Legittimità
di Luciano Pellicani
La legittimità è lo specifico attributo che hanno gli Stati che godono di un diffuso consenso da parte dei governati. Essa non va confusa con la legalità. Questa si riferisce al modus operandi del potere sovrano, mentre la legittimità riguarda la titolarità dello stesso. È legittimo il potere che l’opinione pubblica percepisce come l’istituzione che ha il diritto di governare. Di qui la distinzione fra violenza e forza: mentre l’usurpatore ricorre alla prima, il titolare del potere legittimo usa la seconda. La forza è, dunque, una violenza esercitata in nome di un principio di sovranità pubblicamente riconosciuto. Si può quindi dire che l’autorizzazione trasforma il potere nudo in autorità, che è, per l’appunto, il potere legittimo.
Naturalmente, il principio di legittimità varia da civiltà a civiltà, società e società e da epoca a epoca. Ma la sua funzione è sempre la stessa: quella di conferire a un soggetto (individuale o collettivo) il diritto di comandare e di dare all’obbedienza dei governati una base morale. Si tratta, in altre parole, di ciò che Gaetano Mosca chiamava la «formula politica», in base alla quale la classe politica non giustifica esclusivamente il suo potere col solo possesso di fatto, ma cerca di dare a esso una base spirituale facendolo scaturire come conseguenza necessaria di dottrine e credenze generalmente riconosciute e accettate nella società che essa dirige. Per altro, già Marx aveva sottolineato con particolare vigore che la funzione storica dell’ideologia era quella di giustificare l’ordinamento politico-giuridico esistente, presentandolo come conforme all’ordine naturale delle cose, mentre esso altro non era che il comitato d’affari della classe che deteneva il monopolio dei mezzi di produzione e che, grazie a tale monopolio, dominava e sfruttava le classi proletarie.
Quando si affronta il problema sociologico della legittimità, è di rito partire da Max Weber, anche se le opere fondamentali sul tema sono quelle di José Ortega y Gasset e Guglielmo Ferrero. Certamente, a Weber si deve una importante teoria idealtipica delle forme di dominio legittimo; ma, altrettanto certamente, le sue osservazioni sulla natura della legittimità sono assai scarne e, soprattutto, manca in tutta la sua opera una teoria della illegittimità, indispensabile per analizzare le fratture ideologiche che hanno caratterizzato la storia europea a partire dalla Rivoluzione francese. Weber si limita a sottolineare che «la disposizione a obbedire all’imposizione di ordinamenti da parte dei singoli o di più individui presuppone la credenza di un dominio legittimo» e che «ogni dominio cerca di suscitare e di coltivare la fede nella propria legittimità». Per contro, in Ortega y Gasset troviamo una articolata e originale teoria delle credenze su cui si appoggia il potere legittimo. Essa si basa sulla distinzione fra le idee-invenzioni e le idee-istituzioni. Queste ultime sono, per l’appunto, le credenze, che Ortega definisce «vigenze collettive». Le quali sono invisibili realtà onnipresenti che plasmano dall’interno, inconsciamente, la vita umana e la sostengono. Esse hanno sempre un carattere collettivo, poiché, di regola, si crede insieme agli altri; ed è proprio il «credere insieme» la base dell’ordine sociale in quanto esso crea quell’idem sentire de re publica senza il quale una società cessa di essere tale e si trasforma in un aggregato di individui senza legami spirituali e persino senza la possibilità di comunicare. Da ciò deriva che, grazie alla piena vigenza di un sistema di credenze e dei principi etico-politici in esso impliciti, nasce la concordia fra gli ordini; e nasce altresì la sovranità legittima, basata sulla credenza, diffusa e solida come un dogma, che chi governa non è un usurpatore, bensì il titolare del diritto di comandare. Il che non significa che la piena vigenza di un principio di legittimità esclude la lotta di classe. Al contrario, Ortega afferma con la massima energia che proprio grazie alla lotta di classe è possibile creare una forma di convivenza di rango superiore. Ciò che la legittimità garantisce è che i conflitti di interessi saranno, in qualche modo e in qualche misura, ritualizzati e, per questo, si svolgeranno entro gli argini delle istituzioni esistenti. Saranno, in altre parole, conflitti nel sistema, non già conflitti sul sistema. Non avranno, pertanto, una natura e una finalità rivoluzionaria.
Ora, se è vero che il potere legittimo è l’esercizio normale dell’autorità e che questo si fonda sempre sull’opinione pubblica, ne consegue un drammatico corollario: che la frammentazione dell’opinione pubblica fa evaporare il consenso sui principi che regolano l’esercizio della sovranità. Allora, inevitabilmente, il potere diventa nuda forza e, assumendo le forme di un apparato ortopedico, si converte in pura esigenza di fronte ai governati. Non ammette condizioni previe, riserve, obiezioni; a rigore, neppure collaborazione, ma semplice resa incondizionata. Ed è, appunto, questa la tragedia del potere illegittimo, del potere che non può appoggiarsi su una opinione pubblica compatta e che, precisamente per questo, è costretto a ricorrere sistematicamente alla violenza.
Non diversa la conclusione cui giunse, seguendo un percorso autonomo, Ferrero. Il suo punto di partenza è l’affermazione che ciò che caratterizza in modo determinante la condizione umana è la paura. L’uomo è una creatura costitutivamente paurosa poiché è il solo essere vivente che ha l’idea e il terrore della morte e che ha la terribile capacità di costruire strumenti per distruggere la vita. Questa paura originaria e permanente, matrice di tutti i suoi problemi e di tutti i suoi affanni, popola la sua fertile immaginazione di fantasmi mostruosi e di pericoli fittizi, sicché l’uomo può essere definito come un animale che vive al centro di un sistema di terrori e che fa tutto quello che fa per sconfiggerli. Dalla paura di fronte alla natura (misteriosa e minacciosa), agli altri (nemici reali o immaginari) e al futuro (fonte perenne di ansietà e di preoccupazioni), nasce la civiltà, che Ferrero concepisce come la serie di sforzi che gli uomini compiono per costruire una artificiale condizione di stabilità e di sicurezza.
Fra le tante istituzioni che l’uomo crea per ridurre ai minimi termini la paura, c’è lo Stato con i suoi terribili apparati repressivi. La funzione principale dello Stato, quale che sia la sua forma specifica, è quella di produrre sicurezza. Ma, paradossalmente, esso produce anche paura. La storia, infatti, documenta che il potere sovrano quando si sente minacciato, diventa una belva spietata. La storia documenta altresì che l’istituzionalizzazione di un principio di legittimità può porre fine alla paura che governanti e governati si fanno reciprocamente. La legittimità, infatti, ha la straordinaria capacità di trasformare il potere di fatto in un potere di diritto, l’obbedienza forzata in obbedienza spontanea. Ed è per questo che Ferrero afferma che l’intima natura dei principi di legittimità è la facoltà di esorcizzare la paura e che, appunto per questo, essi possono essere definiti «i Geni invisibili della Città». Tutto accade, in una società dove impera un principio di legittimità in accordo con l’opinione pubblica, come se sia vigente un patto tacito e sottinteso fra il potere sovrano e i suoi soggetti. Ma, quando l’opinione pubblica si frantuma, la credenza comune su chi ha il diritto di comandare e con quali regole evapora e sulla scena sociale riappare la paura: la paura che coloro che controllano gli apparati coercitivi incutono nei governati e la paura che i governanti hanno della ribellione dei governati, sempre pronta a esplodere.
È per questo che gli uomini soffrono terribilmente quando è in atto un conflitto fra due principi di legittimità, di cui uno è la negazione secca dell’altro. Ciò, infatti, significa che il potere sovrano non potrà essere esercitato in accordo con l’opinione pubblica e le aspettative diffuse; al contrario, consapevole di essere percepito come un usurpatore, non avrà altra risorsa che quella di fare un uso massiccio della violenza. Nei casi estremi, il potere illegittimo può degenerare in potere terroristico. Ne deriva che la crisi di legittimità è la malattia più grave che possa colpire un corpo politico. Tutta la sua esistenza storica sarà profondamente alterata, se la legalità e il principio di legittimità che la sostiene e la anima sono travolti, dal momento che i governanti, non potendo esercitare il comando con il diffuso e sincero consenso dei governati, saranno obbligati a terrorizzarli per costringerli a obbedire e per estirpare le radici della rivolta.
Secondo Weber, lo studio comparato delle civiltà tradizionali mostra una precisa costante storica: in esse, il potere «poggiava sulla credenza quotidiana nel carattere sacro delle tradizioni valide da sempre». Essendo civiltà sottoposte al «dominio di un’incrollabile tradizione sacra», i sovrani godevano di una legittimazione forte: il loro diritto di far morire o di lasciar vivere era di natura divina e, come tale, inattaccabile. Unica eccezione: la civiltà occidentale, nella quale si registra una progressiva erosione del legame organico fra il sacro e il potere. E ciò è avvenuto a motivo di un radicale cambiamento dell’opinione pubblica, sfociato nella istituzionalizzazione di un nuovo paradigma centrato sull’idea che lo Stato e la religione devono essere rigorosamente separati.
Ma la transizione non è stata punto pacifica. Al contrario, a partire dal 1789, due principi di legittimità si sono scontrati in forme sanguinose: il principio dell’Antico Regime, basato sull’alleanza fra il Trono e l’Altare, e il principio laico-liberale proprio della civiltà moderna. Ne è scaturito uno stato di crisi permanente, scandito da crisi violente che si sono concluse solo quando, verso la fine del XIX secolo, il regime parlamentare si è imposto in buona parte dell’Europa occidentale. Il quale, però, ben presto è stato contestato frontalmente dai movimenti rivoluzionari – bolscevismo, fascismo, nazionalsocialismo – che hanno fatto la loro traumatica irruzione a seguito della Grande guerra. Così l’Europa tutta ha vissuto un’altra crisi di legittimità sfociata nella Seconda guerra mondiale, che è stata una guerra ideologica durante la quale si sono sanguinosamente scontrati due modelli di Stato: quello liberal-democratico, basato sulla legittimità razionale-legale, e quello totalitario, basato sulla legittimità carismatica. Una guerra ideologica che è continuata anche dopo la sconfitta della Germania nazionalsocialista, poiché l’Unione Sovietica e i partiti comunisti hanno lanciato una vera e propria campagna di delegittimazione dell’Occidente, dipinto come un vorace e insaziabile Moloch che pretendeva il mondo intero come vittima a lui spettante. L’Europa ha cessato di essere dilaniata dal duello esistenziale fra i Geni invisibili della Città solo quando, fra il 1989 e il 1991, è collassato il così detto «socialismo reale». La democrazia liberale, dopo due secoli di laceranti conflitti di valori, ha conseguito una storica vittoria: si è imposta come l’unica forma di Stato grazie alla quale i popoli europei possono finalmente vivere pacificamente e non più tiranneggiati dalla paura.
Bibliografia
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