Letteratura
di Maria Gabriella Riccobono
1. Nell’anno accademico 1873-74 Francesco De Sanctis nel corso sulla “scuola cattolico-liberale” pronunciò giudizi assai limitativi sugli allievi-amici di Alessandro Manzoni (1785-1873) e sullo stesso caposcuola. Sia Tommaso Grossi, Cesare Cantù, Giulio Carcano e Nicolò Tommaseo (1802-1874), i letterati della “scuola”, sia i suoi “pedagogisti” (Raffaello Lambruschini, Enrico Mayer, Pietro Thouar e altri), sia il suo filosofo, Antonio Rosmini, sia Manzoni stesso, avevano infatti proposto e divulgato una commistione di liberalismo e cattolicesimo che, invece di predicare la ribellione delle popolazioni italiane oppresse dallo straniero e dai ceti privilegiati, predicava la mansuetudine, la mitezza, la rassegnazione.
Separandolo dal clericalismo, De Sanctis pronuncia sul liberalismo un giudizio quasi positivo. Manzoni, Silvio Pellico, Vincenzo Gioberti, Massimo d’Azeglio e anche Cesare Balbo avevano contribuito a fare l’Italia rinunziando alle sette, alle congiure e a ogni altro mezzo violento, ma chiedendo in cambio ai principi di rinunziare all’assolutismo. Il resto fu questione di strategia. Tutte le forze effettive furono conciliate sotto la guida di Cavour e l’iniziativa del Piemonte. Il Risorgimento e l’unificazione nazionale erano stati liberali perché il liberalismo, secondo De Sanctis, è la dottrina per la quale il mezzo atto a ottenere il fine della libertà è la libertà stessa. Nel liberalismo, a suo dire, la società è simile a ciò che è la natura per il darwinismo. Occorre evitare di coartare con la violenza – non importa che venga dall’alto o dal basso – le forze sociali; esse, infatti, se lasciate libere di svilupparsi, lasciate libere, soprattutto, da ogni ingerenza e tutela dello stato, retrocedendo e poi avanzando gradualmente, vanno nella direzione del progresso. Nel liberalismo italiano si manifesta così una componente storicista di accentuata matrice vichiana. De Sanctis sembra digiuno di conoscenze inerenti non solo il liberalismo franco-inglese e tedesco (Immanuel Kant), ma anche di quello, storicista e impregnato di romanticismo, di M.me de Staël, Wilhelm von Humboldt, Benjamin Constant.
Consuonano con quelli di De Sanctis i giudizi espressi su Manzoni da Giuseppe Mazzini, per il quale Manzoni è interamente posseduto da speranze e terrori religiosi che non gli consentono di suscitare e fomentare l’odio nei confronti dello straniero.
Conviene ora però fare un passo indietro.
Il fallimento delle repubbliche giacobine, il dominio napoleonico, la restaurazione europea suscitano anche in Italia un forte sentimento patriottico, inesistente prima della espansione francese in Europa, che si mostra anche nella vita letteraria. Accanto o in alternativa alla ragione astratta dell’Illuminismo, si fece strada la ragione storica, invocata da Ugo Foscolo nella prolusione all’Università di Pavia («O Italiani, io vi esorto alle storie») da lui pronunziata nel 1809.
Nel 1816 la milanese “Biblioteca italiana” pubblica l’articolo di M.me de Staël Sulla maniera e utilità delle traduzioni, in cui si incitano gli italiani a uscire dal loro orgoglioso isolamento e a rinnovare la cultura, studiando le opere poetiche fiorite recentemente fuori d’Italia. Subito divampa la polemica classico-romantica. Ludovico di Breme (1780-1820) e Pietro Borsieri (1788-1852) danno inizio a una strenua lotta in favore della nuova letteratura. Borsieri pubblica, nel 1816, l’articolo Avventure letterarie di un giorno; quasi contemporaneamente compaiono l’articolo Intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani del Di Breme, e la Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo di Giovanni Berchet (1783-1851). Questi scritti, specie il terzo, sono i manifesti del romanticismo italiano, tributario – in ciò De Sanctis vede bene – di Giambattista Vico. Berchet ne delinea gli aspetti programmatici fondamentali: il “popolo” chiamato a costituire il pubblico della letteratura romantica è uno strato della popolazione intermedio tra i “parigini” (le élites intellettuali) e gli ottentotti (le plebi analfabete).
Dal settembre 1818 all’ottobre 1819 esce a Milano, prima di essere soppresso dalla censura austriaca, «Il Concilatore», bisettimanale di economia, finanza e letteratura finanziato da Luigi Porro Lambertenghi (1780-1860) e da Federico Confalonieri (1785-1846). Al periodico, che raccoglie l’eredità del «Caffè», collaborano tutti i letterati cattolico-liberali più arditi (ma non Manzoni): Ermes Visconti (1784-1841), Grossi (1790-1853), Pellico (1789-1854), Di Breme, Berchet, Borsieri, e liberali non cattolici, come il laicissimo Giuseppe Montani.
I liberali romantici mirano a raggiungere un pubblico assai più vasto di quello cui si rivolgono i classicisti, per educarne il gusto, la sensibilità e anche la coscienza civile e politica. Come occorre favorire la crescita di un ceto medio, di una borghesia laboriosa e di un’opinione pubblica moderna, che costituisca il nerbo della nazione, così occorre anche emancipare gli uomini di cultura dalla posizione di letterati “cortigiani” e trasformarli in uomini di cultura autonomi e remunerati da parte di editori moderni e consapevoli del funzionamento del mercato. Tale programma è ripreso prima dall’«Antologia» di Gian Pietro Vieusseux, poi dal «Politecnico» di Carlo Cattaneo (1801-1869), infine dalla «Rivista europea» di Carlo Tenca (1816-1883). Qui, nel 1838, lo storico lombardo Cesare Cantù (1804-1895) pubblica un ampio saggio sul mercato librario e sul mestiere del letterato in Italia, commissionatogli da Giuseppe Pomba e da Vieusseux, che volevano ottenere dai governi la difesa del diritto d’autore. Cantù afferma che gli uomini di cultura sono la coscienza delle nazioni e hanno il dovere di parlare: i governi italiani hanno paura della voce dei letterati e li vogliono poveri, privi di diritti e silenziosi. Posizione indubbiamente sintomatica dato che Cantù, che non è un liberale, non professa ideali neoguelfi; ancorché avverso al governo austriaco, è un rigido sostenitore della sottomissione dei governi alla guida degli ecclesiastici, che intimano ai potenti la verità in nome di Dio.
Appaiono così le prime classificazioni. De Sanctis, sbagliando, definisce letterati e liberali tutti coloro i quali, come Cantù, ebbero consuetudine con Manzoni e ne recepirono l’influenza e inserisce nella scuola cosiddetta “democratica”, insieme a Mazzini, coloro i quali, come Berchet, tra 1821 e 1848 professano ideali antimonarchici e repubblicani. Ma Berchet è prima un liberale repubblicano e democratico nelle cui Romanze, del 1822, e nei poemetti del periodo dell’esilio, le Fantasie, del 1829, si sostanzia liricamente un sentire delicato e insieme irruento unito ad un energico desiderio della patria; poi appoggia l’annessione al Piemonte delle province settentrionali d’Italia.
Uno sviluppo politico-morale non dissimile contrassegna il percorso del giornalista, storico della letteratura, linguista ed etnografo Tenca, il quale svolge un ruolo di cerniera tra il romanticismo risorgimentale storicista e liberale-democratico e l’impegno civile e politico nell’Italia unita. Dopo trascorsi mazziniani, egli abbraccia il liberalismo “cavouriano” e militerà in Parlamento tra le file della destra.
Il liberalismo espresso dai letterati italiani e dalla letteratura preunitaria si colloca così tra due poli: l’uno, dapprima neoguelfo e poi cattolico-liberale, unitario e filo-piemontese, trova il proprio massimo esponente in Manzoni; l’altro, federalista e repubblicano, trova il proprio massimo esponente in un altro milanese: Cattaneo. Personalmente immune da suggestioni religiose, Cattaneo è pensatore economico e politico, ma anche critico letterario e storico della lingua; negli anni 1846-47 pubblica Alcuni scritti, il cui primo volume, si intitola Letteratura. Linguistica. Oltre al celebre saggio Il principio istorico delle lingue indo-europee, del 1841 (di impianto illuminista, vichiano e storicista), altri scritti letterari sono Ugo Foscolo e l’Italia, e il discusso Dell’accento sulle voci sdrucciole per agevolare agli stranieri l’uso della lingua italiana, del 1843. Anti-piemontese, non anti-monarchico, Cattaneo vagheggia una federazione degli stati italiani e, infine, gli Stati uniti d’Europa, ed è strenuo difensore della proprietà privata e della libertà economica; vede come una speranza per l’Italia le società operaie ma non le masse contadine che reputa troppo ignoranti per contribuire alla vita politica.
L’obiettivo di fornire un’istruzione alle plebi, di emanciparle dalla ignoranza e di aprirle alle conoscenze indispensabili tanto alla modernizzazione dell’agricoltura e al lavoro in fabbrica, quanto al diventare soggetti politici attivi, è largamente condiviso tra i liberali romantici. Un tale programma richiede che la narrativa e la prosa dispongano di una lingua italiana che tocchi tutti i registri, privilegiando però quello medio, e che sia in grado di esprimere ogni oggetto, ogni fatto e ogni esperienza, da quelle più fini a quelle più plebee. Per altro verso il liberalismo risorgimentale, grazie al collegamento istituito da tutto il movimento romantico europeo tra il concetto di popolo e l’idea di nazione, recupera e valorizza il patrimonio della cultura popolare, specie la cultura tramandatasi per via orale all’interno delle plebi (proverbi, poesie, usi e costumi). In essa i romantici storicisti presumono di ritrovare il fondo oscuro, etnico, dell’autocoscienza di un popolo, le sue tradizioni, i suoi costumi, i suoi più radicati valori. In questo si differenziano nettamente dal romanticismo mazziniano, democratico e populistico, il quale della cultura popolare non si interessa mai.
Le attese e gli obiettivi del liberalismo italiano informano il capolavoro della narrativa ottocentesca, I promessi sposi (1827-1842) di Manzoni, nei quali l’illuminismo razionalista, la profonda religiosità cattolica e il romanticismo sostengono con mirabile collaborazione reciproca, ma senza fondersi, la poderosa fabbrica romanzesca. Una fabula semplice e pienamente verosimile ha come protagonisti personaggi del popolo ingiustamente perseguitati. L’intreccio è un affresco vastissimo elaborato sulla scorta di accurate indagini d’archivio e della storiografia secentesca lombarda. Senza mai scadere al livello di letteratura di propaganda, i PS raffigurano un’epoca e un’area politico-geografica in cui al potere dello stato si contrappongono altri poteri esercitati da caste potenti. Allo stato manca la capacità di fare rispettare le leggi mentre costumi assai radicati e le leggi stesse favoriscono le caste privilegiate (il clero e la nobiltà) che esercitano sui più deboli abusi e violenze in antagonismo al potere statale. Il romanzo suscita l’indignazione del lettore nei confronti di questa situazione; induce il desiderio della certezza del diritto, il quale deve promanare da un’unica fonte, quella statuale, che sia in grado altresì di farlo rispettare; mette vividamente in risalto la saggezza, la virtù, e il prezioso buon senso dei contadini, degli operai, degli artigiani. I “poveretti”, grazie alla loro profonda religiosità cristiana – mitigatrice di ogni istinto, anche giustificato, che conduca alla ribellione violenta e allo spargimento di sangue – sono in grado di affrontare avversità come le prevaricazioni di un aristocratico potente e della sua casta, la guerra, la carestia e la peste. Questi mali, insieme all’ignoranza superstiziosa, sono causa di sommosse e ribellioni violente. Non vi è affatto nel “gran romanzo”, però, quel terrore o disgusto della folla che insorge a causa della fame e del malgoverno propri di tanta narrativa dell’Ottocento e del Novecento europei. Vi è invece l’analisi lucida e acuta delle ragioni per cui l’insurrezione accade, con conseguenze pesanti o nefaste sia per coloro sui quali ricade responsabilità morale e storica di essa sia per gli insorti. Memorabile, dal punto di vista dei rapporti tra letteratura e liberalismo, è il Capitolo XII, in cui il narratore, con parole semplici ed efficaci, lascia intendere che la produzione di beni e derrate di prima necessità è affidata alla piccola proprietà terriera (deplorando quindi il demanio ecclesiastico e il latifondo improduttivo) e che calmierare i prezzi, al fine di placare le moltitudini, significa agire «come una donna stata giovine, che pensasse di ringiovinire, alterando la sua fede di battesimo»; l’imposizione per legge di uno squilibrio tra domanda e offerta conduce a una sempre maggiore scarsità dei beni e alla più tetra miseria diffusa. Renzo e Lucia vengono infine premiati: si sposano e si trasferiscono nel bergamasco, dove, grazie alla sostanziale libertà economica vigente nei territori governati dalla Serenissima, ascendono dal rango di operai salariati a quello di piccoli imprenditori.
Sono da ricordare altri personaggi che intrecciarono l’attività politica con quella letteraria e che, sia pure in modi diversi, rispecchiano gli ideali di libertà vivi e diffusi nella loro epoca.
Tommaseo ebbe sempre consuetudine con Rosmini e poi con Manzoni e con Gino Capponi. Collabora all’«Antologia» e a Firenze, nel 1830, porta a termine il Nuovo dizionario de’ sinonimi della lingua italiana. Soppressa la rivista fiorentina anche a causa di un suo articolo antiaustriaco del 1833, nel 1837 pubblica un importante commento alla Divina Commedia e nel 1841-42 la raccolta dei Canti popolari toscani, corsi, greci e illirici. La sua fervente religiosità si congiunge a una raffinata sensibilità estetica, a una sensualità esuberante e a un egoismo di stampo eroico come mostrano il romanzo storico Il duca d’Atene, del 1837, e quello romantico-realistico e sentimentale Fede e bellezza, del 1840. Insieme ai romanzi di Antonio Fogazzaro (1842-1911), essi fungono da sutura tra il romanticismo e il soggettivismo esasperato che contrassegnerà il simbolismo italiano, sia quello intimista di Giovanni Pascoli, sia quello superomistico di Gabriele D’Annunzio. Nello scritto Dell’Italia, del 1835, Tommaseo indica come soluzione del problema italiano una repubblica federale a base fortemente cattolica. Ciò lo colloca in una posizione singolare tra l’area del federalismo liberale-democratico e l’integralismo cattolico di Gioberti. Nel saggio Rome et le monde, del 1851, sostiene che la chiesa deve rinunziare al potere temporale. Cattolico convinto, repubblicano e antimazziniano, Tommaseo fu sempre avverso alla strategia prevalente tra i liberali che miravano all’unità d’Italia sotto i Savoia.
Ippolito Nievo (1831-1861), di origine patrizia e garibaldino, muore lasciando incompiuto il suo capolavoro, Le confessioni di un italiano (pubblicato postumo con il titolo Le confessioni di un ottuagenario), romanzo storico che sfocia nella contemporaneità, derisorio nei confronti del patriziato veneto e dell’aristocrazia in genere, sarcasticamente sferzante nei confronti del clero, pieno di stima nei confronti delle virtù borghesi. Accanto ad una moderata simpatia per le professioni cosiddette liberali e per le idee innovatrici anche radicali, dal romanzo si sprigiona l’elogio della famiglia, della proprietà privata, del commercio, dell’industria, del libero-scambismo e del benessere acquistati mediante il lavoro.
Giacomo Leopardi (1778-1837), neo-illuminista, filo-classicista, materialista e meccanicista frequentò cerchie tra le più fini e avanzate del liberalismo, romantico e non. La sua “filosofia” lo porta però a disprezzare la vita e a giudicare ogni cosa come una chimera, e solo così lo mette in grado di sopportare la vita. Nel 1826 rifiuta di inviare articoli (retribuiti) d’indole civile e morale all’«Antologia» scrivendo a Vieusseux che gli uomini e i loro rapporti scambievoli, cioè la vita civile e sociale, a lui non interessano: l’uomo è «una menomissima parte dell’universo». Da tutta la sua grande opera in prosa e in poesia successiva al ’24 (l’anno delle Canzoni), e cioè dallo Zibaldone (interrotto nel 1832), dalle Operette morali, del 1827, dai Canti (1831), si sprigiona in effetti una Weltanschauung che afferma l’infelicità necessaria di tutti i viventi. Il pessimismo disperato di Leopardi si abbatte in particolare sui liberali, l’ala fiorentina dei quali gli fu sempre amica e lo beneficò anche materialmente. La Palinodia al marchese Gino Capponi, del 1835, i centoundici Pensieri redatti forse tra il 1811 e il 1836, il poemetto satirico I paralipomeni della Batracomiomachia (composto entro il 1837, ed edito postumo nel 1842) fino alla splendida canzone La ginestra, del 1836, esprimono disprezzo nei confronti di ogni agire che voglia migliorare le istituzioni e i costumi, e promuovere il progresso dell’economia: agire illusorio e velleitario. Nei paesi in cui già vige la democrazia liberale il poeta vede solo la ricerca dell’utile individuale, il culto del denaro e del profitto, la mercificazione di tutti i valori, il predominio della forza. Pur ribadendo la condanna della modernità, il poeta esprime però un’illusione impossibile e gentile: la fratellanza tra gli uomini, che diventi confederazione collettiva contro l’empia natura al fine di lenire, non di eliminare, le inevitabili sofferenze della specie umana.
2. Dopo l’Unità diventano palesi certe contraddizioni latenti, già insite in alcune componenti del movimento risorgimentale, che pure si professavano liberali e che erano confluite nella Destra. Avviene anzitutto quella scissione tra cristianesimo e liberalismo auspicata da De Sanctis. Ciò non rafforza il liberalismo, e lo priva anzi della intensa componente religiosa di stampo manzoniano. A questa prima scissione ne seguono altre, politicamente più gravi. I temi dell’indipendenza e dell’identità e unità nazionale vengono disgiunti dal tema delle libertà civili costituzionalmente garantite e dalla libertà economica, e sono riconfigurati in concezioni filosofiche e giuridiche che enfatizzano e mitizzano lo stato. Questa tendenza, propria di una parte ampia della classe dirigente politica e culturale (e non estranea a De Sanctis), congiunge in modo intimo le idee di patria e di libertà con lo stato nazionale monarchico e poi con lo stato in quanto tale. Si crea così una sua immagine come fine supremo, come sfera morale, anzi religiosa, alla quale ricondurre, in sostituzione della chiesa e della radicata religione cattolica, le motivazioni più nobili dell’unione nazionale e della stessa vita associata.
Negli anni del tramonto della Destra, coloro che nutrono sentimenti di fedeltà o di devozione nei confronti dello stato monarchico risorgimentale, si sentono stretti tra le due diverse opposizioni di sinistra e di destra, anti-monarchiche e anti-patriottiche, e si considerano liberali, anche quando nulla hanno in comune con il liberalismo. Tra le dottrine illiberali che si professano liberali, e che tali sono credute da molti, ebbe prestigio la tesi della “eticità dello stato”, contrapposta all’individualismo liberale, sostenuta dagli hegeliani napoletani idealmente raccolti già prima dell’Unità intorno a Bertrando Spaventa e confluiti poi nella Destra. Tali dottrine, filosofiche e giuridiche, ma con significative propaggini letterarie, giungono a dominare la cultura dell’Italia unita e a segnarne lo sviluppo a discapito della precedente cultura liberale.
Inoltre, la cultura umanistica e la letteratura italiana sono in quei decenni influenzate dalla equiparazione – che De Sanctis riconduce a Vico e al naturalismo, e che in parte deriva dal “popolarismo romantico” – delle “forze della società” a libere forze naturali. Tale tema si unisce a quello dello “stato etico”, producendo le note tesi di derivazione democratico-mazziniana: 1) del “Risorgimento incompiuto” perché privo della partecipazione popolare; 2) della missione cui l’Italia unita è destinata nel concerto delle nazioni. A ciò si saldano ideologie, dottrine, parafilosofie disparate, dal neo-mazzinianesimo al nietzscheanesimo al marxismo classico al socialismo parlamentare al sorelismo, non troppo dissimili tra loro nella sostanza, sebbene assumano colori diversi, che si combineranno variamente nella storia fattuale e nella letteratura fino al pieno Novecento.
Nei primi decenni dell’Italia unita la letteratura dà frutti splendidi, non però riconducibili ad una cultura di schietta ispirazione liberale. L’antimanzoniano Giosuè Carducci (1835-1907) nei testi composti dopo il 1860 e confluiti in Giambi ed epodi, del 1882, giudica severamente la politica e l’opinione pubblica del suo tempo; condanna la classe dirigente e abbraccia il garibaldinismo, convinto che si debba portare a termine il processo risorgimentale. Diversa atmosfera circola nelle Odi barbare, del 1893: dalle originarie posizioni mazziniane radicali il poeta approda a un anticlericalismo e a un anticattolicesimo implacabili. Massone, è autore del notissimo Inno a Satana, del 1861-1863, mentre con l’ode Alla regina d’Italia, del 1878, si riconcilia di fatto con l’istituto monarchico, garante della unità nazionale, divenendo quasi un poeta ufficiale dell’Italia unita e armata, che vaticina la gloria e il prestigio a essa spettanti.
Allievo di Carducci e suo successore sulla cattedra bolognese, Pascoli (1855-1912), in sintonia con il simbolismo europeo, nei testi poetici scritti tra il 1891 e il 1912, esprime la reazione alla civiltà industriale, alla vita metropolitana e alla ragione tecnologica e il recupero di una improbabile funzione civile del poeta. In gioventù fervente mazziniano, poi socialista anarcoide, infine socialista autoritario, Pascoli, iniziato alla massoneria nel 1882, congiunge in età adulta il suo desiderio di equilibrio interiore e di un proprio “nido” familiare al desiderio di un’Italia socialmente pacificata, aliena da scosse violente in nome della lotta di classe, quali cercava di suscitarle la propaganda socialista. La prevalente vocazione intimistica non gli fa tralasciare la poesia civile, alla quale affida la missione di diffondere amore e fratellanza. Il celebre discorso La grande proletaria si è mossa, del 1911, è intriso di un socialismo nazionalistico e umanitario che esalta l’imperialismo e la presunta missione umanizzatrice e incivilitrice dell’Italia, il cui colonialismo è inteso come un rimedio alla povertà e all’emigrazione che affliggono la popolazione italiana.
La scapigliatura, pluriregionale, ebbe il proprio epicentro a Milano e fu un crocevia di uomini dalle origini socio-economico-culturali disparate e dalle idee politiche tutt’altro che convergenti. Ai lombardi Cletto Arrighi (1828-1906), Emilio Praga (1839-1875), Igino Ugo Tarchetti (1839-1869), Arrigo Boito (1842-1918), Carlo Dossi (1849-1910), e al napoletano Vittorio Imbriani (1840-1886) si aggiunge poi il piemontese Giovanni Faldella (1846-1928). Molti “scapigliati” provengono dai versanti democratici delle lotte risorgimentali e hanno destini politici disparati. Sovente anti-romantici e anti-classicisti, sperimentano lingue letterarie e stili inediti, con inserzioni di calchi dai dialetti, di neologismi d’autore, di commistione tra materia verbale classicista e moduli popolareschi. Sono attratti, positivisticamente, dal “vero” e da ciò che è patologico e deforme. Alcuni di essi conducono uno stile di vita dissoluto, sulla scia dei poètes maudits francesi. Non è esatto che essi protestino contro l’avidità borghese di guadagno e la civiltà industriale delle macchine; essi avvertono il disagio, quasi una scissione della coscienza dalla vita, derivante dalla perdita della fede tradizionale e di ogni altra meta ideale, e non hanno, a differenza dei naturalisti francesi, fiducia nella scienza, la quale mostra il crudo vero. L’uomo di cultura non ha più valori da recepire e da proporre.
Il verismo rielabora in modo originale i princìpi del naturalismo europeo ma nei suoi maggiori esponenti (Giovanni Verga, 1840-1922 e Federico De Roberto, 1861-1927) ha, a differenza che in Francia, una prevalente intonazione pessimista che contrasta con l’“ottimismo” liberale.
Scrittore di cerniera tra i due secoli, in parallelo a Pascoli, il pescarese Gabriele D’Annunzio (1863-1938) è il massimo rappresentante italiano del simbolismo modernista più decadente e aggressivo. Spinto dalla inesausta ricerca di successo economico e mondano, sa rivolgersi al contempo alle élites più raffinate ed estetizzanti e ai consumatori di feuilletons. Pur ostentando in tante opere ripugnanza nei confronti della civiltà industriale conforma la propria vita a quel cliché dell’industria culturale che prenderà poi il nome di star system. Sceglie gli editori più moderni e culturalmente aggressivi e orchestra sapienti lanci pubblicitari. Soprattutto, ripropone il primato della letteratura e del poeta (il vate) come guida della vita sociale, in sostituzione dell’uomo di scienza, il prestigio del quale decade insieme a quello del positivismo: l’artista crea la vita, non si limita a darne le formule. Ebbe una vita politica contraddittoria e vivace (che mai interagì positivamente con la cultura politica liberale), sovente vissuta da protagonista. Nella sua arte la folla è “anche” «umanità agglomerata e palpitante» conquistata da un capo capace di vivere in comunione totale con essa. È stato affermato che fu il fascismo a essere dannunziano e non D’Annunzio a essere fascista: il D’Annunzio propagandista e interventista rielabora stilemi magniloquenti, di ascendenza risorgimentale e mazziniana, provenienti dal linguaggio del sacro («libro ascetico», «sudore di sangue», «urna inesausta»), dei quali si appropria la retorica di Mussolini.
L’antitesi del simbolismo vitalista e decadente di D’Annunzio sta nel senso di straniamento dalla vita civile e dalla storia dei poeti crepuscolari, il maggiore dei quali è Guido Gozzano (1883-1916), malinconicamente e finemente attento alle piccole cose.
Dall’opera di Luigi Pirandello (1867-1936) si sprigiona fin dagli esordi una sfiducia radicale circa le possibilità di trovare soluzioni alla malattia di fine secolo. Si pensi ai romanzi Il fu Mattia Pascal (1904), I vecchi e i giovani (1913), Uno, nessuno centomila, (1925), a molti racconti e alla sterminata produzione teatrale. In Pirandello la fede religiosa in declino irreversibile non può essere surrogata né dalla scienza, né dalla ragione tradizionale; ad esse subentrano il soggettivismo assoluto come frantumazione della coscienza, follia e incomunicabilità totale tra gli uomini. L’apolitico Pirandello nel settembre 1924 si iscrive al partito fascista (vi resterà anche dopo che il successo mondiale come autore per il teatro lo rende cosmopolita), firma il Manifesto degli intellettuali fascisti di Gentile e nel marzo 1929 diviene accademico d’Italia. Come molta cultura europea del periodo, la sua opera, intrisa di pessimismo tra cupo e disperato e di una visione del mondo come caos accidentale, frammentario e cieco, non infonde fiducia nella democrazia liberale.
Uno scrittore straordinariamente moderno è Italo Svevo, pseudonimo di Ettore Schmitz (1861-1928), triestino e di origine ebrea. Svevo per lunghi anni coltiva in sordina l’attività letteraria, pubblicando a spese proprie. La fama arriva con l’articolo di Eugenio Montale Omaggio a Svevo, del 1925. Temperamento equilibrato, ironico e autoironico, Svevo incarna un tipo di letterato antitetico al modello dannunziano. I romanzi Una vita, del 1892, Senilità, del 1898 e La coscienza di Zeno, del 1923, sono incentrati sui temi della inettitudine come incapacità di vivere e della malattia come nevrosi in senso freudiano. Questi formidabili nuclei propulsori della letteratura tardo-ottocentesca e novecentesca assumono nella Coscienza di Zeno connotazioni originalissime: il malato, il perdente, colui che non sa lottare e affermarsi, si rivela il più adatto, risulta cioè vincitore assoluto nella competizione con chi è forte, determinato, originariamente vincente. Avviene così il capovolgimento delle dottrine scientiste (il positivismo di matrice darwiniana) e filosofiche (Nietzsche) di cui si nutrono il coevo superomismo e settori aggressivi delle avanguardie storiche.
3. I primi venticinque anni del Novecento e oltre sono caratterizzati da una straordinaria fioritura di riviste letterarie, o anche letterarie, le quali ebbero in comune il proposito di superare il positivismo. Le più prestigiose furono probabilmente «Il Leonardo» (1904-1907) di Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, «La Critica» (1903-1944) di Benedetto Croce, «La Voce» (1908-1914) di Prezzolini, la “seconda” «Voce» (1914-1916) di Giuseppe De Robertis, «Lacerba» (1913-1915) di Papini e Ardengo Soffici, «Valori plastici» (1918-1923) di Mario Broglio, «La Ronda» (1919-1922) di Bruno Barilli, Emilio Cecchi, Vincenzo Cardarelli, Riccardo Bacchelli e altri, «Primo Tempo» (1922-1923) di Giacomo Debenedetti, Sergio Solmi, Mario Gromo, «Il Baretti» (1924-1928) di Piero Gobetti. A esse, specie alle prime, è da aggiungere «Poesia» (1905-1909), la rivista bilingue italo-francese di Filippo Tommaso Marinetti, che nei primi anni del ’900 fu il principale centro di diffusione in Italia del simbolismo, e il trampolino di lancio del futurismo (questo ebbe tra i propri esponenti, per tempi più o meno lunghi, oltre a Marinetti, anche Enrico Cavacchioli, Paolo Buzzi, Luciano Folgore, Corrado Govoni, Aldo Palazzeschi). Si segnalano poi «’900» di Massimo Bontempelli (1926-1929) e «Solaria» (1926-1936) di Alberto Carocci, cautamente antifasciste; infine «Letteratura» di Alessandro Bonsanti (1937-1968) continua l’attività di «Solaria».
Da esse, come già si è visto a proposito dei principali esponenti della vita letteraria tra i due secoli, emerge come quel sia pur vago e particolare liberalismo che aleggiava nella letteratura dei primi decenni dell’età unitaria, si sia perso per lasciare spazio ad altre tendenze culturali a loro volta ispirate da altre filosofie politiche e della vita.
Ciò traspare anche dall’atteggiamento tenuto da Croce sulla «Critica» nei confronti della cultura europea e americana fino al 1914-1915 (scelta anti-interventista). Attraverso le note e recensioni di penna sua o dei suoi collaboratori Croce favorisce l’introduzione di filosofie e dottrine recenti soprattutto tedesche ma anche francesi, inglesi e americane (Nietzsche e Sorel fra gli altri) riconducibili al vitalismo, all’attivismo e, indirettamente, al decadentismo, e tuttavia, non concede spazio ampio alla letteratura europea modernista, tutta etichettata come irrazionalismo che nasce dalla decadenza dello spirito pubblico europeo e concorre a corromperlo.
Il bisogno di entrare in contatto con le nuove esperienze culturali europee e di far conoscere al pubblico italiano decadentismo e simbolismo è alle origini da un lato del successo di alcune riviste “di nicchia” come «Il Baretti», e dall’altro lato del pregiudizio circa il carattere provinciale del crocismo. A sua volta, «La Voce» di Prezzolini si impegna nella diffusione delle idee estetiche di Croce, pur lasciando ampia libertà ai propri giovani e irrequieti collaboratori.
Stretta tra D’Annunzio e Croce – che nel 1904 aveva elogiato D’Annunzio e la sua arte sul piano estetico pur stroncandone la qualità morale – la generazione vociana oscilla tra gusto del frammento ed estetismo e ricerca di un centro propulsore di valori morali nuovi, laici, non scientistici, non decadenti, adeguati alla difficile modernizzazione in atto. Essa rimane abbastanza fedele al crocismo ma, talora perplessa, è anche attratta dall’iper-modernismo futurista ed è desiderosa di scongiurare la frattura tra passato e presente. Non mancano però esponenti, come Giuseppe De Robertis, il quale, in polemica con i futuristi e con altri movimenti, come “strapaese”, propugnano l’alterità, e dunque l’autonomia, dell’arte dalla politica.
A «Lacerba» di Papini e Soffici, cassa di risonanza, per un certo periodo, del futurismo e della più aggressiva reazione anti-crociana, si oppongono «Valori plastici» e «La Ronda». Antonio Baldini, Vincenzo Cardarelli, Emilio Cecchi, Riccardo Bacchelli, quasi tutti ex collaboratori della «Voce» prezzoliniana e di «Lacerba», desiderano reagire contro l’aggressività iconoclasta del modernismo, specie futurista, e riscoprire le regole, la disciplina, il lavoro ordinato. A questa concezione del mestiere di artista si congiungono sia l’esigenza di equilibrio, di rigore formale, di stile sia l’altra di opporsi alla commistione simbiotica tra arte e politica attuate dai movimenti di avanguardia e in particolare dal futurismo
Temi liberali ritornano nel mondo letterario italiano a partire dal 1917, quando Croce elabora la teoria della cosmicità dell’arte, presupposto della quale è la distinzione tra la personalità dell’artista come uomo pratico e la personalità poetica o io lirico. La grande arte nasce all’interno di un tempo storico determinato ma si solleva al di sopra di esso per parlare al cuore degli uomini di ogni tempo. Essa contribuisce a far sì che l’uomo sollevi l’animo al di sopra delle passioni di parte e dei mali contingenti; guardi con occhio fermo la meta cui tende ogni istanza di valore assoluto e universale; vagheggi almeno per un istante un’umanità, una società, degli individui-persona e anche un ordine politico in cui sia possibile conseguire, con Dante pellegrino nei regni dell’oltretomba, la libertà morale. Da quel momento coloro che propugnano una poesia civile e consapevolmente impegnata accusano Croce di avere scisso arte e società, letteratura e vita civile, in antitesi al grande insegnamento di De Sanctis.
Nell’estetica e nell’esercizio della critica letteraria si reperiscono dunque gli incunaboli del successivo liberalismo meta-politico di Croce e della sua religione della libertà. Il tentativo crociano di dare al liberalismo una base religiosa è fondato su una conoscenza profonda della storia italiana. Attribuendo al laicismo liberale indole religiosa Croce tenta di adeguarlo al prevalente carattere mentale italiano, ma è consapevole del fatto che il liberalismo, schiacciato tra cattolicesimo e comunismo, sarebbe stato un ideale, e una proposta politica, adeguato solo a élites culturali ristrette. L’influenza esercitata da Croce sulla poesia italiana successiva al simbolismo e alle cosiddette avanguardie storiche (ivi comprese quelle vociane) è incalcolabile, e si fonde e confonde con la varia influenza esercitata dalla coeva poesia d’oltralpe. Tra le due guerre e oltre, il crocismo valse a rinsaldare il sentimento della responsabilità etica di chi scrive. La intrinseca eticità dell’arte, il suo carattere di universalità, contribuiscono a fugare l’evasione nel formalismo puro, nell’estetismo, nel frammentismo fine a se stesso.
Quanto alla critica letteraria, nel secondo dopoguerra i critici maggiori si mantengono ben lontani dal tentativo marxista di espellere il crocismo e di riallacciare direttamente a De Sanctis la linea gramsciana consegnata alle formule: “letteratura e vita nazionale” e “letteratura nazional-popolare”. Ne sono lontani sia i crociani liberali o cattolico-liberali che sviluppano ognuno in modo originale le idee del comune e non accademico maestro (Attilio Momigliano, Francesco Flora, Giovanni Getto, Mario Fubini, Emilio Bigi) sia i crociani che si lasciano attrarre dalla sirena marxista (Luigi Russo, Giacomo Debenedetti, Walter Binni, Ettore Bonora). Prendendo le distanze dal sociologismo gramscista si sono dichiarati apertamente assai più vicini al magistero di Croce che non a quello di De Sanctis anche Carlo Dionisotti e Gianfranco Contini.
I percorsi umani, poetici e ideali dei poeti sono diversissimi; qui si possono accennare solo i caratteri principali, che a un’osservazione non ravvicinata appaiono quasi costanti. Grazie a Contini sono caduti in discredito vecchi luoghi comuni come l’etichetta “ermetismo”, applicata a poeti tra loro tanto diversi quali Umberto Saba (1883-1957), Giuseppe Ungaretti (1888-1970), Eugenio Montale (1896-1981), Salvatore Quasimodo (1901-1968). Lo stesso, sulla scia della prevalente lezione di Marinetti, si può dire dei poeti attivi nel periodo tra le due guerre e fino alla fine degli anni Sessanta e oltre (Diego Valeri, Giorgio Vigolo, Arturo Onofri, Alfonso Gatto, Leonardo Sinisgalli, Sergio Solmi, Mario Luzi, Carlo Betocchi, Carlo Bo, Oreste Macrì, Piero Bigongiari, Vittorio Sereni, Luciano Erba, fino ad Andrea Zanzotto), per quanto abbiano in comune un’estetica della poesia come “monade” priva di relazioni con la storia civile e connessa agli altri testi solo da relazioni analogiche.
In realtà, il legame di ognuno dei succitati poeti con l’intera grande tradizione nazionale è intensissimo: Montale e Quasimodo si legano soprattutto a Dante e il secondo anche ai lirici del Duecento e a Petrarca; Saba si lega a Petrarca e a Leopardi. In Saba l’ermetismo non ha luogo e il suo Canzoniere, del 1919-1961, è una delle zone più dolci e melodiose della poesia italiana. I poeti degli anni tra il primo dopoguerra e la fine degli anni Sessanta hanno in comune anche taluni nuclei tematici: in particolare, il contatto sensuale con la natura è identificazione e comunione con gli animali (Saba) e con le piante (Quasimodo); l’immedesimazione con il paesaggio è invece emblema, in Montale, dapprima di una condizione pietrificata e inaridita (il litorale scabro, i residui portati dal mare) di un’insanabile (e anti-dannunziana) disarmonia, fisica e metafisica, ma parallelamente e dopo, nell’immagine dei limoni, anche di solarità e di luce, con effetti salvifici sul piano di una religiosità immanente.
Ungaretti (di cui sono da ricordare le raccolte Il porto sepolto, Sentimento del tempo, Il dolore, La terra promessa, Il taccuino del vecchio pubblicate tra 1919 e 1960) aderisce al fascismo per ragioni patriottiche. L’ebreo Saba è coraggiosamente antifascista e ha più fiducia nella psicanalisi che nel comunismo. Quasimodo, lontano dal fascismo, si avvicina al PCI dopo la fine della seconda guerra mondiale e se ne allontana dopo i fatti d’Ungheria. Egli sperimenta, durante e dopo la guerra, una poesia civile d’intonazione epicizzante e neocristiana (di lui si ricordano in particolare le raccolte Ed è subito sera, del 1942, Giorno dopo giorno, del 1947, Il falso e il vero verde, La vita non è sogno, La terra impareggiabile). Neocristiano è anche Ungaretti.
Il sentenzioso Montale è il poeta prediletto dai giovani che combattono nella seconda guerra mondiale. Il suo pessimismo radicale si sostanzia già nei versi celeberrimi della prima lirica degli Ossi di seppia, pubblicati nel 1925 da Gobetti: «[…] / Non domandarci la formula che mondi possa aprirti / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, / ciò che non vogliamo». Nel 1925 egli firma il “Manifesto” degli intellettuali antifascisti redatto da Croce. Si deve soprattutto al «male di vivere» cantato da Montale se è parso che i poeti del Novecento abitino un paese di sterpaglia e camminino per le strade di una terra desolata, privi di qualsivoglia speranza, senza meta né scopo. Questo pessimismo assoluto informa non solo la poesia, ma anche la vita di Montale, qualificata da forte e coerente spessore morale. Antifascista, tanto da perdere, nel 1937, un modesto posto di bibliotecario; generoso soccorritore di antifascisti colpiti da misure repressive, specie per motivi razziali (Umberto Saba e Primo Levi tra gli altri); militante, per poco, del Partito d’azione; cofondatore e direttore per due anni del quindicinale «Il Mondo»; tesserato del Partito repubblicano; critico aspro dello sviluppo tecnologico e consumistico, Montale non crede che la politica possa modificare la condizione umana, ma ritiene che l’assenza desolata di significati possa tradursi in antidogmatico rifiuto di soluzioni politiche ancorate a visioni del mondo e della storia totalizzanti e definitive (cattolicesimo e marxismo) e in sostegno alla lotta dei profeti disarmati, individui soli e inermi, come Andrej Sakharov e Marco Pannella, i quali parlano per tutti.
Negli anni Cinquanta del Novecento comincia la pubblicazione dei Quaderni di Antonio Gramsci (1891-1937). Dagli anni Sessanta in poi la critica sociologico-marxista, gramsciana o lukacsiana, interpreta le avanguardie, il decadentismo e tutta la poesia (spesso anche la narrativa) fino a Montale incluso, come una manifestazione del disagio estremo dei cosiddetti “intellettuali” nei confronti della società borghese e del modo di produzione capitalistico, che tenta di mercificare ogni cosa e ogni valore e quindi anche l’arte. La critica marxista esclude così per un verso che per vie molteplici e talvolta inaspettate l’influenza di Croce abbia agito in modo potente sull’etica e sulla politicità insita nella poesia del pieno Novecento e, per l’altro verso, che quella poesia non esprima né una protesta, volontaria o involontaria che sia, né una sorta di ultimo respiro della società borghese agonizzante. Parallelamente, e in contrasto con la critica sociologica, sorge a baluardo difensivo dello “specifico letterario” lo strutturalismo, di diretta importazione francese, che considera ogni testo come una sorta di monade significante e ne reperisce la “significazione” nel rapporto tra le componenti puramente formali e il sistema dei significati intratestuali. Gli strutturalisti riescono a proteggere la letteratura dal pericolo che sia trasformata in mero strumento di propaganda, ma hanno in genere cura di mantenere il dissenso con i confratelli marxisti su un piano puramente metodologico-testuale, dichiarandosi per lo più fautori di un ordine politico comunista. Mentre i critici letterari acquistano importanza come propagandisti, e i fautori del sociologismo si atteggiano a “intellettuali organici” e a opinion’s makers, la loro strada si divarica da quelle dei poeti e degli autori di narrativa. Il PCI e perfino i movimenti di estrema sinistra sono in grado di procurare, il primo, grazie al sistema di reclutamento universitario puramente clientelare, cariche, onori e cattedre, gli altri prestigio. Pochi tra i critici si trasformano in dissidenti dopo i fatti d’Ungheria e di Cecoslovacchia.
Assai diversamente si comportano poeti e scrittori. Il Novecento, prima dell’avvento della letteratura di consumo, dà narratori di livello altissimo, come Carlo Emilio Gadda (1893-1973) o alto, dal già citato Riccardo Bacchelli (1891-1985), a Ignazio Silone (1900-1978), a Cesare Pavese (1908-1950), a Elio Vittorini (1908-1966), a Dino Buzzati (1906-1971), ad Alberto Moravia (1907-1990), a Giorgio Bassani (1916-2000), a Italo Calvino (1923-1985), a Pier Paolo Pasolini (1922-1975), a Primo Levi (1919-1987), fino a Vitaliano Brancati, a Giuseppe Tomasi di Lampedusa, a Leonardo Sciascia, a Gesualdo Bufalino, a Vincenzo Consolo. Diversi scrittori provengono dalle fila del fascismo (Vittorini, Pasolini), e nel periodo in cui si afferma l’engagement, producono romanzi neorealisti (così Silone, Pavese, Moravia, Vittorini, Calvino, Pasolini e anche Sciascia) ancorché questa corda rimanga contingente e venga presto abbandonata in favore di altre corde (il fantastico, il postmoderno). Molti scrittori, per mantenersi indipendenti e liberi dal ruolo di letterati cortigiani, affiancano alla “scrittura creativa” e all’impegno come saggisti (particolarmente intenso quello di Vittorini per il rinato «Politecnico») il lavoro di insegnante (Pavese, Pasolini, Zanzotto) o di giornalista (Buzzati è stato anche inviato di guerra del «Corriere della sera»; giornalista del tutto privo di interesse per questo mestiere è anche Montale) e soprattutto di editor per le nascenti grandi case editrici (Pavese e Calvino per Einaudi, Bassani per Feltrinelli, Vittorini per Bompiani ed Einaudi). Fino al 1956 parecchi autori di narrativa (non il maggiore, l’apolitico e disincantato Gadda) mantengono rapporti difficili ma stretti con il PCI, di cui alcuni prendono la tessera.
Nell’utopia di un mondo comunista in cui ciascuno avrà secondo il bisogno e nel quale i rapporti saranno improntati a solidarietà o a fratellanza si riversa la forte esigenza religiosa di molti e il bisogno di una nuova escatologia, non cattolica, non confessionale e capace di trasferire al mondo terreno e concreto il bisogno di “redenzione”, di pace e di amore tra gli uomini. I più aprono gli occhi all’epoca dei fatti di Ungheria e si allontanano dal PCI; qualcuno, come Silone, aveva già aperto gli occhi da tempo. Dal dopoguerra molti seguono con interesse pari o quasi rispetto a quello per il marxismo le vicende del Partito d’azione. Dopo la definitiva scissione all’interno del fronte liberale-democratico e la sua partizione in tre soggetti politici (il PLI, il PRI e il PR) molti scrittori, spesso già collaboratori del «Mondo» di Pannunzio, che in Croce e Luigi Einaudi aveva avuto i principali punti di riferimento, si avvicinano al Partito Radicale di Marco Pannella: così Vittorini, Moravia, Calvino, Pasolini e Sciascia. Ancora una volta, molto attraente è la componente religiosa del piccolo partito, il quale ha scelto di anteporre la battaglia non violenta per i diritti civili e la lotta a oltranza contro il clericalismo alla proprietà privata e alla libertà economica, invero anch’esse sempre riconosciute dagli esponenti radicali come diritti fondamentali di stampo liberale.