Pittura e Risorgimento
di Gabriele Borghini
La costanza e la forza con le quali la pittura italiana ha affrontato il tema del Risorgimento nazionale, e inoltre la quantità e qualità della produzione in uno spazio cronologico che va dal 1848 al 1870 e oltre fino a sfiorare la fine del secolo e anche a traboccare nel successivo, ha prodotto il costituirsi di un vero e proprio genere che può andare sotto il nome riassuntivo di pittura risorgimentale, ma che in realtà riunisce in sé i termini della pittura battaglistica e militare, della pittura di storia, della pittura encomiastica e ritrattistica, e anche i richiami ad altre sintassi codificate non escluse quelle dell’intimismo famigliare, del paesaggio eroico, e perfino dell’illustrazione popolare.
Se volessimo trovare dei precedenti alla cospicua esperienza figurativa che rilega i codici delle «militaria» e della storia dovremmo, senza andare troppo lontano nel tempo, citare quella pittura, nella massima parte francese, ma senza dimenticare Goya (Il 3 maggio 1808, 1814), che tra Sette e Ottocento, in maniera a volte grandiosa e comunque e sempre eroica, aveva affrontato i temi della storia contemporanea.
E tra questi in primis l’epopea napoleonica, ricavandone materia per la formulazione di uno straordinario «panorama» dove vittoriosi campi di battaglia, distese innevate sulle quali muoiono cavalli e dragoni sotto cieli lividi, fuochi notturni d’accampamento, fumi d’artiglieria, balenio di sciabole, gloria e disfatta, si susseguono come in una striscia continua che commenta, a volte quasi in diretta a volte sul filo della memoria e della ricostruzione, una saga corale la quale, nel caso specifico, ruotava intorno a un indiscusso stratega e protagonista politico.
Raccontare «con esattezza, anche documentaria, quanto accaduto» [A. Villari 2009] su quei campi di battaglia o nei luoghi del potere sembrerebbe intento comune di tutta quella mitologizzazione così come venne affrontata in un ventennio di pittura dedicata alle campagne militari e alle gesta di Bonaparte, e proprio la quantità di documenti e il carisma tematico con cui quella trasmissione per immagini si rivolse alla memoria collettiva creò un genere figurativo le cui regole linguistiche per lungo tempo saranno accettate e riproposte dall’arte occidentale.
Si determinerà così una precisa specializzazione che vedrà all’opera pittori particolarmente versati nel genere battaglistico, tra i quali Antoine-Jean Gros (Napoleone sul campo di battaglia di Eylau, 1808), Horace Vernet, e al contempo veri e propri indagatori dei fatti che, quasi sempre riproposti a distanza di tempo dal loro accadimento, avranno avuto bisogno di documentazioni particolari se non addirittura di appunti presi sul campo.
Qualora si fossero costituite, come era stato per il caso francese, le condizioni favorevoli allo sviluppo di questo genere e cioè l’avvertita necessità di documentare, illustrare, glorificare, un passaggio storico di particolare rilevanza per un popolo, una nazione, un contesto geopolitico, oppure un grande rivolgimento sociale, in un determinato clima culturale come quello romantico o post romantico, e comunque anteriore alla nascita del cinema, al maturarsi della fotografia giornalistica, alla rivoluzione tecnologica, la strada era aperta.
Sarà questa la specificità del frangente italiano, laddove la grande epopea risorgimentale e unitaria, fin dal suo inizio, avrà avuto bisogno di supporti visivi che riuscissero nel medio termine non solo a raccontare, e in una maniera iconica più diretta e battente rispetto al medium letterario o poetico, la complessità di una storia non di conquista ma di liberazione, la quale si realizzava per gradi e tra ombra e luce, ma anche prontamente a rendere già mitologiche quelle gesta man mano che avvenivano in scenari differenziati e con protagonisti diversi, però con un comune denominatore politico e sentimentale quale era quello libertario.
Nascerà in questo modo la figura dei soldati pittori i quali tanto peso avranno nel costituirsi, per quanto riguarda il tema del Risorgimento italiano, di un «genere di dipinti che rappresentano parte essenziale della nostra storia nazionale, del nostro, è il caso di dirlo, paesaggio nazionale», per usare le parole di Giovanni Spadolini [1987], e i quali hanno contribuito all’azione unitaria attraverso «l’efficacia e l’immediatezza dell’immagine, talora più formativa del testo scritto in un periodo di elevato analfabetismo».
Con questo non si vuole dire che tutti i pittori in quel momento siano stati direttamente coinvolti sui campi di battaglia, anche se di questi l’elenco è lungo e annovera nomi di indubbio rilievo artistico, ma al contrario come la non partecipazione o una presenza limitata non significassero defezione qualunquista, quando ugualmente si poteva dare un grande apporto alla causa esercitando armi di diversa natura ed egualmente efficaci, essendo insomma militanti nella pittura, pittori soldati.
Tra gli arruolati, i combattenti, i patrioti, si potrebbero ad esempio citare tra i tanti, attingendo a un dettagliato elenco biografico pubblicato da Letizia Di Maio e selezionando fra quelli forse più noti a un pubblico di non addetti ai lavori: Carlo Ademollo (1825-1911), che, volontario nel 1859, eseguirà studi dal vero dei luoghi delle battaglie di Solferino e San Martino ai quali attingerà per la sua immediatamente futura produzione in merito; Odoardo Borrani (1833-1905), che nel 1859 si arruola volontario con Signorini e Cecioni; Vincenzo Cabianca (1827-1902), che combatterà fin dal 1849 a Bologna e che comunque sarà sempre in prima fila nelle attività patriottiche; Ippolito Caffi (1809-1866) che partecipò attivamente alla rivoluzione veneziana del 1848 e di poi continuò per tutta la vita la sua partecipazione alle guerre d’indipendenza, fino a perdere la vita nella battaglia di Lissa del 20 luglio 1866; Michele Cammarano (1835-1920), che «dagli avvenimenti vissuti come patriota garibaldino trae ispirazione per dipinti celebrativi di fatti delle guerre d’indipendenza in studi e in grandiose composizioni di soggetto militare dipinte dopo il 1870»; Sebastiano de Albertis (1828-1897), che nel 1848 è sulle barricate delle cinque giornate di Milano, poi volontario di Garibaldi nel 1859, 1860, 1866; Domenico Induno (1815-1878), presente sulle barricate milanesi del ’48 ed esule in Toscana fino al 1859; Gerolamo Induno (1827-1890), combattente nelle Cinque Giornate di Milano, che partirà volontario per la difesa della Repubblica romana nel 1849. Nel 1855 sarà bersagliere in Crimea, dove avrà modo di eseguire dal vero molti appunti grafici, come farà del resto anche come Cacciatore delle Alpi nell’esercito garibaldino nel 1859; Filippo Palizzi (1818-1899), presente nella rivolta napoletana del maggio 1848; Telemaco Signorini (1835-1901), che partecipa con Borrani alla campagna militare del 1859 «arruolandosi volontario nell’artiglieria toscana ma senza poter prendere parte ad azioni belliche» [Di Maio 1987] bensì facendo tesoro di questa esperienza per i temi militari sviluppati nel 1861.
Ai sopra citati si potrebbero aggiungere fra i più noti Luigi Mussini, Nino Costa, Amos Cassioli, il Toma, il Sernesi, il De Tivoli, «un mondo, una stagione. Un comune impegno al servizio di quella certa idea dell’Italia che collega il primo al secondo risorgimento, che, dalle barricate milanesi delle Cinque Giornate, dalle ville della Repubblica Romana, giunge fino a noi» [Spadolini 1987].
L’elencazione più o meno didascalica degli artisti che trovarono un loro fattivo coinvolgimento nelle guerre d’indipendenza non potrebbe, comunque, essere illuminante in modo esaustivo sulle ragioni profonde del fenomeno se per lo meno non se ne prendano in considerazione altri fattori che definirei politici e anche sociali, i quali, al di là degli idealismi individuali, contribuirono a creare il terreno solido sul quale una siffatta fioritura troverà le sue ragioni profonde.
Intanto pare opportuno sottolineare come una vera e propria coscienza politica del rapporto tra arte e storia dell’indipendenza nazionale avvenga in modo istituzionale soltanto a partire dal 1859, anno in cui viene indetto il «memorabile», come lo chiama Anna Villari, concorso bandito da Bettino Ricasoli, allora ministro degli interni del governo provvisorio della Toscana, il quale «affiancato dal ministro dell’istruzione Ridolfi, volle stabilire un programma […] che celebrava la riconquistata indipendenza, dove emergono due argomenti di storia antica: «Mario vincitore dei Cimbri» e «Federico Barbarossa vinto dalla Lega lombarda»» [A. Villari 2007]. E non dimentichiamo che uno dei vincitori dei temi proposti, che comprendevano anche eventi di storia italiana moderna e ritratti di quegli italiani illustri «che promossero con gli scritti il nazionale risorgimento» sarà Giovanni Fattori con la «Battaglia di Magenta». «Dove il sentimento nazionale appare trasposto nella nuova espressione pittorica della «macchia» […] nei suoi contrasti, nella sua essenza, lontano da intenti celebrativi e direttamente partecipato» [Spadolini 1987].
L’episodio di Magenta si era verificato il 4 giugno del 1859 e già nell’ottobre di quell’anno sul «Monitore toscano», che aveva annunciato il concorso nel settembre, apparve l’indicazione del suo inserimento tra i quattro eventi militari della prima e seconda guerra d’indipendenza con i quali i pittori si dovevano cimentare, oltre a Curtatone, del 1848, Palestro, del 30-31 maggio 1859, San Martino, del 24 giugno dello stesso anno.
Testimonianze pittoriche quasi in presa diretta, a parte Curtatone, furono presentate nel 1860 in forma di cartone o di bozzetto, ma non per questo meno veritiere, tanto più che la definizione esatta dell’episodio da illustrare in maniera compiuta avvenne successivamente. Per «Magenta» il tema del carro delle suore infermiere fu meglio precisato nel marzo 1860, permettendo in questo caso a Fattori, che era risultato vincitore ma che non era stato in prima persona sui campi di battaglia, di fare un sopralluogo in loco nell’aprile del 1861, per poi presentare il suo dipinto, ancora non finito, all’Esposizione di quell’anno [Bon 1984].
Comunque ad aprire politicamente il tema dell’Italia Unita, a stimolare il risveglio delle coscienze, prima ancora che la pittura, erano state la letteratura e la poesia, il cui compito non si esaurirà nel momento aurorale del protorisorgimento, ma percorrerà le strade libertarie del paese arrivando fino alla conclusione di quel tracciato, e addirittura accompagnandolo con strofe adeguate al gradiente popolare che rese febbrili quegli accadimenti.
«La letteratura assume nel periodo risorgimentale una funzione eminentemente politica quando agisce come elemento costitutivo nella formazione intellettuale e soprattutto quando elabora e trasmette valori e, infine, quando appare lo strumento principale per fissare il ricordo, selezionare una memoria rivolta al ceto dei colti ma anche a una società civile che va educata e formata all’interno del nuovo Stato nazionale». Questa definizione di Mario Ricciardi potrebbe agevolmente adattarsi alla produzione figurativa del Risorgimento, pittura in testa, ma tenendo bene in conto il primato cronologico del pensiero poetico che per lo meno a partire dai Sepolcri si porrà come strumento «politico», secondo la definizione dello stesso Foscolo, per arrivare al Leopardi della canzone All’Italia laddove va «precipitando il tema umanistico-letterario in una presenza immediata del soggetto eroico sconfitto» [Ricciardi 1987]:
nessun pugna per te? Non ti difende
nessun de’ tuoi? L’armi, qua l’armi: io solo
combatterò, procomberò sol io.
Il tema di una guerra contro l’oppressione straniera e la suddivisione territoriale sarà anche nelle corde di Manzoni, e quel popolo che «repente si desta» del Marzo 1821 certo avrà fatto scorrere più velocemente il sangue nelle vene ai patrioti nostrani, alla futura gente «italiana» che giurava «non fia loco ove sorgan barriere/ tra l’Italia e l’Italia, mai più», a maggior ragione in quanto l’ode manzoniana sarà pubblicata solo nel 1848. «Se è vero», come dice Massimiliano Mancini [2010], «che sono stati i testi letterari precipuamente romantici a plasmare i temi, le immagini, gli stilemi poi ricorrenti del «discorso risorgimentale», a fornire insomma, le parole all’impegno ideologico, politico, militare dei patrioti italiani, bisogna ammettere che l’ode manzoniana ha assolto pienamente a questo ruolo».
Manzoni, dedicando la sua ode a Teodoro Körner, morto combattendo contro Napoleone, identifica la figura del poeta soldato, così come lo «sarebbero stati gli italiani Alessandro Poerio e Goffredo Mameli, morti rispettivamente nel 1848 e nel 1849, difendendo uno la Repubblica di San Marco e l’altro la Repubblica romana» [Mancini 2010].
In effetti nello scenario manzoniano-milanese si realizzerà quello che si potrebbe chiamare il prologo del concorso Ricasoli, e cioè l’Esposizione del 9 settembre 1859 all’Accademia di Brera, in una Milano ormai liberata e in attesa di un generale rinnovamento e di una maggiore tenuta democratica. «Infatti», così come ha sottolineato Fernando Mazzocca, «la rassegna era stata ordinata, diversamente dal passato, non dalla giuria accademica, ma più democraticamente da un organismo autogestito dagli artisti stessi, la Commissione straordinaria, formata tra gli altri da due pittori soldati come Domenico Induno ed Eleuterio Pagliano, che consentì di esporre pure le opere degli anni precedenti, conferendogli così anche il carattere di una retrospettiva storica, quello che dominerà poi, in una dimensione tanto più vasta, a Firenze del 1861, la prima esposizione nazionale dell’Italia unita» [Mazzocca 2010).
Proprio all’Esposizione milanese il grande protagonista sarà Gerolamo Induno con il monumentale La battaglia della Cernaja, dipinto nel 1857, opera che metteva a frutto l’esperienza personale dell’artista, il quale nel 1855 aveva partecipato, al seguito dell’esercito sabaudo e del generale La Marmora, alla guerra di Crimea, con il compito di testimoniare visivamente una campagna militare che rivestiva per il Piemonte un significato di grande rilevanza internazionale.
Dai disegni, schizzi, bozzetti, elaborati in questa occasione, nascerà il monumentale quadro che in quel momento pose Gerolamo Induno al vertice di quella pittura di storia contemporanea, per la quale Vernet, anche lui presente in Crimea (La presa del forte di Malakoff in Crimea, 1858), aveva gettato le basi formali. Il grande dipinto risulta «quasi un «ritratto» di battaglia, con i volti dei protagonisti affiancati a quelli degli anonimi soldati, completato dalla precisione topografica della descrizione degli scontri, arbitrariamente «tagliato», inoltre, ai lati, a cercare quello che oggi chiameremmo un «effetto fotografico»; a discapito di più tradizionali equilibri compositivi e a favore di un maggiore effetto di realtà» [Regonelli 2010].
D’altra parte proprio Gerolamo Induno era stato l’autore nel 1850 di uno dei più significativi saggi sull’orrore della guerra, non vista con l’ottica eroica ed epica dei campi di battaglia, ma colta in un momento di maggiore intimismo, anche se non meno mortifero e straziante. Il quadro con una Trasteverina uccisa da una bomba, presentato all’Esposizione annuale di Brera nello stesso anno della sua esecuzione, è il risultato altissimo dell’esperienza patriottica di Induno quale partecipante alla difesa della Repubblica romana, nata nel febbraio del 1849 e morta nel 1850, dopo che le truppe francesi del generale Oudinot avevano pesantemente bombardato la città nel giugno del ’49 preparando la strada al rientro di Pio IX nell’aprile successivo. «Il quadro di Induno rappresenterebbe […] il momento estremo e più alto […] di una moderna pittura di storia, pronta a commuovere ed educare attraverso lo spirito semplice e anonimo di un’unica, commovente figura» [Regonelli 2010].
Non casualmente, penso, la giovane popolana di Trastevere sembra riproporre, in controparte, la posizione della martire trasteverina per eccellenza, Santa Cecilia, così come Stefano Maderno nel 1600 l’aveva resa immortale nella statua dell’omonima chiesa, distesa, con il corpo leggermente piegato, le braccia abbandonate, la testa avvolta in un panno.
È necessario a questo punto entrare nella questione del doppio registro sul quale si modulerà gran parte della pittura di storia risorgimentale. I due modi, così come sono stati ormai ben definiti dagli storici dell’arte, corrispondono a «quello vòlto a privilegiare gli episodi desunti dalla storia ufficiale di cui glorificava le virtù patriottiche tramite l’evidenza della resa formale […] e quello che, invece, trattava il tema patriottico come una visione colloquiale e quotidiana, incline a ricavare dalla cronaca i motivi attinenti alla sfera degli affetti o a vicende di nessuna pretesa eroica» [Bietoletti 2010], oppure, come nel caso della «trasteverina» di Induno, a evidenziare un eroismo involontario tanto più toccante in quanto collegato alle sofferenze di un intero popolo.
In questo senso, il «canone risorgimentale» tradotto in termini d’immagine sarà consequenziale con «quell’idea della nazione come frutto di una costruzione politica volontaria e collettiva» [Banti 2006 in Mancini 2010], laddove il senso della collettività si esprime emblematicamente non solo nella raffigurazione degli schieramenti militari, nell’ammassarsi degli scontri, nei corpo a corpo iterati al momento dell’impatto di centinaia uomini armati, cioè nell’aspetto militarizzato e strategico teso all’acquisizione dell’autonomia nazionale, come ad esempio nella famosa ed illustrativa serie acquarellata del 1860 di Carlo Bossoli “meraviglioso specialista” in materia legato alle committenze sabaude, ma anche nella compartecipazione della popolazione civile, bassa e alta, maschile e femminile, giovane e no, un popolo militante anche nella fervida esposizione sentimentale, e nella altrettanto politica compartecipazione ideologica, nella comune speranza di un riscatto morale, sociale.
Nel dipinto del 1859 di Francesco Saverio Altamura intitolato La prima bandiera italiana portata a Firenze nel 1859, esemplare di questa temperie patriottica popolare e borghese e della connessa militanza civile, un adolescente sottile nella sua giacchettina, che cammina senza paura, mano in tasca e testa alta, tiene in spalla il tricolore sullo sfondo di una Firenze ancora campestre nei pressi della Certosa, soldatino del popolo, magro e solo con la sua ombra, lontano da quelle Scene di accampamento e di bivacchi, di scaramucce e di battaglie (Telemaco Signorini, 1896) che pur tanto avevano contribuito e continueranno ad alimentare le tematiche di storia contemporanea dei pittori soldati.
Un «contesto antieroico» per dirla con Carlo Sisi, il quale così delinea questo diverso approccio sentimentale: «L’attenzione rivolta all’immagine del popolo e, di conseguenza, ai temi umanitari che la cultura del Risorgimento aveva definitivamente portato alla ribalta, si manifesterà dunque nella descrizione poetica e figurativa dei luoghi ove le idee e gli affetti erano condivisi da uomini e donne cresciuti nel sentimento di pietà, nel fraterno e partecipe dolore, nella fiducia provvidenziale, nello slancio ideale che gli statuti della nuova borghesia avevano coltivato a presidio d’una civiltà che si voleva progressista ma pur sempre modesta e paternalista, estranea quindi alle crude analisi che saranno proprie del verismo sociale» [Sisi 2010].
È in questo contesto che nasceranno opere destinate a toccare nel tempo un immaginario collettivo allargato e inoltre a comporre un album sentimentale di grande impatto sociale, legato alla sfera famigliare, all’infanzia, agli affetti domestici, ai singoli e spesso splenetici momenti di meditazione, alla romantica visione di un paesaggio morale laicamente intriso di ideali virtuosi, di amorosa dedizione alla causa che a volte si innesta nella vicenda degli amori personali. Le cucitrici di camicie rosse (1863) di Odoardo Borrani, con il suo spaccato d’ambiente piccolo borghese protetto dall’icona di Garibaldi; oppure La lettera del volontario (1861) di Giuseppe Moricci, quasi una relazione socio politica sulla adesione famigliare agli ideali libertari; e anche Piccoli patrioti (ca.1859) di Angelo Trezzini, o Una triste novella (ca. 1862) di Giuseppe Reina, dove la giovane popolana nel suo a solo casalingo e sentimentale si appella all’icona più riconosciuta in merito di abbandoni patriottici, Il bacio di Hayez; e inoltre I figli del popolo (1862) di Gioacchino Toma, laddove l’altarino del nuovo catechismo meridionale a uso dei fanciulli poveri si fregia delle due nuove divinità, Garibaldi e Vittorio Emanuele.
Nel succitato breve elenco ho volutamente citato le icone che accompagnano uno degli ultimi contributi in materia [Sisi 2010] ma, naturalmente, il catalogo in merito sarebbe molto più vasto tanto da poter parlare di un nuovo genere all’interno, e qui sta il punto, della pittura cosiddetta di genere. Come non ricordare allora Il 26 aprile 1859 (1861) di Odoardo Borrani, vicenda intima e solipsistica della cucitrice di un bandierone tricolore, calata tra l’umbratilità di uno scarno interno e la luce chiara di un esterno urbano sospeso nell’attesa degli eventi libertari; oppure i tanti testi pittorici affabulati di Gerolamo Induno, laddove il linguaggio formale minuto e descrittivo, così distante dalla sintesi della macchia toscana, indulge al racconto di cronache famigliari attraversate, nell’intimità ricca di oggetti identitari di uno status sociale tra il popolare e l’abbiente, dalle vicende patriottiche affidate alle missive o ai racconti testimoniali.
È in quest’ultimo cono di scelta tematica e figurativa che si situano i testi forse più emblematici della «via lombarda» [Mazzocca 2010], rispetto a quella toscana, sia nell’ambito della pittura militare che in quella di genere risorgimentale, cioè La battaglia di Magenta (1861) di Gerolamo Induno, e Il bullettino del giorno 14 luglio 1859 che annunziava la pace di Villafranca (1862) di Domenico Induno.
I mitici eventi che i due Induno sono impegnati a illustrare vengono raccontati, dato anche il grande formato delle tele, con un tale dispiego di coralità da richiedere interventi di consumata regia teatrale. La dovizia di un trovarobato di scena, soprattutto nel «Villafranca», si allea alla minuzia di un racconto che, prima ancora di essere realistico, è toccato da una vena di verismo interpretativo, e a proposito di questa straordinaria sfida pittorica Giuseppe Rovani fin dal 1860, quando il dipinto era stato presentato in una prima versione nella rassegna braidense, fu pronto a coglierne, come recentemente ha sottolineato Paola Zatti, «proprio questi risvolti, soffermandosi sulle peculiarità, a suo parere così ben interpretate, di ogni singola figura, dal veterano «pensoso e dolente», all’ufficiale giudiziario, «spettrale e muto», dal loquace gregario francese al semplice «iracondo» soldato italiano, comparando la riuscita e convincente resa delle particolarità espressive della rappresentazione a quelle della satira letteraria popolare e del romanzo contemporaneo» [Zatti 2010].
Teatro a vista, dunque, esaltato dalla aggettivazione preziosa e ricercata e da un linguaggio formale altrettanto dedito all’orditura minuta, alla pennellata descrittiva. I concertati degli Induno, come i loro quartetti, duetti, o a solo, non riducono, non stringono, e, abbassando il climax eroico entrano in quello della grande cronaca. In questo senso, usando i termini di A.M. Banti, «il discorso nazionale si impone in forza di un suo eccezionale potere comunicativo» [Banti 2011], che, sia nella «via lombarda» come in quella toscana, troverà il modo di veicolarsi attraverso una produzione pittorica quantitativamente e qualitativamente elevata, addirittura in alcuni casi localizzata, ma pur sempre resa accessibile attraverso strutture dedicate a fondamentali meccanismi divulgativi.
All’interno di una dinamica correlata con le «figure profonde del discorso nazionale» [Banti 2000; 2005; 2011] si dovranno pur inserire quelle immagini simboliche «che incorporano una tavola valoriale specifica, offerta come quella fondamentale che dà senso al sistema concettuale proposto», e che contemplano, tanto per fare qualche esempio famoso, Il bacio (1859), o Il bacio del volontario come lo rintitolò Dall’Ongaro nel 1872, di Francesco Hayez, oppure dipinti come Venezia che spera di Andrea Appiani jr. (1861), La meditazione (L’Italia nel 1848), sempre dell’Hayez (1851), e anche le icone assolute di un ritrattista mirata alla mitizzazione quale il Giuseppe Garibaldi di Silvestro Lega del 1861, il ritratto di Vittorio Emanuele di Luigi Mussini del 1860, e quel Mazzini morente (1873) ancora del Lega, che, studiato dal vero al momento della morte (10 marzo 1872) del «grande esule», verrà definito da Diego Martelli nel 1873 «una delle più viventi pagine e delle più commoventi della pittura italiana», e recentemente considerato espressione di una «realtà tragica e insieme dimessa […] dipinto privo di valenze eroiche o di intenti celebrativi, inquietante emblema egualitario della comune vicenda umana […]» [Leone 2007; cfr. Lombardo 2007].
La vasta compagine intellettuale e artistica che si muove in questo senso fa sì che «il discorso nazionale può avvalersi di un’estetica della politica che prende forma attraverso una vasta costellazione di romanzi, poesie, drammi teatrali, pitture, statue e melodrammi di ispirazione nazional-patriottica. Sono questi gli strumenti comunicativi che fondano la narrazione e la mitografia risorgimentale» [Banti 2011].
Laddove all’elenco succitato aggiungerei la fotografia, tanto più come portatrice di valori visivi che, oltre allo specifico documentale, si traducono in valori formali. Non solo i grandi personaggi risorgimentali saranno oggetto di ritratti fotografici, a volte memorabili e sicuramente diffusori in maniera allargata di un atlante iconico capace di raggiungere e appagare, come accadde con le stampe popolari, una capillare richiesta, ma con in più rispetto al mezzo calcografico o tipografico il vantaggio di una veridicità connaturata al mezzo e applicata sia alla ritrattistica ufficiale, sia a quella più intima e privata. È il caso, ad esempio, del doppio registro presente nella iconografia di Garibaldi, raffigurato quasi sempre nella sua specificità esoticamente eroica, ma anche borghese, e magari in altre occasioni colto in una dimensione più intima, quasi dolente, come nel Giuseppe Garibaldi con il piede destro ferito a Aspromonte di Pierre Verner (?) oppure Giuseppe Garibaldi convalescente all’albergo delle «Tre donzelle» a Pisa, o anche Giuseppe Garibaldi nella sua camera dentro il forte di Varignano di C.N. Bettini (?), tutte e tre scattate nel 1862, e ancora quel ritratto struggente dell’Eroe ripreso dal vero nei giorni di malattia da A. Bottazzi nel 1882 poche settimane prima della morte.
Lo scandaglio fotografico nel privato non si arresterà infatti nemmeno davanti alla morte degli eroi o dei grandi padri del risorgimento, come in Pisa. Giuseppe Mazzini sul letto di morte con lo scialle di Carlo Cattaneo. 11 marzo 1872, carte-de-visite dei Fratelli Alinari, fotografia complementare e virtualmente susseguente al Mazzini morente del Lega, laddove il medesimo plaid a quadrettini neri e grigi avvolge il corpo abbandonato dell’uomo «di polpe e ossa» [Martelli 1873 in Formichi 2010), come aveva avvolto quello di Cattaneo fotografato da C. Saski sul suo letto di morte nel 1869.
Ma alla fotografia bisogna riservare anche il merito di aver documentato quasi in tempo reale alcuni scenari di guerra tra i più importanti del Risorgimento, e precisamente le Rovine della guerra di Roma del 1849, serie di calotipi eseguiti dal milanese Stefano Lecchi verosimilmente nel luglio subito dopo la fine dell’assedio [Vitali 1979; A. Villari 2003; Mazzocca 2010], i quali costituiscono «la prima documentazione fotografica organica di eventi guerreschi», e che mostrano «gli effetti devastanti della guerra sulla città eterna che ora, accanto alle gloriose rovine antiche, poteva esibire queste drammatiche distruzioni contemporanee» [Mazzocca 2010]. Ed inoltre il primo reportage di guerra realizzato dall’inglese Roger Fenton in Crimea nel 1855 ed anche, sempre in Crimea, le campagne fotografiche di James Fenton e Felice Beato.
A questo tipo di testimonianza sui fatti bisognerà se non altro aggiungere Magenta. Il ponte sul Ticino dopo la battaglia del 4 giugno 1859 di Luigi Sacchi; Magenta. Tombe lungo la ferrovia dopo la battaglia del 1859 e la tragica Melegnano. Corpi di caduti nel combattimento dell’8 giugno 1859. E ancora Il cimitero dopo la battaglia del 25 giugno 1859 a Solferino, ripreso con la stessa inquadratura che si ritroverà (invertita) nel quadro del 1866 di Eleuterio Pagliano, il quale volle «rappresentare con un sostanziale rispetto della realtà storica» [Mazzocca 2010] il momento apicale del combattimento di quel medesimo fatto di guerra.
Anche la rivoluzione di Sicilia all’arrivo dei «mille» nel 1860 avrà modo di essere variamente documentata cosicché, «grazie non solo alle cronache e alle pagine di letteratura vergate da Giuseppe Cesare Abba e da Alexandre Dumas (padre), entrambi al seguito della spedizione, ma anche alle immagini, alle fotografie, ai disegni dal vero, alle illustrazioni dei giornali, la veemenza di quelle giornate raggiunse un pubblico internazionale» [Lo Dico 2007].
Le barricate di Palermo fotografate da Eugène Sevaistre, con la loro veritiera e nuda testimonianza segnano un punto altissimo di evocazione della storia di un eroismo civile e urbano destinato anche attraverso quelle immagini a diventare mitologico. E, ancora, si possono citare le foto dell’assedio e bombardamento di Gaeta del 1860/61, dovute al Sevaistre, allo Studio Giuliano Ansiglioni e a Giorgio Sommer, con le rovine della città, gli accampamenti dell’artiglieria «italiana», gli avamposti con i cannoni «Cavalli» [Borghini 2007], le batterie con i corpi a terra dei morti probabilmente simulati per ottenere «un trucco pseudodocumentario» [Vitali 1979]; oppure, quasi a conclusione di un glorioso ciclo storico, tutte le fotografie che, sui grandiosi sfondi romani, Quirinale, Piazza del Popolo, Pantheon, negli scenari sontuosi degli effimeri apparati funebri, commemorarono i funerali di Vittorio Emanuele II. Gli stessi funerali che chiudono uno dei più grandiosi cicli pittorici dedicati al primo re d’Italia e alla storia dell’unità nazionale, concepito alla morte nel 1878 del Re e compiutamente realizzato tra 1886 e 1890 sulle pareti di una sala del Palazzo Pubblico di Siena, dedicata a Vittorio Emanuele II e fin dall’inizio chiamata «Sala monumentale». Questo «panorama» figurativo a cui sovrintese Luigi Mussini trovò in Amos Cassioli e Pietro Aldi, ai quali furono affidati gli episodi salienti della vita politica e militare del re sabaudo, coincidenti con i momenti di maggiore climax della storia unitaria nazionale, Vignale e Teano, Palestro e San Martino, degli illustratori di alto livello della saga indipendentista, espressa secondo i canoni consolidati della pittura storica contemporanea, e in Cesare Maccari il sostenitore di una acribica pittura celebrativa e documentale espressa quasi a caldo sugli eventi, in questo caso il Plebiscito di Roma e i funerali del re al Pantheon.
Proprio il Maccari nell’episodio della consegna a Vittorio Emanuele II da parte del duca di Sermoneta dei risultati del plebiscito romano, avvenuta a Firenze nella Sala Reale di Palazzo Pitti il 9 ottobre 1870, sembra tirare le fila di «quella che doveva essere in primo luogo pittura di rappresentanza, documento, atto ufficiale» [Bon 1984] e che aveva trovato un illustre precedente nel Ricevimento fatto da Vittorio Emanuele degli Inviati toscani che gli presentano il Decreto dell’annessione della Toscana al regno forte d’Italia di Giovanni Mochi, dipinto a lui allogato per il settore dei Quadri storici del Concorso Ricasoli e per il quale la Commissione ritenne «che la natura stessa del soggetto imponeva all’Artista che doveva trattarlo la necessità di riprodurre esattamente conformi al vero la Sala ove il fatto ebbe luogo, il numero, il costume e la disposizione delle figure» [ibidem].
Con il dipinto del Mochi si veniva a «fondare un genere nuovo di pittura celebrativa, adeguato alle esigenze di rappresentanza della nuove classi dirigenti europee. Dal quadro di genere potevano venire suggerimenti per la realizzazione degli interni, dalla ritrattistica e dalla fotografia la precisione dei tratti fisionomici dei personaggi» [ibidem].
In questo filone si vengono a collocare i due cospicui affreschi senesi del Maccari, per i quali, peraltro, l’artista elaborò un nutrito numero di disegni preparatori, cartoni, bozzetti, soprattutto relativi alla minuziosa e puntuale rappresentazione fisiognomica dei personaggi storici che fanno da grande coro agli eventi raffigurati. Ma quel tanto di teatrale che ancora struttura il quadro del Mochi, si trasforma in Maccari in un taglio spaziale veramente fotografico, anzi nell’episodio dei «Funerali» in una veduta «panoramica» dilatata e protocinematografica. D’altra parte se negli anni Ottanta dell’ottocento le immagini di guerra avevano costituito materia per la redazione di strepitosi e abilissimi panorami dipinti a 360 gradi sulle pareti di un qualche ambiente circolare e buio, mi riferisco a quello, ad esempio, realizzato nel 1883 da Léon Philippet raffigurante il Panorama dell’assedio della Repubblica romana del 1849 [Pizzo 2011], poi diffuso attraverso riproduzioni fotografiche con un effetto di straordinario realismo e un compito di massima divulgazione, che ormai, data la cronologia, era indice di invito alla conoscenza maieutica della storia e alla perpetuazione mitologica dei suoi accadimenti, invece il Funerale del Re dipinto da Maccari, riempiendo il set di personaggi reali e perfettamente riconoscibili avrebbe assolto anche al compito della individuazione di una classe dirigente nata dalle conquiste unitarie ma proiettata verso un suo acquisito diritto di comando e il cui naturale sfondo non era tanto il Pantheon quanto gli imminenti, nel 1878, quartieri «umbertini».
In parallelo con gli affreschi senesi verranno a collocarsi «le impressionanti decorazioni panoramiche – nell’apoteosi ufficiale ormai l’affresco, considerata la grande tecnica della tradizione nazionale, subentrava alla pittura a olio – che scorrono all’interno della Torre di San Martino, realizzata tra il 1880 e il 1893, dove artisti specialisti del genere […] ripercorsero, come in tante stazioni, dedicate al 1848, 1849, la Crimea, la II guerra d’Indipendenza, la III e infine Porta Pia, l’intera parabola militare che aveva portato all’Unità» [Mazzocca 2007]. Con questi due cantieri si chiudeva ormai il vasto capitolo dell’iconografia risorgimentale, o perlomeno si era pronti a passare la staffetta fin quasi dall’inizio del sec. XX a un mezzo visivo popolare e di grande impatto sentimentale, il cinema [Musumeci, Toffetti 2007; Banti 2010; 2011].
Bibliografia
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