Massa (società di)
di Luciano Pellicani
L’ingresso delle masse quali protagoniste della scena sociale è stato il fenomeno più rilevante degli ultimi due secoli. A una civiltà rigorosamente aristocratica, basata sull’esclusione istituzionalizzata delle classi lavoratrici dalla vita politica, è subentrata, per tappe successive e grazie soprattutto alle conseguenze di lungo periodo della Rivoluzione industriale, una civiltà caratterizzata dalla fruizione da parte di categorie sociali sempre più ampie di quei beni – merci, servizi, conoscenze, diritti, ecc. – che nelle società pre-industriale erano patrimonio esclusivo di esigue minoranze. Tale processo di integrazione progressiva degli «esclusi», che Karl Mannheim ha proposto di chiamare «democratizzazione fondamentale», è stato percepito dalle classi privilegiate come un fenomeno che avrebbe portato inevitabilmente alla degradazione delle forme di vita collettiva della civiltà occidentale.
Già agli inizi dell’Ottocento, Benjamin Constant teorizzava la necessità di escludere i non-proprietari – quindi, la stragrande maggioranza della popolazione – dalla fruizione dei diritti politici per impedire la distruzione dello Stato costituzionale e il trionfo della tirannide esercitata in nome delle masse lavoratrici. Non diversa la preoccupazione che assillò Jacob Burkhardt e che lo portò a pronosticare l’avvento dei «terribili semplificatori», i quali, con la loro politica iperdemagogica, avrebbe raso al suolo tutto ciò che per secoli aveva rappresentato l’orgoglio dell’Europa: la libertà individuale, la razionalità, la Kultur. Qualche anno dopo gli faceva eco Friedrich Nietzsche, descrivendo il movimento democratico-socialista come una gigantesca «sollevazione della plebe e degli schiavi» che sarebbe sfociata, se non fosse stata energicamente contrastata, in un perverso ribaltamento della naturale gerarchia dei valori. Con il suffragio universale, la «morale degli inferiori» avrebbe trionfato sulla «morale dei signori» e ciò avrebbe prodotto non solo l’«universale abbrutimento dell’Europa», ma anche la «degenerazione complessiva dell’umanità». Contro una siffatta prospettiva, Nietzsche auspicò la creazione di una «razza di dominatori, i futuri signori della Terra: una nuova, enorme aristocrazia edificata sulla più dura autolegislazione, in cui sarebbe stata conferita una durata di mille anni alla volontà di violenti uomini filosofici e di tiranni artisti: una specie superiore di uomini che, grazie alla loro sovrabbondanza di volontà, sapere, ricchezza e influsso, si sarebbe servita dell’Europa democratica per riprendere in mano le «sorti della Terra, per plasmare, come artisti, l’uomo stesso». E auspicò altresì la costituzione di un nuovo partito – «il partito della vita» – che avrebbe realizzato la più grande delle missioni: «l’allevamento dell’umanità al superamento di se stessa», includendovi l’inesorabile annientamento di tutto ciò che era degenere e parassitario.
Se Constant, Burckhardt e Nietzsche espressero in maniera tachigrafica le apprensioni tipiche delle classi privilegiate di fronte all’ascesa sociale delle masse lavoratrici, Gustave Le Bon le elaborò in modo sistematico in alcuni volumi, fra i quali il più noto è La psicologia delle folle. Dopo aver analizzato con notevole acume psicologico l’«anima collettiva» della folla, concepita come una realtà riscontrabile in tutte le società e in tutti i tempi, Le Bon concentra la sua attenzione sul ruolo che essa ha nella civiltà occidentale. Questa, a suo dire, è entrata in una fase patologica, poiché, a partire dalla Rivoluzione francese, le folle, che un tempo apparivano episodicamente sulla scena della storia, sono diventate le protagoniste assolute sotto forma di masse permanentemente mobilitate dai sindacati e dai partiti socialisti, con il risultato che la politica ha cessato di essere una attività razionale e responsabile per diventare azione cieca e distruttiva. Ormai – non si stanca di ripetere Le Bon – si è aperta l’«era delle folle», la quale altro non è che l’era dello strapotere delle masse, con le loro fantasie utopistiche, le loro ingenue idee di eguaglianza e di sovranità popolare e il loro peculiare modus operandi, tutto dominato da impulsi ciechi e irrazionali. E si è aperta altresì l’«era dei meneurs», che sono i capi naturali delle rozze e incolte masse, coloro che ne esprimono i miti, le aspirazioni e gli interessi e che, precisamente per questo, sono destinati a sostituire le tradizionali élites con conseguenze rovinose per la cultura.
Al di là degli indubbi meriti scientifici – sottolineati soprattutto da Sigmund Freud nel saggio Psicologia delle masse e analisi dell’Io –, l’opera di Le Bon costituisce la più tipica espressione ideologica dell’orrore aristocratico di fronte alla democrazia, identificata con il dominio, tirannico e distruttivo al tempo stesso, delle masse. L’idea che sta alla base della sua visione apocalittica del futuro dell’Europa è che l’ingresso delle classi lavoratrici nell’arena politica rappresenta una terrificante minaccia per la civiltà. Tutto ciò che è personale, qualificato, elevato, razionale è destinato a essere spazzato via dall’avanzata travolgente delle masse. Queste faranno precipitare l’Europa nella barbarie in quanto, guidate da capi improvvisati e demagogici, instaureranno, in luogo del governo dei migliori, quel reggimento politico che Aristotele aveva chiamato oclocrazia.
A partire dagli anni Trenta, si assiste a una proliferazione di teorie della società di massa avente come principale obiettivo quello di fornire una eziologia della traumatica irruzione dei movimenti totalitari sulla scena europea. Spetta a José Ortega y Gasset il merito di aver aperto la strada che sarebbe stata successivamente esplorata da Wilhelm Reich, Erich Fromm, Emil Lederer, Hannah Arendt e William Kornhauser. Nella sua Ribellione delle masse, destinata ad avere uno straordinario successo di pubblico, Ortega parte da tre affermazioni: la prima, che la democrazia liberale fondata sulla creazione tecnica è il tipo superiore di vita pubblica finora conosciuto; la seconda, che questo tipo di vita non sarà il migliore immaginabile, però quello che potremo immaginare migliore dovrà conservare l’essenziale dei suoi principi; la terza, che è suicida ogni ritorno a una vita inferiore a quella del XIX secolo. Subito, però, Ortega si chiede se non siano in atto processi che rischiano di erodere le basi morali della civiltà occidentale. Fra i quali, il più inquietante è l’apparizione, nel bel mezzo della spettacolare crescita della ricchezza, di un nuovo tipo antropologico: l’uomo-massa. Presente in tutte le classi sociali, l’uomo-massa è diventato l’anonimo dominatore della scena europea; e si tratta di un dominio esiziale per le istituzioni e i valori della tradizione liberale in quanto il suo specifico modo d’essere è caratterizzato dall’ermetismo spirituale, dal rifiuto del dialogo, dalla propensione all’azione diretta e dalla pretesa di imporre i suoi gusti volgari e le sue rozze preferenze al di fuori di ogni disciplina e autodisciplina. Ciò fa dell’uomo-massa una sorta di primitivo che si aggira in un mondo complesso la cui gestione richiede elevate qualità intellettuali e morali, mentre egli è un essere mediocre e privo di coscienza storica. In particolare, l’uomo-massa non è in grado di percepire che la civiltà è una accumulazione di esperimenti, di istituzioni, di conoscenze, di valori; insomma, una tradizione culturale tanto preziosa quanto fragile. L’assenza di coscienza storica fa dell’uomo-massa una sorta di «barbaro verticale», generato spontaneamente dalla rivoluzione industriale, dalla tecnologia scientificamente orientata e dalla democrazia. Ma – avverte Ortega – una democrazia senza una cultura del dialogo e dei limiti della giurisdizione potestativa della sovranità popolare è destinata a degenerare in uno statalismo onnivoro e autodistruttivo, come è attestato dalla strategia adottata dal fascismo al potere. Tipico movimento di uomini-massa diretto da capi estemporanei, il fascismo, nella misura in cui intende istaurare il dominio totale dello Stato sulla società civile, è l’anti-Europa. Ciò che per secoli ha caratterizzato il singolare esperimento di vita collettiva compiuto nel «laboratorio europeo» è stato il pluralismo, vale a dire la coesistenza competitiva e perfino conflittuale fra una molteplicità di forze sociali e culturali; il che ha impedito la reductio ad unum della civiltà occidentale. Per contro, il fascismo, non diversamente dal bolscevismo, è dominato dal progetto di rendere onnipotente lo Stato, di modo che nulla al di fuori di esso possa nascere e crescere. Il che rivela il senso profondo della ribellione delle masse: il rifiuto dell’intera tradizione liberale in nome di un nazionalismo tribale e aggressivo che, qualora non verrà arginato da un vigoroso movimento europeista, farà precipitare i popoli del vecchio continente in una insensata e autodistruttiva guerra fratricida.
Ancorché diversamente articolate e condotte con strumenti di analisi diversi da quelli utilizzati da Ortega, le teorie della società di massa di W. Reich, E. Fromm, E. Lederer, W. Kornhauser e H. Arendt nel ventennio successivo alla pubblicazione della Ribellione delle masse giungono tutte alla stesa conclusione; e cioè che i successi dei movimenti totalitari vanno spiegati tenendo presente il nuovo tipo antropologico apparso sulla scena europea fra le due guerre. In particolare, nelle Origini del totalitarismo della Arendt, che può essere considerata l’opera nella quale la problematica e le categorie ermeneutiche della letteratura sulla società di massa trovano la loro formulazione più organica e compiuta, si insiste sull’idea che il fenomeno del totalitarismo, sia nella versione comunista che in quella nazista, può essere compreso solo a partire dal processo di atomizzazione che ha trasformato le classi in masse. Essendo venute meno le pareti protettive delle classi, sono emerse le condizioni strutturali per la formazione e la proliferazione dell’uomo-massa: un essere privo di relazioni sociali normali, di vincoli comunitari, di valori interiorizzati e, proprio per questo, irresistibilmente attratto dai movimenti totalitari, i soli capaci di soddisfare in qualche modo il suo bisogno di appartenenza. In aggiunta, gli effetti atomizzanti e alienanti della massificazione spontanea, generate dal collasso delle tradizionali strutture comunitarie, vengono intensificati dalla massificazione programmata dagli stessi movimenti totalitari, determinati ad annientare tutte le associazioni intermedie onde poter manipolare ad libitum il materiale umano su cui si esercita la loro smisurata volontà di dominio. L’analisi del peculiare linguaggio profetico adoperato da Hitler durante le oceaniche adunate organizzate dagli attivisti nazisti induce la Arendt a sottolineare con particolare vigore il fatto che uno degli aspetti più inquietanti dei movimenti totalitari è che in essi il leader svolge il ruolo di «funzionario delle masse» e di «ingegnere delle anime». Egli può suggestionare e mobilitare le masse proprio in quanto ne incarna i desideri più profondi. Sicché il travolgente successo dei movimenti totalitari non è stato affatto un mero fenomeno congiunturale, bensì la manifestazione più spettacolare e inquietante di un processo storico iniziato nell’Ottocento, il secolo in cui la rivoluzione industriale, trasformando le classi lavoratrici in plebe, ha preparato il terreno di coltura degli uomini-massa e dei loro leader naturali: i costruttori della società totalitaria, vero e proprio laboratorio in cui si compiono esperimenti tesi a realizzare la mutazione totale della natura umana in nome del principio nichilistico del «tutto è possibile».
Mentre a giudizio di Ortega y Gasset e Hannah Arendt gli esiti totalitari della massificazione costituiscono una inversione della linea di sviluppo della civiltà occidentale, i «teorici critici» della Scuola di Francoforte li hanno interpretati come il naturale approdo della specifica logica che presiede al funzionamento della società capitalistico-borghese. La loro tesi centrale, non dissimile da quella formulata dalla Internazionale comunista, è che, dal momento che il passaggio dallo Stato liberale allo Stato fascista si è compiuto sulla base dello stesso ordinamento economico centrato sul mercato e la proprietà privata dei mezzi di produzione, si deve giungere alla conclusione che è il liberalismo stesso a generare il totalitarismo e che quest’ultimo non è che l’organizzazione politica della società borghese corrispondente allo stadio monopolistico del capitalismo. L’instaurazione delle dittature fasciste, pertanto, non è affatto un incidente della storia, bensì un fenomeno iscritto nel codice genetico della società di mercato. Ciò che, sin dalla nascita, ha caratterizzato quest’ultima è il progetto di estendere la logica della razionalità funzionale non solo alla natura, ma anche alla organizzazione sociale e agli esseri umani. Gli strumenti principali di questa smisurata e perversa volontà di dominio e di manipolazione della realtà sono la scienza, la tecnologia, l’organizzazione scientifica del lavoro di fabbrica, l’industria culturale e l’apparato statale. Grazie ad essi, la modernità capitalistico-borghese ha potuto materializzare il suo ideale: la società scientificamente amministrata, dove gli uomini sono ridotti a cose fra le cose. Ed è appunto questo il totalitarismo: la reificazione universale e la nascita dell’uomo unidimensionale. Da questo punto di vista, le differenze – se di differenze si può parlare – fra Stato liberale e Stato fascista sono minime. Entrambi perseguono il dominio impersonale della razionalità strumentale su tutti gli aspetti della vita umana, inculcando, attraverso una intensa opera di indottrinamento, gli imperativi funzionali della organizzazione scientifico-tecnologica della produzione e riproduzione della vita materiale. La società industriale è una società di massa precisamente nella misura in cui gli uomini sono indotti ad agire secondo i criteri della ratio; e ciò, inevitabilmente, li trasforma in esseri spersonalizzati, atomizzati e reificati. Sicché, in definitiva, la massificazione degli uomini, che è la nota dominante della civiltà moderna, va imputata alla scienza, alla tecnologia e all’industrialismo. Tutte cose che possono essere riassunte con una parola: illuminismo.
Nella Dialettica dell’illuminismo, Theodor Adorno e Max Horkheimer riconoscono che ciò che ha caratterizzato la filosofia dei Lumi è stato il progetto di liberare gli uomini dalla superstizione e da tutto ciò che li opprimeva. Pure, nel razionalismo illuministico era già in germe il «nuovo tipo di barbarie» manifestatosi compiutamente nel XX secolo. Avendo identificato la ragione con la calcolabilità (ratio), l’illuminismo ha indicato la strada in fondo alla quale non poteva non esserci il «dominio livellatore dell’astratto», dunque una società matematizzata, ove la quantità ha sostituito in tutto e per tutto la qualità e gli esseri umani sono sottoposti a un perverso processo di manipolazione.
La lettura della società moderna esposta nella Dialettica dell’illuminismo si fa ancor più cupamente pessimistica con L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse, l’opera grazie alla quale le tesi della Scuola di Francoforte contribuirono in qualche misura a creare quella nuova sensibilità che sarebbe sfociata nella contestazione studentesca degli anni Sessanta. Marcuse esordisce ribadendo che totalitario non è solo il dominio esercitato con il terrore e i campi di sterminio; totalitario è anche il dominio di una organizzazione tecnico-economica che opera mediante una astuta manipolazione dei bisogni, la quale impedisce che nasca opposizione efficace contro il sistema. Il risultato di una tale manipolazione universale, condotta con l’imponente strumentazione dell’industria culturale, è la formazione di un tipo antropologico – non dissimile, nei suoi tratti essenziali, dall’«uomo eterodiretto» di David Riesman e dall’«uomo antiquato» di Günther Anders – che, fruendo di una confortevole e ragionevole pseudolibertà, si è docilmente fatto integrare nel sistema. Ciò significa, a giudizio di Marcuse, che la concezione positivistica della ragione ha trionfato su tutta la linea: ha creato un universo totalitario non più terroristico bensì consensuale, animato dalla illusione della sovranità popolare e dominato da un mastodontico apparato tecnologico che è riuscito a trasformare il mondo intero in materia di amministrazione totale, assorbente in sé anche gli amministratori. La stessa classe operaia, cui Marx, dall’alto della sua maestosa filosofia della storia, aveva assegnato la missione cosmica di abbattere il dominio del capitale, ha accettato la logica del sistema, rendendo così impensabile l’idea stessa di rivoluzione. In tal modo, l’ottimismo millenaristico di Ragione e rivoluzione –dove Marcuse, confidando sulla infinita potenza della «negazione dialettica tendente a demolire la realtà data», aveva intravisto la via della liberazione dalla società di mercato – cede il passo a una visione disperata e disperante del futuro della umanità, ormai irrimediabilmente prigioniera della «gabbia d’acciaio» costruita dalla ratio. Di fronte alla società capitalistico-borghese, percepita come un mondo ermeticamente chiuso e ottusamente soddisfatto di sé, l’autore dell’Uomo a una dimensione non vedeva che una sola estrema possibilità di riscatto morale per i pochi che, misteriosamente, erano riusciti a sfuggire agli effetti ottenebranti della manipolazione ideologica: il Gran Rifiuto.
Bibliografia
Adorno T.W., Horkheimer M., Dialektik der Aufklärung, Querido, Amsterdam 1947; Anders G., Die Antiqiertheit des Menschen, Monaco 1956; Arendt H., The Origins of Totalitarianism, New York 1951; Freud S., Massenpsychologie und Ich-analyse, Vienna 1921; Fromm E., Escape from Freedom, New York 1941; Le Bon G., Psychologie des foules, Parigi 1895; Lederer E., The State of the Masses, New York 1940; Kornhauser W., The Politics of Mass Society, Glencoe 1959; Mannheim K., Man and Society in an Age of Reconstruction, Londra 1954; Marcuse H., One-dimensional Man, Boston 1964; Ortega y Gasset J., La rebeliòn de las masas, Madrid 1930; Reich W., Die Massenpsychologie des Fascismus, Verlag fur sexualpolitik, Zurigo 1933; Riesman D., The Lonely Crowd, Yale university press, New Haven 1950.