Libertà
di Giovanni Giorgini
Il termine «libertà» ha una natura intrinsecamente proteiforme, in quanto, fin dalle sue prime attestazioni nella civiltà occidentale mostra di avere un «nucleo» di significato specifico ma appare, nel contempo, in grado di adattarsi alle circostanze storiche e al contesto politico di un’epoca. Questo «nucleo» semantico specifico è ben individuato attraverso una serie di contrapposizioni: la libertà personale è l’opposto della condizione servile, la schiavitù; la libertà politica è l’opposto del dispotismo e della tirannide; essere libero è l’opposto di essere costretto o impedito. Accanto a questo nucleo fisso, il concetto di libertà si sostanzia attraverso gli ideali e i valori di ogni singola epoca, per cui la libertà delle poleis greche del VI-V secolo a.C. si declina nelle forme dell’eleutheria e dell’autonomia, come libertà personale del cittadino e come autodeterminazione della collettività, e si sostanzia nella lotta contro l’impero persiano sul fronte esterno e contro i tiranni su quello interno; già da Erodoto (metà V secolo a.C.), poi, emerge la convinzione ideologica che la libertà sia un fattore di potenza e di grandezza; la libertas nella Roma repubblicana è modellata in contrapposizione alla servitù sotto i re e si incarna nelle istituzioni della respublica; la libertà dei comuni italiani del medioevo si plasma nella lotta contro l’imperatore del Sacro Romano Impero così come la libertà di culto e di coscienza emerge dalle guerre civili e di religione del Cinquecento.
Non dissimile appare la situazione quando si esamina il significato del termine «libertà» nella storia del liberalismo italiano: esso appare legato, da un lato, a questa lunga tradizione tipica del pensiero politico occidentale e, dall’altro, mostra di essere intrinsecamente connesso con gli ideali e le battaglie dell’epoca. È opportuno, pertanto, procedere a una periodizzazione che permetta di individuare le specificità semantiche legate ai diversi contesti. Si vede, così, che i grandi tornanti storici che sostanziano il concetto di libertà degli scrittori liberali italiani sono costituiti, in primo luogo, dalla contrapposizione culturale e politica tra intellettuali conservatori e reazionari (i «codini») e intellettuali «liberali» (ispirati, tra l’altro, dagli ideali romantici di patriottismo) nell’immediato seguito del congresso di Vienna (1815) e della restaurazione; dalla lotta per l’unità politica dell’Italia (il Risorgimento in tutte le sue fasi, dal 1848 al 1860) contro lo straniero (in tutte le sue guise) in nome dell’affermazione dell’ideale nazionale; l’edificazione dello Stato unitario e i suoi ideali post-risorgimentali (dal 1860 al 1914); dall’opposizione – teorica e pratica – al fascismo (1919-1945); dalla difesa della democrazia liberale e del liberismo economico e dal tentativo di creare una cultura liberale nel secondo dopoguerra in opposizione al marxismo e all’influenza della Chiesa cattolica. Nel tracciare una rapida storia del concetto di libertà nel liberalismo italiano occorre sottolineare, infine, come il liberalismo abbia rappresentato un filone politico e culturale minoritario, nonostante i successi politici dei liberali «classici» nella guida dell’Italia unita (come Cavour e Giolitti) e nonostante la statura internazionale di alcuni suoi esponenti (come Croce). Un’ultima precisazione: la ricchezza e peculiarità, insieme, del liberalismo italiano emerge con chiarezza solo esaminando la varietà delle sue fonti ideologiche e culturali. Ha quindi senso, in quest’ottica, sottolineare l’importanza che le generazioni successive riconoscono alla figura di Vittorio Alfieri, il quale dedica «Alla libertà» la sua opera Della tirannide in due libri (1777) e vi mette in exergo una citazione dalla Guerra Giugurtina di Sallustio che esalta la libera Roma repubblicana. Tutta l’opera di Alfieri è pervasa da questo anelito di libertà, ispirata alla contrapposizione classica tra la schiavitù indotta da un regime oppressivo e la libertà repubblicana e i suoi benefici: il suo augurio è che, liberata dai tiranni, l’Italia sarà in grado di creare nuovamente «liberi e virtuosi uomini». Non meno influente è la forte vena patriottica, ancora più passionale e pertanto dotata di potente attrattiva per le giovani generazioni, che ispira i saggi e le poesie di Ugo Foscolo, il quale visse e morì da esule a testimonianza dei sacrifici che l’amor di libertà talvolta richiede. Foscolo seppe dar voce agli ideali dei giovani italiani entusiasmati dalle promesse di libertà, eguaglianza, fraternità di Napoleone e poi traditi nelle loro aspettative e costretti a un duro bagno di Realpolitik dal trattato di Campoformido (1797). Né meno importante, anche se declinato unicamente sul piano letterario e distante dall’effettiva lotta politica, è l’ardore patriottico di libertà che informa tanti scritti di Giacomo Leopardi, dove forma poetica arcaica e contenuto romantico convivono in un’unione che è alla base del loro fascino. Così, le poesie All’Italia e Sopra il monumento di Dante celebrano le lotte antiche per la libertà e, sebbene in forme letterarie ancora petrarchesche, incitano a liberare l’Italia dal dominio straniero. Commentando sconsolato questo secondo canto nello Zibaldone,Leopardi affermava: «Miseri! Noi andiamo ogni dì memorando la libertà e la gloria degli avi, le quali tanto più splendono quanto più scoprono la nostra abbietta schiavitù». E sempre nello Zibaldone,Leopardi attribuiva l’estinzione dell’originalità e della facoltà creatrice italiana alla perdita della libertà e al passaggio dalla forma repubblicana a quella monarchica. Leopardi è uno degli autori che partecipò, su posizioni romantiche, all’accesa discussione di inizio Ottocento (1816-1821) sulla necessità o meno di «svecchiare» la cultura e la poesia italiane attraverso l’importazione di modelli letterari stranieri (secondo la tesi di Madame de Stael). Occorre ricordare che questa non fu solamente una polemica letteraria ma anche politica, perché la lotta contro le regole classiche o l’uso della mitologia aveva come controparte politica la lotta contro l’ancien regime e la restaurazione, di cui il dominio austriaco in Italia era l’immagine. Già nel 1819 Silvio Pellico poteva scrivere che «romantico fu riconosciuto sinonimo di liberale, né più usarono definirsi classicisti fuorché gli ultra e le spie».
È impossibile sottovalutare l’importanza ideale e politica, non solamente in Italia ma in tutta Europa, dell’opera di Giuseppe Mazzini. La sua visione della libertà è assai articolata ma poggia fondamentalmente su di una solida base morale: la libertà e il libero arbitrio sono le precondizioni dell’azione morale e di quella «legge del Dovere» che costituisce il maggiore contributo filosofico-politico di Mazzini; libertà civile e responsabilità morale si intrecciano, poi, fino a formare una sorta di «religione» laica, peraltro estremamente attenta e rispettosa della libertà di coscienza e di religione. Queste sono parti delle libertà dell’uomo che gli Stati devono riconoscere ai propri cittadini, non inferiori a quelle più tipicamente politiche come la libertà di manifestazione del pensiero, di stampa, di associazione o di commercio. La libertà è, così, innanzitutto un valore e quindi un mezzo, in quanto motrice del progresso umano. Già nell’Atto di fratellanza della Giovine Europa (1834), fedele al principio secondo cui «le grandi rivoluzioni si compiono più coi principii, che colle baionette», Mazzini indicava nei valori di libertà, eguaglianza e umanità le guide dell’associazione per il progresso dei diversi paesi, per un avvenire di libertà, uguaglianza e fraternità. La libertà era da lui intesa come diritto di ogni uomo di esercitare senza ostacoli e restrizioni le proprie facoltà nello sviluppo della propria missione speciale (Statuto della Giovine Europa, 1834). Storicamente, Mazzini identifica la libertà con la Grecia, che sconfisse l’immobile Oriente, e con Roma, e l’uguaglianza con il Cristianesimo, che proclamò l’unità del genere umano (Dell’iniziativa rivoluzionaria in Europa, 1834). Dopo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo della Rivoluzione francese egli è indotto a vedere libertà ed eguaglianza come elementi della natura umana, anche se è fortemente critico di Napoleone e del suo tentativo di imporre «la libertà cogli eserciti, com’altri impone tirannide»: i diritti individuali reclamati dai rivoluzionari francesi devono essere integrati dal primato del dovere che ogni uomo ha verso l’umanità intera, un dovere di fratellanza e di associazione tra liberi ed eguali. Ogni ineguaglianza, infatti, pone un impedimento alla libertà, e questo vale sia all’interno delle nazioni sia nei rapporti tra popoli. Mazzini è contrario, poi, all’odio generico per la tirannide e all’«amore vago» per la libertà; il suo pensiero e la sua associazione politica si pongono scopi precisi, obiettivi pratici da raggiungere, attraverso l’attività politica e culturale. Egli enfatizza, infine, il ruolo della letteratura per l’«educazione progressiva dell’umanità».
L’altra grande figura che, assieme a quella di Mazzini, si staglia nel liberalismo italiano dell’Ottocento è quella di Cavour. Egli era però un convinto sostenitore della superiorità della monarchia costituzionale su ogni forma di repubblica, per la quale il popolo non era a suo avviso ancora pronto; si augurava, tuttavia, che il proprio secolo avrebbe brillato proprio per l’educazione impartita al popolo, pre-requisito del suffragio universale. Sebbene fosse convinto del ruolo politico dell’aristocrazia, Cavour era ben conscio che l’eguaglianza dei diritti non avrebbe fatto cessare l’ineguaglianza delle condizioni economiche e pertanto riteneva che l’aristocrazia al governo dovesse adoperarsi per migliorare la situazione del popolo e prevenire così una rivoluzione sociale. Nei suoi discorsi emerge una difesa della libertà come indipendenza dal dominio straniero, che richiede anche una specifica forma parlamentare che preveda la limitazione dei poteri dello Stato, la tutela dell’individuo, l’indipendenza di Stato e Chiesa nella convinzione, tuttavia, che il cattolicesimo non fosse inconciliabile con la libertà. Cavour si batté per l’abolizione del foro ecclesiastico in nome dell’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e a favore del matrimonio civile, che a suo avviso non avrebbe avuto effetto sul sentimento religioso. Cavour fu anche un convinto assertore della libertà commerciale, operò riforme economiche interne e strinse patti internazionali per promuoverla.
Assieme a Cavour e Mazzini, sebbene spesso in contrasto con il primo, Giuseppe Garibaldi viene a ragione considerato uno degli «apostoli» della liberazione dell’Italia dallo straniero e della sua riunificazione, nonché la bandiera della libertà, dell’unità e dell’indipendenza italiana. Nelle sue azioni e nelle sue opere egli appare ispirato dagli ideali di libertà di Mazzini, che cercò di tradurre in pratica nelle sue imprese e di propagare attraverso lo strumento del romanzo storico. Con grande candore egli afferma nella prefazione a uno di essi che i suoi romanzi hanno lo scopo di trasmettere ai lettori l’ideale politico che lo ha guidato, oltre a mirare a ricordare figure di eroi della libertà a volte rimasti sconosciuti ai più e, da ultimo, a «ritrarre un onesto lucro dal mio lavoro» (Cantoni il volontario, 1870). Convinto anticlericale fin da giovanissimo, Garibaldi rimase per tutta la propria vita persuaso che la libertà dell’essere umano non potesse essere ottenuta che contro il dominio temporale e spirituale della Chiesa.
Nella stessa epoca, a Carlo Cattaneo dobbiamo una visione della libertà che esalta i «sistemi aperti» caratterizzati dalla libera circolazione delle idee, dal confronto tra intelligenze individuali che produce tolleranza e progresso, nonché dalla libera iniziativa economica e da un assetto istituzionale di tipo federalista che stimola la partecipazione di tutti i cittadini e l’autonomia locale.
Protagonista delle lotte risorgimentali, uomo politico e fine letterato, Francesco De Sanctis, in un clima culturale ormai post-risorgimentale, individua nei Comuni medievali la libertà italiana, una libertà concreta e non sentimentale o astratta come ai suoi tempi, perché essi avevano costretto i nobili «a soggiacere al diritto comune». Persuaso che il realismo sia l’educatore dell’ideale, egli fu autore di una Storia della letteratura italiana (1870-1) ispirata agli ideali di libertà e democrazia: la letteratura è per lui formazione e manifestazione dello spirito nazionale, esplicitazione del suo cammino verso la libertà e la virtù. In questo senso De Sanctis interpreta la Divina Commedia, e l’ascesa dall’inferno al paradiso,come un passaggio dalla «tirannia della carne» alla «libertà dello spirito»: il paradiso è «il regno dello spirito, venuto a libertà, emancipato dalla carne o dal senso». De Sanctis ritiene che l’entusiasmo per la libertà non sia più sufficiente nella sua epoca ma siano ora necessarie la scienza e l’educazione politica. In Scienza e vita (1872) afferma infatti che «la scienza ha prodotto presso di noi due grandi cose, l’unità della patria e la libertà». Egli vede nella «differenza di idee direttive» che produce i partiti politici la base dell’«onesta libertà» italiana e nelle associazioni politiche e nella libera stampa la difesa della libertà stessa. Nei suoi Scritti politici egli afferma con forza, infine, che la giustizia deve essere considerata il fine della libertà.
L’uomo politico bolognese Marco Minghetti non disdegnava affatto le questioni filosofiche pure: la verità è per lui un possesso comune di tutta l’umanità (perché tutti gli uomini sono stati creati uguali) e consiste nel «pieno possesso e uso di tutte le facoltà proprie a raggiungere il fine: cioè la verità, la virtù, la felicità». Rinviene la libertà umana nello spazio tra l’interesse e la virtù: si tratta di un fatto primitivo, incentrato sul nostro libero arbitrio. Libertà è «il potere di ogni uomo di fare ciò che non offende la morale, e il diritto altrui» (Della economia pubblica e della sua attinenza colla morale e con il diritto, 1868). La libertà va temperata da condizioni morali, altrimenti anche i provvedimenti giuridici e le restrizioni risultano inefficaci. «Libertà sotto l’impero del giusto e dell’onesto». Minghetti ritiene che la libertà economica sia una conseguenza della libertà giuridica È persuaso che la libertà favorisca il progresso della ricchezza e viceversa: «e mentre la libertà giova mirabilmente alla prosperità pubblica, la prosperità pubblica è stimolo e avviamento inverso la libertà»; e aggiunge: «Sotto la scorta della morale e del diritto» la libertà dell’industria e dei traffici si tramuterà prima o poi in libertà politica. Il concetto moderno di libertà consiste nel rispetto massimo dei diritti e delle azioni del cittadino sinché non viola i diritti altrui (I partiti e la ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione, 1881).
Non va trascurato l’apporto, sia teorico sia pratico, a un ampliamento e ad una maggiore definizione dell’idea di libertà offerto dal pensiero cattolico italiano nell’Ottocento e nel Novecento. Autori come Alessandro Manzoni (il quale, giovanissimo, scrisse un poema Del trionfo della libertà che verrà pubblicato postumo nel 1878), Niccolò Tommaseo, Vincenzo Gioberti e Antonio Rosmini sono stati sostenitori dello Stato liberale e degli ideali risorgimentali che lo hanno accompagnato, inclusa la fine del potere temporale dei Papi, pur nelle loro inevitabili contraddizioni. Manzoni ha una posizione di particolare rilievo sia per l’eco suscitata dalle sue opere di impegno civile (come l’ode Marzo 1821 e la tragedia Adelchi, 1822) sia per l’apporto dato all’unificazione linguistica dell’Italia e alla creazione di un primo romanzo nazionale in lingua italiana con I promessi sposi (1840). Vincenzo Gioberti, nel suo Del primato morale e civile degli Italiani (1843), spera in un’alleanza tra religione e libertà, una libertà ordinata e legittima; che la Chiesa si faccia promotrice di una «libertà santa e italiana», contro il giogo della servitù straniera ma anche contro la «libertà licenziosa e sacrilega» (come quella della Francia rivoluzionaria). Libertà dello stato sotto l’indirizzo spirituale della Chiesa, che ritorna così alla sua funzione di guida delle anime. Vede la libertà nel mondo dalla separazione tra principato e sacerdozio. Nel Novecento il cristianesimo liberale ha trovato una delle sue punte teoriche nella dottrina sociale della Chiesa Cattolica, che ha voluto coniugare valori tipicamente liberali con l’enfatizzazione dell’importanza dell’uomo e della sua dignità, ha situato il lavoro all’interno di un più ampio disegno divino e ha continuamente sottolineato, pur nell’accettazione del libero mercato e della proprietà privata, l’importanza della giustizia e del perseguimento del bene comune. Eredi e attuatori di questa visione, in maniera diversa e con stili del tutto opposti, ma accomunati dalla fede nel detto evangelico giovanneo secondo cui «la verità vi farà liberi», sono stati uomini politici come Alcide De Gasperi e Giuseppe Dossetti.
Va poi ricordato Piero Calamandrei, uno dei padri della costituzione italiana, in cui fece includere una lista aperta di diritti di libertà, il quale teorizzò una «rivoluzione democratica» che muovesse dalla visione di libertà come autonomia individuale (rinvenibile in Gobetti, Rosselli e in generale nel Partito d’Azione) per giungere a una visione costituzionale dello Stato in netta discontinuità sia con quello monarchico-fascista sia con quello liberale classico. Un posto a parte tra i cattolici liberali del Novecento è occupato da Alessandro Passerin d’Entrèves, sia per la singolarità della sua formazione (il pensiero di Dante e Hooker più che i «classici» del liberalismo come Locke) sia per l’originalità del suo liberalismo, non pregiudizialmente ostile al socialismo in un’epoca di confronto e scontro senza quartiere, nel quale si fondono difesa del diritto naturale e una visione dello Stato come forza qualificata dal diritto, che a sua volta trae fondamento dall’autorità (derivante dalla legittimità) dello Stato stesso.
Anche il liberalismo italiano del Novecento è caratterizzato dalla molteplicità di fonti intellettuali, che conducono a esiti teorici e pratici assai divergenti e mostrano la ricchezza concettuale del liberalismo stesso. Come esemplificazione è sufficiente citare le diversissime visioni della libertà di Gaetano Mosca e Piero Gobetti. Mosca fu un liberale conservatore che dalla propria «scoperta» della «teoria della classe politica» dedusse l’ineludibilità e l’importanza, a un tempo, di un’aristocrazia etica e intellettuale che coopti al proprio interno la classe dirigente; egli fu, di conseguenza, nemico della democrazia, che considerava una «congerie di sogni e di menzogne». All’opposto, la visione della libertà di Piero Gobetti si caratterizza per il suo confronto con la dottrina marxiana, da cui riprende la convinzione che il progresso dipenda dal conflitto e l’attenzione per il ruolo dei lavoratori nella società liberale: egli è persuaso che le lotte operaie non siano antiliberali bensì mirino ad aprire nuove forme di libertà; a questa convinzione è legata la sua visione della libertà come «iniziativa dal basso». Gobetti propugna un liberalismo antistatalista e, in un turbine di iniziative editoriali, concepisce la propria «rivoluzione liberale» come necessaria a svecchiare sia le coscienze sia l’economia italiana. La sua totale avversione al fascismo fu in primo luogo morale e quindi politica: egli vedeva Mussolini come un corruttore prima che un tiranno, e il fascismo come una tutela paterna prima che una dittatura: corruzione e dispotismo paterno sono alleati e nemici della libertà.
Tra i pensatori che hanno maggiormente recepito la innovativa visione di libertà di Gobetti, e l’hanno confrontata con suggestioni provenienti dall’Inghilterra (il liberalismo sociale e umanitario di Green e Hobhouse, il Fabianesimo) vi è certamente Carlo Rosselli, il quale presenta la libertà «non solo come fine ma anche come mezzo» come sviluppo e autonomia dell’individuo e descrive un «cammino della libertà» che muove dall’autoemancipazione della coscienza individuale per arrivare al trionfo di uno Stato di uomini liberi, che abbiano eguali diritti e doveri. Lo stato democratico deve mirare a garantire autonomia degli individui e diritti dell’uomo; condizione preliminare dell’esercizio della libertà è l’assenza di dipendenza materiale. Questa garantirà una libertà eguale e condivisa, non limitata a pochi eletti, che ha assonanze con la aequa libertas repubblicana di Cicerone e con le moderne teorie repubblicane anglosassoni. Pensatore acuto e originale, fortemente influenzato dall’idealismo di Gentile, Guido Calogero collaborò con l’organizzazione «Giustizia e Libertà» di Carlo Rosselli e fu tra gli estensori del primo manifesto del liberalsocialismo (1940): in esso le esigenze di giustizia e di libertà vengono ricondotte alla medesima origine ideale, che per Calogero è identificabile con l’idea del Vangelo che ogni essere umano è una persona degna di amore.
Assai interessante dal punto di vista filosofico, ma scarsamente recepita sia sul piano delle idee sia, ancor più, su quello della prassi, la visione della libertà presente negli scritti di Erminio Juvalta e segnatamente nel suo I limiti del razionalismo etico (1919; si veda anche la raccolta di saggi con lo stesso titolo curata da L. Geymonat, Einaudi, Torino 1945). Questo profondo e isolato pensatore vede, sulla scia della concezione morale di Kant (di cui rifiuta però l’identificazione di moralità e dovere), la libertà e la cultura come elementi essenziali per la formazione di ogni essere umano: esse assurgono quindi a esigenze morali di carattere universale e fondano una visione politica dello Stato di diritto «laica» e non ancorata ad alcuna metafisica. Juvalta è anche un acuto critico del liberalismo contemporaneo, tacciato di incoerenza per la sua difesa teorica dei diritti dell’uomo cui non corrisponde un assetto istituzionale che difenda le classi più deboli.
Benedetto Croce è senza dubbio il massimo rappresentante della cultura liberale italiana della prima metà del Novecento. La profondità e varietà dei suoi scritti, il suo impegno civile, le sue battaglie politiche e letterarie ne fecero per mezzo secolo una delle personalità più influenti sia in Italia sia all’estero. Né si può dimenticare che egli fu l’estensore del Manifesto degli intellettuali italiani antifascisti (1925), nel quale venivano rivendicati gli ideali culturali e politici liberali che avevano animato la riunificazione dell’Italia di contro alla dottrina «fascistica» e al suo preteso «carattere religioso». Nel sistema filosofico di Croce il concetto di libertà ha un ruolo fondamentale, che può essere meglio compreso distinguendone tre aspetti: innanzitutto la libertà concepita come forza creatrice della storia, nel senso che tutto ciò che viene fatto, creato, prodotto dall’uomo è il frutto della sua libertà (per cui Croce può, notoriamente, affermare che la storia umana è storia della libertà); vi è, poi, la libertà come ideale pratico, che mira ad abbattere tirannie ed oppressioni e ad instaurare condizioni di maggiore libertà (questo ideale risulta indistinguibile dalla coscienza morale), come è avvenuto nel caso delle guerre civili e di religione che hanno partorito l’ideale di tolleranza e libertà di culto; l’ultimo grado della libertà, infine, è la sua elaborazione a concetto filosofico: la volizione umana mira a un intervento sul reale, a tradurre in pratica ideali e idee; l’azione che ne consegue non può, pertanto, che essere libera (nel senso che determina una nuova realtà) e il suo risultato, l’accadimento, è l’incontro della libertà umana con le necessità del mondo. Storicamente, poi, Croce contrappone alla libertà nata dalla Rivoluzione francese, basata su di una concezione astratta del mondo e della storia, una libertà con profonde radici nella storia delle singole nazioni. Croce concepisce la politica come una sfera autonoma (dalla morale) nella quale interessi differenti si incontrano e si scontrano; egli intende fondare una teoria filosofica della libertà «senza aggettivi» e concepisce il liberalismo come «meta-politico» o pre-partitico, in quanto i suoi ideali sono divenuti patrimonio di altri movimenti politici. Croce sottolinea la fondamentale importanza non tanto delle istituzioni (liberali) dello Stato quanto delle politiche e delle leggi che devono mirare ad aumentare la libertà e ad accrescere la dignità degli uomini. Nella Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932)parla di «religione della libertà», la quale si dispiega al di sopra dei singoli. Croce ha colto il declino della libertà e il sorgere dell’irrazionalismo che è alla base dei grandi sistemi totalitari del XX secolo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. All’avvento del fascismo afferma la libertà come principio, dover-essere assoluto, come dovere morale e necessità pratica a un tempo, in un’epoca cupa che non esita a definire «età dell’anti-Cristo».
L’economista Luigi Einaudi era non solo estremamente attento alle basi metodologiche e concettuali della propria disciplina ma anche assai interessato ai fondamenti morali dello Stato liberale, del cui ordinamento economico era severo difensore. La sua celebre polemica con Croce, che lo vede difensore dell’idea che l’economia liberista sia lo strumento per la realizzazione degli ideali del liberalismo, dimostra chiaramente l’inesistenza di un’«ortodossia liberale». Se la sua statura internazionale come economista liberista e uomo di Stato è fuori discussione, è opportuno ricordare anche la sua classica difesa (con suggestioni di J.S. Mill) della libertà individuale, concepita anche come originalità, garantita dallo Stato liberale e riassumibile nella formula dell’«anarchia degli spiriti» sotto il governo della legge.
Nel secondo dopoguerra i due pensatori che hanno rappresentato meglio le due anime del liberalismo italiano sono stati Nicola Matteucci e Norberto Bobbio. Filosoficamente maggiormente agguerrito il primo, che ha in Tocqueville e Croce i propri autori di riferimento e nello studio della libertà anglosassone (il costituzionalismo inglese e americano, l’equilibrio tra i poteri e il sistema di checks and balances, l’ideale della rule of law) la propria base teorica, più aperto agli stimoli provenienti dal socialismo e dall’umanitarismo marxiano il secondo, essi sono accomunati da una difesa del valore della libertà individuale come bene primario (e non come mezzo per raggiungere uno scopo più alto) e senza cedimenti alle «mode» dell’epoca: né verso il sociologismo che dissolveva la libertà e la responsabilità umana all’interno di un’imprecisata «società», né verso il marxismo che gli faceva prevalere l’ideale di eguaglianza e di «giustizia sociale», né verso alcuna deriva autoritaria postsessantottesca in nome del ripristino dell’ordine e del «buon governo». Le loro opere rifulgono nel panorama liberale del dopoguerra, così come esemplari rimangono la difesa della libertà intellettuale operata di Bobbio contro l’immagine dell’intellettuale organico di un Bianchi-Bandinelli o la sobria, ma intimamente appassionata, esaltazione da parte di Matteucci della libertà intesa come capacità di dare origine a qualcosa di nuovo e originale, sulla scia di Hannah Arendt e di contro allo strisciante conformismo della società di massa. Bobbio può essere considerato l’ultimo, raffinato interprete novecentesco dell’ideale liberalsocialista della «libertà eguale», da lui difesa in scritti storici e teorici. A Matteucci, che affermava l’inesistenza di un «interprete unico» del liberalismo, dobbiamo una persuasiva caratterizzazione del liberalismo come «risposta a sfida», come arsenale di strumenti teorici capace di allargare il significato del termine «libertà» a seconda dei contesti in cui si trova a operare, rispondendo a sfide dell’epoca assai diverse quali assolutismo regio, democrazia e conformismo di massa, totalitarismo, anelito di giustizia sociale.
Bibliografia
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