Partito liberale italiano – La fine
di Franco Chiarenza
Nel 1972, in seguito ai deludenti risultati elettorali (il Pli raccolse il 3,8per cento dei voti, due punti in meno delle elezioni precedenti) Giovanni Malagodi si dimise da segretario generale del partito; era infatti fallito il tentativo di aggregare intorno al Pli una coerente opposizione democratica di centro destra ai governi di centro sinistra, su cui Malagodi aveva caratterizzato la propria strategia. Una strategia che aveva avuto inizialmente un certo successo, quando, subito dopo l’entrata dei socialisti nel governo, il Pli aveva conseguito un risultato elettorale soddisfacente, raggiungendo il massimo storico del 7 per cento.
Alla segreteria Malagodi seguì quella di Agostino Bignardi, espressa dalla stessa maggioranza che si era riconosciuta nella leadership malagodiana; esponente dell’imprenditoria agraria, Bignardi proveniva dalla destra del partito e veniva considerato quindi più disponibile a possibili intese con il MSI, che proprio in quegli anni tentava una trasformazione moderata per intercettare segmenti sociali e politici ex monarchici o comunque scontenti della politica della Democrazia cristiana. Bignardi aveva infatti guidato un’opposizione interna da destra, ritenendo possibile una grande alleanza con monarchici e movimento sociale in una «grande destra» caratterizzata da una intransigente opposizione ai comunisti ed ai socialisti. Queste posizioni non erano condivise dai maggiori esponenti del partito (tra cui Gaetano Martino e Guido Cortese) e dallo stesso Malagodi, il quale mantenne sempre ferma la convinzione che le matrici antifasciste del partito rendessero impossibile qualunque intesa col MSI, e determinarono all’interno del partito forti tensioni con la sinistra, in particolare nel movimento giovanile (GLI). I risultati politici ed elettorali della segreteria Bignardi furono disastrosi: le elezioni del 1976 videro scendere il Pli al minimo storico dell’1,3 per cento, col rischio persino di restare escluso dal Parlamento. Bignardi fu costretto a dimettersi, mentre lo stesso Malagodi si fece mediatore per un passaggio della segreteria alla sinistra del partito.
Divenne così segretario Valerio Zanone, il quale propose subito, sin dal congresso di Firenze del 1981, una strategia di avvicinamento al centro-sinistra, fondata anche sulla constatazione dell’avvenuto mutamento del partito socialista, il quale, con la guida di Bettino Craxi, si era ormai definitivamente collocato su posizioni analoghe alla socialdemocrazia europea; un disegno politico che si rivelò vincente consentendo il rientro del Pli in un governo presieduto da Giovanni Spadolini con una maggioranza «pentapartito» (Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli), che per oltre un decennio avrebbe rappresentato sostanzialmente la piattaforma dei governi che si sarebbero alternati fino al crollo di «tangentopoli» negli anni ’90. L’operazione politica condotta da Zanone ebbe successo anche perché si incrociò con lo scontro durissimo che si verificò in quegli anni all’interno della Democrazia cristiana tra i sostenitori dell’apertura di un dialogo con i comunisti (Moro, De Mita, Galloni, Zaccagnini), e gli anticomunisti irriducibili (Andreotti, Forlani, Colombo, Piccoli). La vittoria di questi ultimi, con l’approvazione del famoso «preambolo Donat Cattin» al documento conclusivo del congresso democristiano del 1980, aveva sancito per il momento l’archiviazione dei tentativi di «compromesso storico» e conseguentemente aveva aperto la possibilità di riaprire le porte del governo al partito liberale.
Non si trattava di una questione marginale; la posizione «centrista» nelle scelte di governo corrispondeva a una necessaria coincidenza con gli equilibri interni del Pli, senza la quale sarebbe fatalmente venuto meno il legame che teneva unite le sue differenti «anime». Da sempre infatti, sin dalla sua ricostituzione dopo la seconda guerra mondiale, convivevano nel partito diverse correnti che dal punto di vista ideologico possono ricondursi sinteticamente a due posizioni dottrinali, entrambe sostenute da robuste derivazioni storiche e filosofiche: quella «progressista» e l’altra «conservatrice». Il punto di rottura tra queste diverse concezioni – che altrimenti avrebbero potuto convivere attraverso un confronto dialettico senza compromettere l’unità del partito in un paese, come l’Italia di allora, condizionato da ideologie lontane dal liberalismo – è sempre stato rappresentato dalla questione delle alleanze. Tutte le scissioni e le ricomposizioni totali o parziali che hanno caratterizzato la storia dei liberali italiani nella prima repubblica hanno sempre trovato il loro innesco esplosivo nella scelta delle alleanze.
Ma anche il ritorno al governo non offrì al Pli quella boccata d’ossigeno che i suoi dirigenti si ripromettevano e speravano; le sorti elettorali del partito continuarono a veleggiare intorno al 2 per cento e l’apporto parlamentare dei liberali fu sempre meno determinante. La visibilità politica dei liberali continuò ad essere piuttosto opaca; la maggioranza dell’elettorato moderato non trovava motivi sufficienti per preferire il Pli all’asse che si era costituito tra democristiani e Psi, trasformato ormai in un partito di sinistra moderata.
Nel 1985, malgrado l’indiscussa popolarità di cui godeva nel partito, Valerio Zanone si dimise dalla segreteria del partito e un’eterogenea maggioranza portò al suo posto un avvocato penalista genovese, da sempre esponente della destra liberale, Alfredo Biondi. La linea politica di Biondi peraltro non si discostò molto, almeno nei fatti, da quella portata avanti da Zanone prima di lui, se non per una maggiore attenzione alle trasformazioni che cominciavano a interessare anche l’estrema destra (in parallelo a quelle che, negli stessi anni, si registravano nell’estrema sinistra).
La segreteria Biondi comunque non durò a lungo; la sua maggioranza non resse l’urto dell’azione contraria di Zanone che, nel congresso di Genova del 1986, portò alla segreteria del partito Renato Altissimo, un esponente piemontese molto vicino agli ambienti imprenditoriali (essendolo lui stesso). La strategia politica di Altissimo si caratterizzò soprattutto per la ricerca di un asse preferenziale con Bettino Craxi (cosiddetto «lib-lab»), anche al fine di contenere le pretese egemoniche della Dc. Si trattò di una linea politica che dette anche alcuni frutti concreti, consentendo al partito di migliorare leggermente il proprio consenso elettorale (2,8 per cento) e attivando un’attenzione alternativa alla Dc nel mondo imprenditoriale del centro nord.
Purtroppo Altissimo e Zanone (che manteneva la presidenza del partito) non compresero a pieno che sul sistema politico italiano, e in particolare sui partiti di governo, stava abbattendosi una tempesta provocata indirettamente dal mutamento della situazione internazionale dopo il crollo del muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica nel 1991. Le dinamiche politiche ed economiche compresse da un cinquantennio di condizionamenti internazionali non avevano infatti consentito ricambi significativi nelle maggioranze di governo, ma non si considerò che la crisi del comunismo avrebbe provocato un’ondata di riflusso la quale, paradossalmente, invece di colpire il Pci, avrebbe travolto gli equilibri politici fondati su quello che Alberto Ronchey aveva definito il «fattore K», cioè la necessaria esclusione dal governo di un partito che aveva come proprio punto di riferimento ideologico un paese nemico delle alleanze su cui il governo italiano fondava la sua credibilità interna e internazionale. Il partito comunista dovette rapidamente porre all’ordine del giorno una propria trasformazione radicale, ma gli altri partiti «costituzionali» restarono travolti prima ancora di rendersi conto di ciò che stava avvenendo.
La tempesta di «tangentopoli» nel 1994 investì anche il partito liberale; non tanto, o non soltanto per il coinvolgimento nelle inchieste della magistratura milanese di alcuni suoi esponenti, tra cui il segretario nazionale Renato Altissimo e il potente ministro della sanità Franco De Lorenzo, ma soprattutto perché il rimescolamento di carte provocato dalla fine della guerra fredda comportava il venir meno degli equilibri politici consolidati sin dal dopoguerra e trascinava con sé la tradizionale collocazione di centro del partito.
Venuto meno il centrismo (sia pure nella versione del centro sinistra) negli equilibri parlamentari e di governo e subentrando un sistema tendenzialmente bipolare – come quello che di fatto ha caratterizzato la seconda repubblica – il partito liberale non poteva evitare una spaccatura che ne avrebbe comunque determinato la fine.
Di fatto, sia pure con molte convulsioni, è quello che è accaduto.
Il 6 febbraio 1994 si svolse a Roma in un clima di drammatica confusione l’ultimo congresso del partito, dopo che alcuni mesi prima (giugno 1993) Renato Altissimo si era dimesso dalla segreteria nazionale ed era stato eletto al suo posto Raffaele Costa, esponente della destra liberale tradizionale. Cominciò allora in un clima di grande anarchia, che rispecchiava d’altronde gli spasmi della prima repubblica ormai in coma, la diaspora dei liberali che si erano storicamente riconosciuti nel partito. In estrema sintesi e con qualche necessaria approssimazione possiamo distinguere tre diversi percorsi: quello di Zanone e dei suoi amici, i quali dettero vita a un’effimera Unione Democratica nel 1993, per poi confluire nelle tortuose iniziative di Mario Segni, con l’intenzione di aprire una nuova stagione di confronto tra il liberalismo e la sinistra (resa possibile dal crollo del muro di Berlino e, con esso, di tutte le utopie comuniste); quello di altri liberali come Paolo Battistuzzi, direttore dell’«Opinione», che volsero la loro attenzione al progetto di «Alleanza Democratica», attraverso il quale alcuni uomini politici di diversa provenienza come Willer Bordon, Giorgio Bogi e Ferdinando Adornato cercavano di costituire una piattaforma laico-socialista in grado di condizionare l’evoluzione del sistema politico; infine Raffaele Costa, Alfredo Biondi e una corposa pattuglia di liberali di destra (Unione di Centro) intenzionati a mantenere l’opzione di un rigoroso anticomunismo esteso anche ai successori del vecchio Pci. Raffaello Morelli, storico esponente della «sinistra» liberale, fu l’unico a raccogliere la bandiera – ormai lacerata – del partito liberale immediatamente dopo il suo scioglimento e a rilanciarla attraverso la Federazione dei Liberali (cui aderì nel 1995 anche Valerio Zanone) nella speranza, dimostratasi vana, di rappresentare un punto di riferimento per la diaspora liberale nel progetto dell’«Ulivo» che si era concretizzato nel 1995 al fine di costituire un polo di centro sinistra alternativo alla coalizione di centro destra che si era formata intorno a Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini.
Nessuna di queste opzioni ha consentito la sopravvivenza di un forte punto di riferimento liberale.
Erano anni, quelli del crollo quasi contemporaneo degli equilibri postbellici in Italia e nel mondo, in cui il venir meno delle ideologie socialiste (non soltanto nella versione estrema del comunismo) e dei variopinti progetti di «terze vie» tra economia di mercato e pianificazione dirigistica, imponevano una rivisitazione del liberalismo anche a coloro che ne erano stati fieri avversari.
In tali circostanze, i vecchi liberali asserragliati nel partito di via Frattina (e anche quelli che ne erano al di fuori) ritennero fosse venuto il loro momento; ma le distinzioni ideologiche dei diversi modi di essere liberali, le rivalità personali, e, ancora una volta, la questione fondamentale delle alleanze, impedirono la realizzazione di un progetto unitario da collocare al centro della nuova geografia politica, perdendo così la possibilità di condizionare, da una posizione di autonomia liberale senza aggettivi, la contrapposizione bipolare che andava affermandosi. Venne meno in sostanza l’opportunità di concretizzare anche in Italia un modello politico simile a quelli che si erano realizzati in Germania, in Gran Bretagna e in altri paesi europei.
In questo contesto un gruppo di intellettuali provenienti dai centri culturali più prestigiosi del liberalismo (come il Centro Einaudi di Torino), si fecero promotori di un progetto di fondazione della seconda repubblica incentrato sul rilancio della dottrina liberale nella sua versione più ortodossa e «liberista» («Buongoverno») che, dopo varie incertezze e percorsi non sempre coerenti, rappresentò la base programmatica del «partito liberale di massa» portato avanti da Silvio Berlusconi dal 1994 in poi: tra loro Antonio Martino, Giuliano Urbani, Marcello Pera, Carlo Scognamiglio, Angelo Petroni, i quali fornirono la prima intelaiatura intellettuale al nascente movimento di «Forza Italia». Si trattava di un progetto ambizioso che si proponeva una vera e propria «rivoluzione culturale» in cui i liberali avrebbero dovuto giocare un ruolo essenziale nel rilancio dell’economia di mercato e nel ridimensionamento del ruolo dello Stato, fondando il suo consenso sull’appoggio dei ceti medi e dell’imprenditorialità, soprattutto piccola e media, sempre più rappresentativa del tessuto produttivo del Paese e in cerca di nuovi punti di riferimento dopo la scomparsa della Democrazia cristiana dall’orizzonte politico.
Fu questo il progetto che inizialmente Berlusconi pose a fondamento della sua discesa in politica, facendosi garante della sua realizzazione a fronte di alleati che non offrivano – in quel momento – credibili garanzie liberali (il Movimento sociale di Fini e la Lega di Umberto Bossi).
Sull’altro versante, quello di centro-sinistra, si collocava un progetto alternativo, impersonato soprattutto da Valerio Zanone, che aveva come obiettivo la rimozione di ogni pregiudiziale anti-liberale da parte della sinistra, ormai obbligata a giocare nel campo definito dalla cultura liberale occidentale, e la creazione di un grande schieramento in grado di rinnovare, anche dal punto di vista morale, la politica e l’economia di mercato, offrendo alla coalizione di centro sinistra come piattaforma di convergenza la tradizione liberale più sensibile ai problemi sociali.
Si tratta naturalmente di una semplificazione, ma quel che è certo è che entrambi i progetti sono falliti. Nel centro destra, all’ispirazione originaria di ampio respiro è subentrata, soprattutto dopo la vittoria elettorale del 2008, una miscela di populismo, clericalismo, clientelismo ricavato dall’esperienza democristiana, insofferenza ai vincoli istituzionali, avversione alla magistratura (giustificata solo in parte da ostilità pregiudiziali di alcuni magistrati), nella quale dell’originaria connotazione liberale è rimasto poco; nel nuovo partito nato dalla fusione di «Forza Italia» e «Alleanza Nazionale» («Popolo delle libertà») hanno continuato a militare i «progettisti» di Forza Italia, ma sempre meno influenti nelle scelte politiche del leader, e, forse anche per questo, sostanzialmente emarginati dalle più significative posizioni di potere.
Ma a sinistra è andata peggio. Non soltanto i «consiglieri» liberali sono stati messi da parte, ma sono riemerse alleanze con gruppi estremisti di tradizione dirigistica, non abbastanza forti da imporre scelte di governo a Romano Prodi dopo la vittoria elettorale della coalizione di centro-sinistra nel 2006, ma sufficienti per esercitare un sostanziale diritto di veto, che ha fatto arretrare, anche come immagine culturale, quella che avrebbe dovuto essere un’alternativa liberal democratica di sinistra.
I partiti che hanno mantenuto il nome di «liberali» e che sono rimasti presenti sulla scena politica sono sostanzialmente due: la Federazione dei Liberali (diretta da Raffaello Morelli), caratterizzata da un collegamento organizzativo e ideologico con l’Eldr (Partito liberale europeo) e con l’Internazionale Liberale, tendenzialmente vicina al centro-sinistra; e un nuovo partito liberale fondato da Stefano De Luca nel 2004 (con Renato Altissimo, Attilio Bastianini, Savino Melillo), che, dopo un’iniziale adesione al centro-destra, è andato ricollocandosi in una posizione di centro.
Bibliografia
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