Parlamentarismo-antiparlamentarismo
di Fabio Grassi Orsini
Parlamentarismo e costituzionalismo sono stati all’origine sinonimi mentre l’antiparlamentarismo costituiva l’opposizione al sistema rappresentativo. Quest’ultima era rappresentata da coloro che si opponevano alle riforme costituzionali o che per eccessiva moderazione si accontentavano di istituzioni di tipo consultivo, nell’ambito di «monarchie temperate». Durante la Restaurazione gli «antiparlamentari» erano i conservatori e i difensori del parlamento erano i liberali moderati o costituzionali. La critica al parlamentarismo non fu una specificità italiana, ma fu un atteggiamento molto diffuso anche in quasi tutti i paesi europei, ovviamente con scansioni cronologiche a volte diverse, a seconda dello sviluppo diacronico dei differenti sistemi rappresentativi del vecchio continente. In Francia, ad esempio, un clima antiparlamentare si diffuse dopo Sedan ed ebbe un segno antidemocratico.
In genere, per quanto riguarda l’Italia, la nascita di un movimento antiparlamentarista viene collocato nel momento della crisi della Destra storica e della sua caduta nel 1876, quando la critica al parlamentarismo si venne a caricare di altre ragioni che vanno dall’ingerenza della politica nell’amministrazione, al clientelismo, alla corruzione elettorale, al farsi e disfarsi delle maggioranze e, in una parola, possono essere sintetizzate nel trasformismo. In realtà, già in occasione delle critiche al «connubio» cavouriano possiamo scorgere i primi segni di «antiparlamentarismo». Non ci si riferisce tanto alle posizioni della Destra legittimista, che era frontalmente avversaria di Cavour, ma a quella di un moderato come Cesare Balbo, il quale contestava l’operazione perché riteneva che essa aveva rotto il bipartitismo, che, a suo giudizio, era l’unico sistema di partito in grado di assicurare la funzionalità del parlamento.
Quando si profilò, in occasione della formazione del governo Cavour, una maggioranza Centro-Destra-Centro-Sinistra, Balbo pronunciò alla camera subalpina un discorso a difesa del bipartitismo, come elemento di buona funzionalità del regime parlamentare, ma anche come fattore di equilibrio del sistema dei partiti.
Tra il 1865 e gli inizi degli anni Settanta, quando la Destra si frammentò in diverse correnti, legate a interessi settoriali, si cominciò ad avvertire oramai nettamente, nelle stesse file di quel «partito», il problema del decadimento del parlamento e lo si legò alla crisi del «partito governo». Basti pensare ai contributi di G. Guerzoni, I Partiti vecchi e nuovi nel Parlamento italiano (Firenze 1872), di R. De Zerbi, I partiti politici in Italia dal 1870 al 1875,pubblicato negli Scritti Politici (Napoli 1876) e di A. Scialoja, Mancanza di partiti politici in Italia, pubblicato nella «Nuova Antologia» (vol. XIII 1870) o di Pasquale Villari nelle Lettere Meridionali (1876). Secondo Guerzoni, il corretto funzionamento del sistema parlamentare entrò definitivamente in crisi con il trasferimento della capitale a Firenze e la creazione di un’opposizione piemontese, la «Permanente». Da allora si formarono delle consorterie che avevano a loro fondamento il «primato della Regione» e la Destra si divise in «frazioni politiche» e «chiesuole». Egli piuttosto pensava alla creazione di un nuovo partito, che doveva essere, in forza della sua concezione dialettica della storia, un «partito medio», e cioè una sintesi dei due vecchi partiti, un «terzo partito» che consistesse nel superamento del «giacobinismo dei radicali» (onnipotenza dello stato, protezionismo, accentramento amministrativo, dogmatismo laico) e del «bismarckismo dei conservatori». Ciò che era più importante era la «mutazione degli uomini», che poteva avvenire attraverso una riforma elettorale [Guerzoni 1872].
A. Scialoja lamentava la «mancanza di due poderosi partiti politici» ed auspicava che il popolo prendesse coscienza del «potere elettorale», che non sarebbe potuto avvenire senza la concessione del suffragio universale. Egli vedeva nel «regionalismo» un’«Ombra di Banco», che costituiva una minaccia per l’ordinamento dei partiti e la stessa unità dello stato [Scialoja 1870].
Rocco De Zerbi, faceva dipendere l’affermarsi delle consorterie dalla ristrettezza delle «ruling classes». Criticava la classe parlamentare ed esprimeva il parere che molti dei suoi membri mancassero di «intelligenza e di studii per l’ufficio di deputato». Tra di loro c’erano molti «parolai», persone incapaci di «creare una situazione parlamentare efficace». In genere i rappresentati eletti «non avevano sinceramente e permanentemente un programma». Cercava di ridimensionare la peculiarità del caso italiano e respingeva l’idea che la formazione di «consorterie» fosse tipico del sistema dei partiti italiani, affermando che lo stesso fenomeno esisteva anche in Inghilterra. Invitava, inoltre, i critici del governo a fare la tara alle accuse dell’opposizione che «contribui[va] a far credere tutti corrotti; perpetua[va] e dilata[va] lo scontento delle moltitudini che ripetono quanto odono dire; ritardava l’educazione del paese». De Zerbi cercava di smontare il «terrore delle coalizioni», alimentato dal modo in cui si era formata la nuova maggioranza che aveva portato al potere la Sinistra e non si nascondeva la crisi dei partiti, che egli definiva come dei «cadaveri galvanizzati», che si combattevano senza che vi fossero tra di loro delle differenziazioni programmatiche [De Zerbi 1876].
Villari invece rimproverava alle classi dirigenti di pretendere di governare gli italiani ignorando le condizioni reali in cui si trovava il paese. Egli riteneva che la conquista della libertà, attraverso le garanzie statutarie e parlamentari, era del tutto illusoria. Questo perché le condizioni entro le quali continuava a svolgersi la vita morale e materiale degli italiani andava peggiorando rispetto al periodo anteriore l’Unità. In un articolo del 1868 per la «Nuova Antologia», I partiti politici nel Parlamento italiano, rilevava che in Italia, anziché di disciplina di partito, era più corretto parlare di intrigo, d’influenza, di sospetto e di odio, e continuando su questa strada i partiti politici sarebbero diventati «uno strumento di rovina per sé e per lo Stato» [Villari 1868]. Anche Villari si diceva sostenitore del modello inglese e del bipartitismo e di conseguenza considerava fisiologica l’alternanza. Non considerò, perciò, l’avvento della Sinistra al potere una sciagura di per sé, ma criticava il modo con cui essa andò al potere, non per forza sua, ma per il «tradimento» del gruppo toscano. Egli riteneva che la divisione tra i partiti italiani non riposasse su questioni di interesse generale:
Il gran torto dei partiti in Italia e la loro debolezza [erano] nati da ciò, che essi furono divisi da passioni personali, da tradizioni e consuetudini inveterate, mentre gli individui erano divisi da principii ed opinioni diverse. Sicché nel medesimo partito si trovarono insieme uomini di assai diverso sentire, uniti in un programma che, in alcune parti, ognuno interpretava a suo modo [Villari 1876].
Ancora nel 1882, in un suo articolo per la «Perseveranza» – La decadenza dei partiti e il pericolo per la monarchia, del 6 settembre 1882 – denunciava il «pericolo» che la crisi dei partiti potesse travolgere le istituzioni rappresentative.
A proposito della critica al parlamentarismo, riferita al periodo successivo alla svolta del 1876, si possono individuare nella cultura liberale diversi orientamenti: uno di questi riteneva che il parlamentarismo traesse origine dal decadimento delle istituzioni parlamentari dovuto alla transizione da un regime rappresentativo a una democrazia parlamentare ed auspicava un «ritorno allo Statuto», cioè ad un regime costituzionale «puro», attraverso il rafforzamento dei poteri della Corona (così Bonghi e più tardi Sonnino); altri lo legavano alla crisi dei partiti e dimostravano sfiducia verso la classe politica (in particolare Angelo Mayorana, Silvio Spaventa, C. Alfieri di Sostegno); altri dimostravano fiducia nello sviluppo del sistema parlamentare e si affidavano alla efficacia delle riforme e al graduale allargamento del suffragio (Palma, Zanichelli, Brunialti), altri, e in particolare la «scuola elitaria» consideravano il parlamentarismo non una degenerazione del sistema parlamentare, ma un aspetto del suo funzionamento, che si sarebbe aggravato con l’allargamento del suffragio.
Per Majorana, il parlamentarismo era una «esagerazione del sistema parlamentare» e cioè una sua «deviazione» e «corruzione». Nel suo libro Del Parlamentarismo analizzava da una parte, le deviazioni del Parlamento dalle sue funzioni e individuava le usurpazioni della Camera dei Deputati nei confronti degli altri organi costituzionali, dall’altra, metteva in luce le esagerazioni nelle critiche, rivolte dagli antidemocratici riguardo al suo funzionamento. Da parte sua, Carlo Alfieri considerava il parlamentarismo come un male di tutti i sistemi rappresentativi dell’epoca e non solo dell’Italia e riteneva che esso era determinato dalle «invasioni della politica nell’amministrazione, dalla partigianeria nell’esercizio delle funzioni dello Stato, dalla speculazione, dall’affarismo, a danno degli interessi generali e della pubblica sostanza» e riteneva che delle riforme avrebbero potuto «ringagliardire i poteri dello stato, innalzandoli sopra le combriccole e le fazioni, ad assicurare la giustizia in tutti i rami di pubblica amministrazione, a tutelare la buona economia degli erari comunali», senza attendere effetti miracolistici dall’estensione del suffragio.
Silvio Spaventa in un suo famoso discorso, tenuto il 7 maggio 1880 dinanzi alla Associazione Costituzionale di Bergamo, affermò l’utilità di un «governo di partito», si domandava, tuttavia:
[…] Come è possibile che un partito al governo non abusi del potere, che ha nelle mani, in danno e ad offesa di altri? Eppure lo Stato deve esservi, e vi è appunto per questo, che l’interesse di un partito, di una classe, di un individuo non predomini ingiustamente sopra l’interesse degli altri.
«Come risolvere questa che sembra insuperabile contraddizione?». La risposta stava in una serie di misure relative alla definizione di un sistema di pesi e contrappesi, ma soprattutto in un sistema di giustizia amministrativa, che riuscisse a limitare la «influenza partigiana» negli affari amministrativi. Spaventa non era contrario al principio all’allargamento del suffragio e contestava che il voto fosse un diritto individuale, in quanto diritto pubblico, che non poteva fondarsi né sul censo, né su altri requisiti personali, come saper leggere e scrivere, ma sulla capacità di decidere, in base a una conoscenza del bene pubblico. Il maggiore difetto del nostro sistema parlamentare per Spaventa non stava tanto nella legge elettorale, quanto «nella difettosa costituzione dei partiti». Spaventa osservava come ci si trovasse di fronte a un partito conservatore «anomalo»: il partito «moderato» italiano si distingueva dai partiti conservatori perché lo stato nuovo fondato sullo spirito del progresso moderno era opera sua, così che il partito «moderato» doveva essere «ad un tempo un partito conservatore e progressista» [Spaventa (1880) 1910].
Ruggero Bonghi prendeva atto che i due partiti storici erano oramai privi di funzione e di vitalità, anche se, malgrado la loro decadenza, rimanevano un elemento essenziale della sua teoria politica. Bonghi, infatti, fu tra le personalità politiche del tempo quello che più approfondì la questione teorica dei partiti, analizzando la loro evoluzione storica su di una base comparata nei due saggi Camera e partiti politici dal 1861 al 1865 (1865) e Una questione grossa, la decadenza del regime parlamentare (1884) e inoltre in un notevole numero di articoli per giornali e riviste, legando la crisi del parlamento a quella dei partiti e soprattutto facendo rilevare come il sistema, essendosi allontanato dal modello di una monarchia costituzionale, non era più in condizione di funzionare correttamente.
Il dibattito sul cattivo funzionamento del sistema dei partiti acquistò una visibilità maggiore dopo la pubblicazione del famoso saggio di Marco Minghetti I Partiti Politici e la loro ingerenza nell’amministrazione, pubblicato nel 1881, la cui recezione da parte dei suoi contemporanei avvenne in chiave antipartitocratica e antiparlamentare. La lettura che se ne fece, allora, tendeva a privilegiare quasi soltanto le critiche rivolte alla degenerazione dei partiti, degenerazione che si manifestava nella prassi parlamentare e nella loro invadenza nell’amministrazione pubblica. In realtà, né la cultura liberale di Minghetti, né le sue intenzioni autorizzavano una lettura di questo tipo. Minghetti aveva ben chiaro il processo di formazione dei partiti «moderni».
Anche il costituzionalista Luigi Palma, che apparteneva alla «scuola storica», affrontò la questione della «riorganizzazione dei partiti», di grande attualità dopo l’avvento della Sinistra al potere:
In questi ultimi anni si è deplorata continuamente in Italia la viziosa formazione e distribuzione dei nostri partiti parlamentari e si è sempre proposto e invocato di riordinarli in due […]. Di molti anzi si osserva questa condizione in due, una condizione del governo parlamentare, citando sempre all’uopo la grande e felice divisione inglese in tories e whigs».
Per quanto fosse «grandemente desiderabile» la divisione dei partiti in due schieramenti, l’uno conservatore e l’altro progressista, il modello inglese non si poteva applicare all’Italia. D’altra parte, il sistema inglese non era stato sempre bipartitico e non era comunque un sistema bipartitico perfetto. Bipartitico, semmai, era il sistema americano; pluripartitico, infine, era il sistema tedesco e quello francese. I partiti italiani erano, al momento in cui Palma scriveva:
spesso chiesuole e gruppi regionali e personali anziché veri partiti politici nazionali, uniti insieme da un alto e comune sentire diverso sulla cosa pubblica: una maggioranza governante, e appoggiante il governo, la più variopinta, di vecchia e nuova Sinistra, di antichi fautori di passati governi tramutatisi in progressisti; un’opposizione di Destra discorde e acefala, e peggio ancora di dissidenti di Sinistra; un’assenza pressoché completa della parte clericale e così detta conservatrice della cittadinanza.
Palma, che non aveva visto con sfavore l’avvento della Sinistra storica, ne criticò, poi, l’operato una volta al governo. Egli riteneva che la Sinistra al governo fosse stata un fallimento sul piano del decentramento, della gestione dell’economia e soprattutto che non avesse mantenuto la promessa di garantire l’imparzialità nell’amministrazione, nei cui confronti dimostrò una maggiore arbitrarietà, un più accentuato spirito partigiano, una più accentuata ingerenza da parte degli esponenti della sua maggioranza nella gestione dei ministeri e una maggiore permeabilità per quanto riguarda la corruzione e l’affarismo. Anche Palma imputava alla cattiva organizzazione del sistema dei partiti italiano, esposto alla sfida di forze extraparlamentari ostili allo stato liberale e in cui non esisteva più un’alternativa tra un partito conservatore e uno progressista, le maggiori responsabilità della crisi del Parlamento. Da questa impasse si poteva uscire con la formazione di un «nuovo partito liberale» risultante dalla fusione dei vecchi partiti e con il superamento delle tradizionali contrapposizioni.
Sempre nell’ambito della scuola storica, deve essere prestata attenzione al costituzionalista modenese Domenico Zanichelli. Nella lezione inaugurale del corso di diritto costituzionale dell’anno accademico 1885-86 presso la Scuola di Firenze, aveva pronunciato una difesa del sistema parlamentare e aveva incitato a non avere timore delle riforme e dello stesso suffragio universale. Egli vedeva piuttosto un pericolo per la sopravvivenza del sistema rappresentativo nell’esistenza di «comunioni informate da vincoli personali o da interessi speciali» (consorterie politiche e gruppi d’interesse), le quali non avevano alla loro base un’idea politica e dovevano, per il raggiungimento dei loro scopi, esigere una disciplina più stretta, metodi spesso segreti, ingenerando in coloro che stringevano tra loro un patto per il perseguimento di fini privati, in molti casi, illeciti, uno spirito intransigente e settario. Altra minaccia per il governo di gabinetto, in paesi come l’Italia, era la presenza di «partiti extralegali» o «estremi», i quali contestavano l’ordinamento costituzionale, non avevano un senso di responsabilità verso la collettività, facevano ricorso alla demagogia per estendere il consenso alle loro tesi.
Molto interessanti, per quanto riguarda lo specifico tema dei partiti, sono alcuni articoli di carattere storico comparsi su importanti riviste italiane e, in particolare, Vecchi uomini e vecchie idee e Il Partito liberale storico in Italia nonché il suo saggio su Introduzione storica allo studio del sistema parlamentare italiano,che delinea un profilo del sistema dei partiti italiani dal 1848 alla riforma elettorale del 1882. Nel primo saggio, Zanichelli respingeva le richieste di riforma del sistema parlamentare da parte della sinistra (mandato imperativo, indennità ai deputati, incompatibilità tra funzioni burocratiche e cariche parlamentari, suffragio universale), ma riconosceva che i gruppi liberali monarchici, tuttavia, «[avevano] bisogno d’un rinnovamento, se non così generale come i partiti radicali, pure molto esteso e profondo». Questi gruppi liberali si sarebbero – per Zanichelli – frazionati alla Camera e «avrebbero preso forma di clientele personali e di camarille regionali e di classe». E, soprattutto per l’affacciarsi all’orizzonte del suffragio universale, era il partito moderato ad aver bisogno di un rinnovamento, «quel grande partito, unico veramente costituzionale e parlamentare», i cui maggiorenti non avevano capito l’estensione e l’importanza del cambiamento [ivi, pp. 205-206]. Zanichelli, come Minghetti, giudicò quasi obbligata l’andata al potere della Sinistra, ma scrivendo a quasi sedici anni dal famoso saggio di Minghetti, in pieno periodo reazionario ed in parte distaccandosi dai suoi scritti precedenti, potè dare un giudizio politico sull’operato della Sinistra, che fu certamente più drastico, giudicandola «un’accozzaglia di gruppi, ripugnanti tra loro, tenuti insieme dall’unico scopo di combattere i loro avversari di Destra». Zanichelli concludeva il suo saggio, affermando che
La riforma elettorale [del 1882] attuandosi, distrusse completamente le due parti politiche sino ad allora esistite. Dinanzi alle urne, i gruppi affini si amalgamarono e si iniziò il cosidetto «trasformismo». Del quale molto si è detto male e non si può negare che non fosse accompagnato dalla maggiore corruzione politica e del Parlamento. Ma questa trasformazione, cioè la formazione di maggioranze avventizie, prese sui vari banchi della Camera e non con criterio di partito è una necessità dove i partiti non esistono più, o non possono esistere.
Attilio Brunialti, anche lui appartenente alla «scuola storica», nutriva il sogno di una «democrazia temperata» ed era uno strenuo fautore dei sistemi rappresentativi, una difesa che poteva essere scambiata per ideologica, ma che in realtà si poneva nel solco della tradizione nazionale, che si identificava con la difesa della classe dirigente risorgimentale. La differenza tra Brunialti, da una parte, e Orlando e Mosca (che peraltro furono politici impegnati anche con responsabilità di governo) dall’altra, stava nella convinzione che la nuova classe politica dovesse formarsi nelle lotte elettorali, nei dibattiti parlamentari e nelle esperienze amministrative, piuttosto che negli atenei, all’interno della pubblica amministrazione e nei consigli tecnici. Non è che Brunialti, come del resto Zanichelli, ed in genere la «scuola storica», non si preoccupassero della formazione delle classi dirigenti, al contrario, essi si erano impegnati a diffondere la cultura politica appunto per favorire il livello di competenza del ceto politico. Nell’introduzione del suo libro Le scienze politiche nello stato moderno, Brunialti scriveva:
l’opinione pubblica non può essere appieno intelligente e cosciente quanto le classi elevate, che ebbero nella nostra rivoluzione ed hanno nel governo potere dirigente, non sono abbastanza colte […]. La scienza politica non è soltanto necessaria a formar governi, ma ad illuminare e dirigere la pubblica opinione dei governati [Brunialti 1884, p. 62].
La scuola elitaria affrontò la crisi del parlamento adottando un approccio diverso da quello dei costituzionalisti liberali che – come si è visto – lo mettevano in relazione con la crisi del sistema dei partiti. Sia Mosca che Pareto erano convinti che fosse il sistema rappresentativo a incontrare problemi con l’estensione del suffragio, con l’affermarsi dei partiti di massa e con i gruppi di interessi. Ne sarebbe conseguito lo scadimento della classe politica e l’aumento della corruzione. Nella Teorica dei governi Mosca sostenne che la corruzione non era un effetto patologico del sistema parlamentare, determinato da un’anormale ingerenza dei partiti nell’amministrazione – come credeva Minghetti – ma un elemento fisiologico del sistema. La corruzione era il «frutto inevitabile di un pernicioso sistema di governo, che ispirato ad idee teoriche e ad astrazioni metafisiche, non tiene in nessun conto né della conoscenza della storia, né di quella della società e del carattere umano».
Mosca, ancor più di Minghetti, dava importanza, nello studio del sistema politico, al rapporto governo-amministrazione dello stato e non considerava la burocrazia una sovrastruttura priva di volontà politica: l’amministrazione era un corpo politico la cui autonomia, in quanto compatibile con il sistema parlamentare, andava difesa e condannava l’immissione di impiegati precari al di fuori dei meccanismi di concorso; solo i concorsi pubblici potevano garantire una selezione basata sul merito. Dalla coscienza del loro valore solo poteva dipendere l’autonomia e l’indipendenza dei funzionari pubblici. Nella Teorica Mosca produsse, inoltre, un’interessante analisi dei corpi dello stato e dell’amministrazione locale e di quella parte della classe politica non eletta. Si trattava di un’analisi che definiva un approccio nuovo e più globale di quello sino ad allora adoperato da coloro che avevano prodotto riflessioni sulle degenerazioni del parlamentarismo ed avevano ricercato nella classe parlamentare le responsabilità della crisi delle istituzioni rappresentative. Per Mosca la Camera dei Deputati era oramai divenuta una «parziale e fittizia rappresentanza del paese» che escludeva «le forze vive, gli elementi atti alla direzione politica che ne resta[vano] fuori» e non poteva – come si credeva – fornire una sintesi degli interessi generali, ma tendeva a rappresentare interessi privati difficilmente amalgamabili. Egli riteneva che il sistema parlamentare fosse il peggior sistema di reclutamento della classe politica ed il paravento dietro il quale si nascondevano e operavano gli interessi di gruppo, di gruppi politicamente irresponsabili. Si domandava, infine, se il sistema parlamentare fosse «il termine finale della storia» o se rappresentasse una «fase passeggera» o addirittura un «punto di fermata» del sistema politico. Nella Teorica Mosca, a differenza dei costituzionalisti moderati, non criticava il cosiddetto parlamentarismo, ma lo stesso sistema parlamentare, il che significava mettere in questione non solo un mito ma uno dei cardini della teoria politica del liberalismo risorgimentale. Successivamente Mosca ritornò su alcuni giudizi troppo radicali sul sistema parlamentare e divenne un deciso sostenitore di esso.
Anche Pareto si occupò del sistema dei partiti esistente in Italia negli anni Settanta in relazione alla crisi del parlamento, la cui causa era per lui la mancanza di un «grande partito conservatore liberale». Negli anni Ottanta, Pareto ingaggiò una battaglia per una riforma elettorale di segno proporzionale, che vedeva collegata con una riforma del sistema politico e dello stesso modello di sviluppo dello «stato industriale» italiano, così come esso prese forma tra la fine degli anni Settanta e il 1887, anno della svolta doganale. In questi stessi anni, infatti, Pareto si impegnò in un’accanita campagna liberista che lo portò a candidarsi alle elezioni politiche nel 1880 e nel 1882, con la Destra. Inasprendosi la sua polemica anti-protezionista, abbandonò il campo moderato e si avvicinò alle posizioni dei radicali, in quanto a questi ultimi è accomunato dalla fede liberista, e ritenendo che «il governo di De Pretis [fosse stato] il più corruttore che mai sia esistito in Italia».
Il saggio sul Sistema parlamentare in Italia, a differenza di altri suoi articoli di polemica politica, ha un carattere scientifico e si può dire sia stato uno dei primi tentativi di riflessione sul modello italiano. In esso, Pareto adottò il metodo analogico-sperimentale che chiamò «fisiologia degli organismi sociali», per individuare le caratteristiche del nostro sistema parlamentare, che erano: la totale assenza dei partiti politici; l’enorme estensione delle funzioni dello Stato, il quale annullava l’iniziativa privata, e la scarsa indipendenza economica dei cittadini. Secondo Pareto, «i partiti italiani esistono solo di nome: ed i nomi servono solo a designare gruppi di uomini, uniti tra di loro da precisi interessi personali […] È impossibile trovare tra questi partiti una reale differenza sui problemi sociali e politici cui si deve confrontare la nazione». Facevano eccezione soltanto i partiti «estremi», di cui soltanto uno era realmente attivo, quello socialista; il Partito repubblicano aveva, tuttavia, un atteggiamento astensionista e quello clericale si auto-escludeva dalla scena politica. Pareto, come del resto la maggioranza degli osservatori politici a lui contemporanei, esprimeva preoccupazione per la «confusione» dei partiti a partire dall’avvento al potere della Sinistra, che aveva determinato la crisi del sistema parlamentare. A Pareto non sfuggiva il carattere europeo e mondiale di questa crisi e ne coglieva anche il sincronismo. Egli accostava il fenomeno del «trasformismo» a quello degli «opportunisti» in Francia e osservava come mentre in Francia compariva questo fenomeno, in Inghilterra scomparivano le vecchie distinzioni tra whigs e tories.
Anche le sue speranze in una riforma proporzionalista a garanzia delle minoranze e nell’allargamento del suffragio vennero meno, dopo le deludenti prove della legge elettorale del 1882. Il ritorno al collegio uninominale aveva dimostrato che non vi erano stati notevoli cambiamenti. D’altra parte, egli non credeva nella autoriforma dei partiti e citava in proposito il tentativo di Jacini di costituire un «partito conservatore cattolico»; quello di Zanardelli per una differenziazione tra un partito liberal-progressista e uno conservatore e infine quello di stabilire un’alleanza tra radicali ed Estrema Sinistra (Patto di Roma del 1890). Se la caratteristica comune della crisi dei partiti in Europa era la perdita delle differenziazioni ideologiche, le difficoltà che incontrava il sistema italiano negli anni Ottanta dell’Ottocento erano imputabili anche a cause intrinseche al sistema. La prima di queste cause dipendeva dal fatto che la classe politica italiana aveva uno standard professionale e morale inferiore a quella di altri paesi europei e degli Stati Uniti. Non è che non si possa cambiare di opinione – osserva Pareto – ma nel caso dei politici italiani questo dipendeva quasi sempre dal tornaconto economico o da vanità personale e, ciò che era più grave, l’elettorato italiano considerava come un fatto normale che i propri rappresentanti «voltassero gabbana». In realtà, erano gli stessi elettori che «voltavano gabbana» ed è perciò che molti deputati erano per principio filogovernativi. Le stesse crisi ministeriali, così frequenti in Italia, raramente portavano a cambiamenti nell’équipe ministeriale; molto spesso si trattava di ristrutturazioni del ministero in cui venivano cooptati esponenti della vecchia opposizione. Da queste ragioni discendeva per Pareto la crisi del sistema parlamentare.
Gli esponenti della scuola «elitaria», con più o meno grandi riserve, ammettevano però un ruolo del partito in un sistema rappresentativo e consideravano che il «parlamentarismo» rientrasse nella fisiologia del funzionamento di un sistema parlamentare. Ciò che caratterizza, invece, il dibattito di quegli anni è anche l’emergere di una corrente antipartitica e antiparlamentare molto forte, la cui voce finì per sovrastare i difensori del sistema rappresentativo. Sarebbe troppo lungo ricostruire nei dettagli questo dibattito, vorrei riferirmi soltanto a tre personalità che costituiscono un punto di riferimento per l’opinione pubblica di ispirazione conservatrice e reazionaria e successivamente per il nazionalismo antidemocratico. Si tratta di personalità diverse: uno è un grande letterato che fornisce un’interpretazione dell’Italia post-unitaria come tradimento degli ideali del Risorgimento e come fallimento di un’intera classe dirigente e che vede già nel processo di unificazione quei segni che porteranno al decadimento del costume pubblico dell’Italia liberale. L’altro è un saggista molto fortunato, che sarà fonte di ispirazione per quegli scienziati della politica e costituzionalisti che elaboreranno teorie elitarie, e il terzo sarà una delle fonti del pensiero antidemocratico.
Il primo è Alfredo Oriani, che, proprio in quegli anni, scrisse La lotta politica in Italia, in cui fa risalire alla storia d’Italia le tare del sistema politico a lui contemporaneo ed invoca una riscossa della coscienza nazionale. Per quanto i nazionalisti ne fecero, poi, un loro precursore, Oriani fu anche una fonte di ispirazione per personalità democratiche come Gobetti. Il secondo fu il napoletano Pasquale Turiello, autore di Governo e governati in Italia, che uscì nel 1882 presso Zanichelli, con una seconda edizione, ampliata, ristampata nel 1889-90 dedicata a Giustino Fortunato. Nel proemio di questa edizione, Turiello sviluppava un ragionamento secondo cui «la decadenza della nostra forma di governo parlamentare, [aveva] fatto tanto cammino, che essa impensierisce quasi tutti gli imparziali; cioè tutti quelli che non avrebbero bisogno, per valer qualcosa, di questa forma che ha preso tra noi il governo rappresentativo». Nel 1893 scrisse Il Parlamentarismo in Italia, che costituisce uno dei più sistematici attacchi al regime parlamentare e in Secolo XIX, pubblicato postumo nel 1902, Turiello scriveva che: «Oggi si può ben dire che il governo parlamentare, nella sua forma classica (che è il predominio dello stato d’assemblea), non abbia avuto vita rigogliosa se non per pochi lustri […] Nel Continente questa forma di governo è riuscita la più imprevidente e la più costosa». Il terzo fu Scipio Sighele (1868-1913), che si pose su di un terreno decisamente antiparlamentare, con il suo pamphlet dal titolo Contro il Parlamentarismo. Saggio di psicologia, pubblicato a Milano nel 1895. Sighele vedeva nei partiti e nel governo delle assemblee il prevalere di istinti collettivi che portavano inevitabilmente alla disgregazione della società e, quindi, secondo logica sarebbe stato necessario tendere a un «dispotismo illuminato».
Con la svolta liberale degli inizi del Novecento, l’antiparlamentarismo assunse una diversa curvatura. È vero che, da una parte, si continuò ad usare la categoria del trasformismo anche nei riguardi di Giolitti (vedi la «Voce», cui collaborarono – come è noto – oltre che Prezzolini, anche Croce, Salvemini e Amendola e, per certi versi, la «prima» «Unità» di Salvemini), ma la grande novità consistette nella formazione di movimenti che non si limitavano a criticare il funzionamento della democrazia parlamentare, ma che furono antiparlamentari, in quanto antidemocratici, un solco entro il quale si collocarono la corrente di destra del nazionalismo, i socialisti-rivoluzionari e i Fasci di combattimento.
Bibliografia
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