana [Bonghi 1871, pp. 257 ss]. Scrittori come G. Civinini rifacendosi a Sybel (Die deutsche Nation und das Kaiserreich) e N. Marselli si impegnarono, invece, a dissipare i timori che la vittoria tedesca sulla Francia potesse rilanciare un movimento pangermanico mirante a ricostruire un impero tedesco egemone in Europa. Essi sostennero che il «nuovo» impero, rispetto all’antico era uno stato nazionale e liberale. Su questa linea fu anche C. De Cesare, che sostenne la superiorità culturale della Germania sulla Francia ed auspicava che i due popoli avessero un destino comune sulla via della modernità. All’avvento della sinistra storica, quando, da parte della destra conservatrice nella sua polemica contro il parlamentarismo si invocò una riforma che si ispirasse al Kaisereich bismarckiano (Bonghi, Sonnino), il modello tedesco tornò di moda.
Di nuovo si aprirono fasi di forte conflittualità nel mondo politico italiano al momento dell’adesione italiana alla Triplice alleanza, avversata dalla sinistra radicale ma non molto popolare nemmeno negli ambienti liberali, legati alla tradizionale politica dell’equilibrio. L’alleanza con gli imperi centrali si giustificava anche sotto il profilo interno alla luce di una politica fondata sulla sicurezza nei confronti della minaccia anarchica. Un altro momento in cui il modello bismarckiano tornò in auge fu indubbiamente il periodo crispino, anche se lo statista siciliano nel suo tentativo di rafforzare l’esecutivo, pur guardando con simpatia ad una forma di cancellierato, non intendeva indebolire le prerogative del parlamento. È certo però che egli tenne presente la legislazione tedesca nelle sue riforme sociali e nel campo amministrativo. L’irredentismo continuò ad essere un cleavage nell’opinione pubblica italiana e per quanto non vi fossero claim territoriali nei confronti di Berlino, il supporto alla politica espansionista dell’Austria Ungheria da parte della Germania era destinata a minare le buone relazioni culturali ed economiche tra i due paesi (non è insignificante il ritardo con cui l’Italia dichiarò guerra alla Germania). Nel clima arroventato che precedette l’intervento, si assistette a una campagna antigermanica, scatenata da interessi economici insofferenti per la presenza tedesca nel campo industriale e soprattutto nel campo finanziario (un esempio di questa situazione fu la Banca Commerciale di Toepliz) e dai nazionalisti, che in precedenza erano stati tra i principali ammiratori del modello tedesco. Sempre alla vigilia dell’intervento, A. Rocco, un lucido esponente del nazionalismo, riconosceva che «L’Italia colta e studiosa era piena di ammirazione per la cultura tedesca» e che non vi era avversione verso la Germania, ma che quest’ultima, a causa dell’alleanza con l’Austria, si era messa di traverso nei confronti degli interessi italiani minacciando la nostra esistenza [Rocco 1938, pp. 207]. In questa campagna fu coinvolto anche Croce, accusato di germanofilia, che ebbe il coraggio di riconoscere, in quel clima avvelenato, il grande debito della nostra cultura verso la «scienza» tedesca. Atteggiamento che egli confermò anche durante la Seconda guerra mondiale, quando distinse il nazismo dal popolo tedesco, depositario di quella grande tradizione culturale ed esprimendo che a guerra finita quest’ultimo avrebbe ritrovato la via della democrazia.
Durante il fascismo, gli intellettuali ebbero un atteggiamento ambivalente: non mancarono fino al 1938, posizioni critiche nei riguardi del nazismo e anche di incondizionata adesione, soprattutto tra quelli più schierati; molti di loro si rifugiarono in nicchie in cui non era necessario esprimere critiche nei riguardi del regime nazista. Per quanto fosse difficile prendere posizione, ancora in occasione dell’Anschluss non mancarono manifestazioni antitedesche perfino nella stampa di regime, tanto che Mussolini dovette intervenire in Gran Consiglio per ricordare che la «formazione delle due nazioni era stata parallela nei tempi e nei modi» e che erano «unite da una concezione analoga della vita» e dovevano marciare unite per dare un nuovo equilibrio all’Europa. Dopo la svolta che portò al Patto d’Acciaio, benché fosse impossibile agli intellettuali inseriti nei media e nelle istituzioni non adeguarsi, vi furono atteggiamenti ambigui se non di aperto dissenso. Ad esempio, non si possono non cogliere episodi come quelli che si verificarono all’interno di riviste come il «Primato» di Bottai nelle cui pagine si svolse un dibattito sul romanticismo nel quale alcuni collaboratori – tra i quali M. Lupinacci, futuro esponente liberale – cercarono di segnalare il pericolo di un egemonia tedesca sulla «nuova Europa» e rivendicarono in contrapposizione l’idea di un «primato» della cultura italiana, non a caso subito «bollati» per questo motivo di passatismo. Non è superfluo ricordare che quel dibattito era stato aperto da Giovan Battista Angioletti, altro futuro liberale, che aveva posto il problema del crollo della cultura francese dovuto all’occupazione tedesca.
Politica e cultura nelle relazioni italo-tedesche non furono sempre in sintonia, ma il debito dell’Italia verso la cultura tedesca non fu mai messo in discussione, anche nei momenti di grande ostilità. All’indomani dell’8 settembre, quando i liberali furono tra i primi a spingere per la dichiarazione di guerra alla Germania, furono rispolverati toni «carducciani» contro «l’odiato tedesco». Ma B. Croce, nel dicembre del ’43, in piena occupazione tedesca, scriveva pagine indimenticabili nelle quali rinnovando il suo amore per una grande tradizione culturale e ricordando la sua opposizione al nazismo, rivolgeva un appello agli alleati invitandoli a non ripetere gli errori di Versailles [Croce 1973, p. 164; Id. 1966, p. 344]. D’altronde, anche un altro grande liberale come F.S. Nitti, nella sua trilogia sulla «crisi dell’Europa» aveva espresso la speranza che il popolo tedesco avrebbe provato vergogna per il male di cui si era fatto strumento e si sarebbe convertito in «forza di bene». Una conversione che doveva avvenire spontaneamente, senza che altri rinfacciassero alla Germania la sua colpa.
Non si può, infine, non condividere quanto scriveva R. Romeo:
L’influenza che la Germania ha esercitato sulla vita italiana nel periodo che va dal decennio 1860-70 alla prima guerra mondiale si può dire ad ogni settore di attività, dalla filologia alla vita economica, dalla musica alla medicina, agli ordinamenti militari, alla politica estera e interna [Romeo 1978, p. 109].
Bibliografia
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