Individualismo
di Luigi Marco Bassani
Nel contesto del liberalismo italiano il termine «individualismo» ha avuto un’importanza assai marginale. Almeno in parte ciò è dovuto all’influenza del pensiero cattolico e segnatamente di Antonio Rosmini Serbati, che preferì sempre il termine – certo correlato – di «persona» a quello di individuo. Nell’enciclica Populorum Progressio (1967) si parla addirittura dei «principi disumani dell’individualismo» [Paulus PP. VI, Litt. enc. Populorum progressio, 70].
Anche il soggettivismo della Scuola austriaca di economia, che pone al centro dell’universo sociale l’individuo facendone il protagonista assoluto dell’indagine mirante alla comprensione dei problemi sociali non ha riscosso soverchia fortuna nel nostro Paese, se non in tempi assai recenti. Se ben noti furono gli studi «marginalisti» di Carl Menger (1840-1921), uno dei padri della teoria soggettiva del valore [cfr. Menger (1871) 2001], meno discussa fu invece la sua fatica del 1883 nella quale per la prima volta appare una teoria delle istituzioni sociali che si può definire «individualismo metodologico»: Untersuchungen über die Methode der Socialwissenschaften, und der Politischen Ökonomie insbesondere [cfr. Menger (1883) 1996].
I grandi liberali del Novecento ritenevano tale approccio metodologico l’unico possibile e adatto a produrre conoscenza nel campo delle scienze sociali, giacché in queste discipline «sono gli atteggiamenti dei singoli che costituiscono gli elementi primari di cui ci si deve servire per ricostruire, per via di combinazione, i fenomeni complessi, cioè per riprodurre i risultati delle azioni individuali, che ci sono molto meno noti» [Hayek (1952) 2008, pp. 70-71]. Nel mondo sociale, affermava Mises vent’anni prima, ciò che ha reale esistenza è solo l’uomo; le istituzioni e i fenomeni sociali sono costruzioni non conoscibili direttamente: «Per ragioni scientifiche, dobbiamo incominciare dall’azione dell’individuo, perché questa è l’unica cosa di cui possiamo avere una diretta conoscenza. L’idea di una società che possa operare o manifestarsi separatamente dall’azione degli individui è assurda. Tutto ciò che è sociale deve in qualche modo essere rinvenibile nell’azione dell’individuo» [Mises (1933)1988, p. 64]. Infatti, «il compito di una teoria sociale è di costruire e analizzare i nostri modelli sociologici attentamente in termini descrittivi o nominalistici, cioè in termini di individui, dei loro atteggiamenti, delle loro speranze, dei loro rapporti» [Popper (1957) 1988, p. 122]. Insomma, per l’individualismo metodologico sulla scena sociale esiste solo l’individuo, unico soggetto che agisce, pensa, scambia, interagisce. Il che significa che tutti i grandi fenomeni sociali possono essere compresi partendo dalle azioni dell’individuo, ovvero possono essere compresi solo riconducendoli alle azioni degli individui, tanto che nella società gli aggregati esistono solo come conseguenze dell’interazione tra gli individui. Così il mercato non esiste in sé, ma è solo la cooperazione economica dei soggetti. Tale acquisizione scientifica è piuttosto recente nel panorama italiano, tanto che l’indirizzo metodologico secondo il quale per capire gli aggregati sociali occorre studiare l’«azione umana», ossia l’agire di singoli individui – posizione che oggi viene comunemente accettata dalla più gran parte degli studiosi di orientamento liberale classico – non ha ricevuto tematizzazioni di rilievo in Italia.
Nel resto dell’Occidente «individualismo» è diventato invece moneta corrente, non soltanto come approccio metodologico, ma anche quale riformulazione (certo problematica) dell’intera tradizione liberale. Si deve a uno dei più influenti liberali del Novecento, Friedrich A. von Hayek, e al suo saggio Individualism: True and False [Hayek (1948) 1997] non soltanto la ricostruzione dei presupposti dottrinari dell’intera tradizione liberale, ma anche il suo mutamento di nome, appunto in «individualismo». «L’individualismo vero – affermava Hayek – […] trova gli inizi del suo sviluppo moderno in John Locke […] in Bernard Mandeville e David Hume, e ha raggiunto la sua forma compiuta nell’opera di Josiah Tucker, Adam Ferguson e Adam Smith e […] Edmund Burke. […] Nel Diciannovesimo secolo l’individualismo vero è rappresentato nella maniera più esemplare nell’opera dei due più grandi storici e filosofi della politica vissuti in quell’epoca: Alexis de Tocqueville e Lord Acton» [ivi, pp. 42-43].
Secondo il pensatore austriaco esisterebbe una frattura inconciliabile fra due modi di pensare l’esperienza umana: la vera alternativa è fra «l’ordine che troviamo nelle cose umane [inteso] come risultato imprevisto di azioni individuali» e la visione secondo la quale «ogni ordine» sarebbe il frutto di un «deliberato progetto», quest’ultimo marchio di fabbrica della «scuola cartesiana» o collettivista [ivi, p. 48]. Alla tradizione continentale di natura razionalista e tendenzialmente «costruttivista» si contrappone un indirizzo empirista, essenzialmente britannico, che sviluppa le proprie dottrine sociali in accordo con l’ordine spontaneo e naturale della società.
Nel nostro Paese si potrebbe risalire a un saggio di Luigi Einaudi del 1932, nel quale il pensatore torinese tenta di analizzare le cause della grande depressione e di discutere l’efficacia dei rimedi proposti, tra i quali prende in esame in particolar modo la pianificazione. La crisi aveva fatto ritenere «i più che il mondo vada alla deriva per mancanza di un piano razionale atto a porre la produzione dei beni in armonia con il consumo, e taluno aggiunge, con la distribuzione di essi» [Einaudi (1932) 1933, p. 481]; di qui la richiesta di un sempre maggior impiego dei poteri pubblici, ossia di un aumento della coercizione destinata a frustrare le libere scelte individuali. In realtà, secondo Einaudi, la superiorità dell’economia di concorrenza (tale è la locuzione che utilizza) sulla realtà industriale contemporanea, basata sempre più su concentrazioni societarie e sempre meno su piccole e medie imprese a conduzione individuale, consisteva precisamente nell’elasticità con la quale i protagonisti di queste ultime riuscivano a far emergere spontaneamente, grazie alle conseguenze non volute delle proprie azioni, nuove norme di condotta, foriere di vantaggi per l’intera società:
L’insuccesso dei tentativi di prevedere, di regolare e di organizzare sotto una sola guida non è paradossale. La spiegazione dell’apparente paradosso è ovvia appena si parta dalla premessa che il successo nell’operare economico dipende dalla attitudine ad agire in modo diverso da quel che tutti fanno. […] In una società economica in cui le imprese siano molte ed indipendenti e libere nella loro azione, ossia nella decisione di sorgere, ingrandirsi e morire, i più seguono l’andazzo comune, perché come le scimmie, i pappagalli e le pecore sono fortissimamente dotati di spirito imitativo. Ma i meno, i pochi, che si accorgono in tempo o tardi dell’errore, sono liberi di non commetterlo, di non persistervi, di tagliare in tronco le perdite; i pochissimi che fiutano l’avvenire, e sentono l’utilità di produrre qualche altro bene, o di inventare il nuovo bene desiderato dagli uomini, sono liberi di voltarsi alla diversa o nuova produzione. Invece, in una società economica colossalizzata, consorziata e collettivizzata l’errore ha uguale probabilità di prodursi e vi è minore o non vi è punto probabilità di reazione da parte della minoranza non imitativa. L’errore ha uguale probabilità di prodursi perché il ridurre le imprese economiche a colossi, a consorzi o ad enti collettivi non muta la natura umana [ivi, pp. 483-484].
Sulla funzione «creativa» degli individui e sulla centralità di questa facoltà, non solo per il mantenimento dell’economia di mercato, ma anche per la stessa sopravvivenza di una società liberale, Einaudi ritornerà spesso. Anche se naturalmente siamo molto lontani dalla tematizzazione di Hayek e Mises, dalla loro coniugazione di individualismo e critica della pianificazione economica. Critica che sarà invece sviluppata in Italia da Bruno Leoni, per il quale «un piano (o programma) emanato dall’autorità per l’intera economia di un paese è sempre destinato, come l’analisi economica e l’esperienza hanno ormai dimostrato, a fallire». Ciò si doveva, come denunciato da Mises, all’impossibilità del calcolo economico, considerato lo stato di coercizione al quale sarebbero stati sottoposti i comportamenti economici degli individui: «O si accetta il mercato e si può fare il calcolo economico, ovvero non si accetta il mercato o quanto meno gli si sovrappone un piano e allora i prezzi di mercato o scompaiono o vengono distorti, e manca la possibilità di fare il calcolo economico» [Leoni (1965) 2007, pp. 281 e 284].
Proprio Luigi Einaudi e Bruno Leoni furono peraltro protagonisti di un interessante scambio epistolare a proposito del concetto stesso di «individualismo». Quando Leoni si impegna a introdurre in Italia la distinzione hayekiana tra individualismo irrazionalistico «inglese» e razional-costruttivistico «francese» – prima pubblicando l’articolo I due individualismi sul «Mondo» del 18 marzo 1950, poi nei suoi saggi sul pensiero politico moderno e contemporaneo del 1952-53 [Leoni 2008] – Einaudi gli invia una lunga lettera nel corso della quale avanza una critica a proposito dell’inclusione operata da Leoni dei fisiocratici tra gli individualisti di stampo razionalistico. Einaudi inizia con un auspicio: che «il riconoscimento che Ella fa del valore della distinzione operata dall’Hayek fra le due specie di individualismo, […]sia fecondo», ma sottopone ugualmente al suo interlocutore «un semplice dubbio intorno alla inclusione dei fisiocrati nel gruppo degli scrittori francesi e continentali i quali dalla «ragione» derivano illazioni che tendono a sboccare nel socialismo e nel comunismo»:
È questa concezione una concezione individualistica raziocinante o non ha tali caratteri storicistici che la fanno rassomigliare in modo singolare alle teorie contemporanee inglesi di Adamo Smith e di Edmondo Burke? Io non vorrei dare la risposta al quesito. Non direi però anche che debba essere considerata a priori infeconda una ricerca sui fisiocrati, la quale non si limiti alle consuete osservazioni generiche, ma prenda in esame la vasta letteratura originale in proposito, nella quale, probabilmente, si incontrano correnti diverse di pensiero. «L’ordine naturale ed essenziale delle Società», che ha dato il titolo al celebre libro di Mercier de la Rivière, non è un concetto che possa essere rassomigliato a quelli allora correnti del naturalismo. Dentro ad esso c’è l’idea che l’ordine naturale sia qualche cosa che corrisponde alle esigenze fondamentali di una società politica stabile; non è una escogitazione dottrinale, ma il frutto dell’osservazione della storia, della contemplazione delle vicende delle società politiche ed economiche. Mirabeau padre parla della depravazione delle società con un linguaggio che non è senza una qualche parentela con la concezione che si lesse tanti anni dopo nei libri di Federico Le Play delle società stabili, instabili e decadenti [Einaudi (1950) 1997].
Il legame qui presentato tra i fisiocratici e Smith-Burke può destare non poche perplessità, ma Einaudi non aveva una grande sensibilità storico-filologica. Da segnalare, tuttavia, una limpida professione di fede nell’individualismo – sebbene in veste piuttosto romantica – che viene compiuta da Einaudi già nel 1920 in un saggio palesemente ispirato a Mill (e, in parte, anche a Humboldt), nel quale egli esalta la possibilità di scegliere autonomamente il proprio percorso di vita:
L’aspirazione all’unità, all’impero di uno solo è una vana chimera, è l’aspirazione di chi ha un’idea, di chi persegue un ideale di vita e vorrebbe che gli altri, che tutti avessero la stessa idea ed anelassero verso il medesimo ideale. Egli una sola cosa non vede: che la bellezza del suo ideale deriva dal contrasto in cui esso si trova con altri ideali che a lui sembrano più brutti, dalla pertinacia con cui gli altri difendono il proprio ideale e dalla noncuranza con cui molti guardano tutti gli ideali. Se tutti lo accettassero, il suo ideale sarebbe morto. Un’idea, un modo di vita che tutti accolgono, non vale più nulla. […] L’idea nasce dal contrasto. Se nessuno vi dice che avete torto, voi non sapete più di possedere la verità. Il giorno della vittoria dell’unico ideale di vita, la lotta ricomincerebbe, perché è assurdo che gli uomini si contentino del nulla. No. Gridiamolo alto. La vita disordinata, affannosa, antiunitaria, antidisciplinata, che noi conduciamo pare insopportabile a noi che ne soffriamo i duri contraccolpi individuali, economici e morali. Parrà bellissima alle venture generazioni, le quali godranno i frutti delle verità politiche, economiche e morali che i contrasti odierni avranno fatto trionfare [Einaudi (1920) 1973, vol. I, pp. 34-35].
L’articolo influenzerà notevolmente lo sviluppo del pensiero di Gobetti, ma anche per quest’ultimo non si può parlare se non incidentalmente di individualismo – pur inteso in senso lato.
In definitiva, la ricerca sull’utilizzazione del termine «individualismo» ci mostra una delle maggiori lacune del liberalismo italiano e dei suoi esponenti principali. Infatti, la mancata riflessione sullo statuto teorico dell’individualismo in generale e una ben parziale ricezione del grande tema dell’«individualismo metodologico» segnalano la fragilità di una tradizione, in un panorama nel quale, almeno nell’ultimo secolo, l’agenda delle discussioni scientifiche è stata dettata da ben differenti prospettive culturali.
Bibliografia
Barry N.P., Del liberalismo classico e del libertarianesimo, a cura di A.Vannucci, Elidir, Roma 1993; Einaudi L., Saggi, Edizioni de La Riforma Sociale, Torino 1933; Id., Il Buongoverno. Saggi di economia e politica 1897-1954, a cura di E. Rossi, voll. 2, Laterza, Roma-Bari 1973; Einaudi L. a Leoni B., 27 marzo 1950, parzialmente pubblicata in Quirico M., Una lettera inedita di Luigi Einaudi a Bruno Leoni, in «Il Politico», LXII, 1997; Hayek F.A. von, Individualism and Economic Order, Routledge and Kegan, London 1948; Id. (edited by.), Collectivist Economic Planning. Critical Studies on the Possibility of Socialism, Routledge and Sons, London 1935; Id. Individualismo: quello vero e quello falso (1948)Rubbettino, Soveria Mannelli 1997; Id., L’abuso della ragione (1952), Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, Leoni B., I due individualismi, in «Il Mondo», 18 marzo 1950; Id., Il mito del piano, in Aa.Vv., Nuovi studi sulla pianificazione, Giuffrè, Milano 1965; Id., La libertà e la legge (1961), Liberilibri, Macerata 1995; Id., Collettivismo e libertà economica. Editoriali militanti (1949-1967), Rubbettino, Soveria Mannelli 2007; Menger C., Principî fondamentali di economia (1871), Rubbettino, Soveria Mannelli 2001; Id. Sul metodo delle scienze sociali (1883), Liberilibri, Macerata 1996; Mises L., von, Socialismo. Analisi economica e sociologica (1922), Rusconi, Milano 1990; Id., Problemi epistemologici dell’economia (1933), Armando, Roma 1988; Popper K.R., Miseria dello storicismo (1957), Feltrinelli, Milano 1988.