Positivismo
di Marco Burgalassi
Sebbene il suo profilo più noto sia quello segnato dai tratti meccanicistici con cui negli ultimi decenni del XIX secolo registrò una straordinaria diffusione, il positivismo si propone come una vicenda assai articolata e nella quale il collegamento con il pensiero liberale appare tutt’altro che marginale. Questo legame risulta particolarmente evidente nel rapporto che la filosofia positivistica ebbe con il liberalismo nel contesto inglese, dove si saldò in modo efficace con alcune correnti radicali, ma ha altresì una sua consistenza più generale che deriva dal ruolo che intorno alla metà dell’Ottocento il positivismo assunse come orizzonte culturale della borghesia industriale [Rossi P. 1975].
Nel campo degli studi sociali, la convergenza tra positivismo e liberalismo fu in parte presente nell’opera di Herbert Spencer ma raggiunse il suo più elevato grado di elaborazione nel pensiero di John Stuart Mill. Le posizioni milliane furono anche il punto di riferimento per l’avvio del movimento positivistico in Italia, avvio che si usa far risalire a una conferenza tenuta da Pasquale Villari nel 1865 e che per almeno un decennio ebbe espressioni importanti perlopiù negli scritti pedagogici di Andrea Angiulli, Robertò Ardigò e Aristide Gabelli. Questo profilo del positivismo nazionale, tuttavia, radicò principalmente in ambito accademico mentre nel dibattito pubblico venne rapidamente soppiantato da altri di impronta deterministica. In particolare, il determinismo ebbe un considerevole successo in una assai diffusa letteratura sociologica, nella quale venne spesso coniugato con posizioni di ispirazione socialista; cosicché nel quadro italiano il nesso tra positivismo e liberalismo andò in breve tempo perduto ed è rimasto a lungo dimenticato [Urbinati 1990].
Il movimento positivistico ebbe origine in Francia intorno al 1830 ma in breve tempo si affermò anche in Inghilterra e poi sull’intero scenario continentale fino a dominarlo largamente nella seconda metà dell’Ottocento. Il suo tratto caratteristico fu di attribuire alla logica e al metodo delle scienze della natura un valore assoluto tanto sotto il profilo conoscitivo quanto sotto quello operativo. Il positivismo, infatti, identificava nell’approccio scientifico che combinando l’analisi deduttiva con quella induttiva e nel sapere basato sulla osservazione e sulla esperienza i soli presupposti in grado di assicurare lo sviluppo della conoscenza nel suo complesso e l’incivilimento delle società.
La efficace semplicità di una proposta che metteva al centro la dimensione concreta del sapere scientifico e ne faceva il cardine per la speculazione e per l’azione costituì il punto di forza del positivismo e ciò gli consentì di pervadere in modo particolarmente incisivo la cultura europea [Simon 1980]. La duttilità di un’idea che poteva essere declinata sia in prospettiva filosofica – come approccio speculativo antimetafisico – sia in chiave metodologica – come estensione all’intero processo conoscitivo dei meccanismi dell’indagine empirica – sia come generico orientamento intellettuale contraddistinto dalla fiducia nella scienza e nel progresso alimentò infatti una rapida e straordinaria diffusione continentale del movimento. Nei diversi contesti nazionali e nelle variegate modalità di interpretazione, tuttavia, esso si presentò con lineamenti nettamente differenziati e non di rado contraddittori, cosicché all’indiscusso successo si accompagnò anche una significativa trasformazione dell’identità originaria e l’emergere di una vulgata capace di decretarne negli anni a cavallo del secolo il declino [Poggi 1987].
Nel lungo arco di tempo in cui esercitò la sua influenza sullo scenario europeo, il positivismo si propose con tre distinte configurazioni. Tali configurazioni rappresentano di fatto altrettante fasi di una complessa – e a tratti contraddittoria – vicenda culturale.
Nella sua prima stagione, avviata da Saint-Simon ma sistematizzata da Auguste Comte nel Cours de philosophie positive (1830-1842) e in parte rielaborata nelle formulazioni di John Stuart Mill, l’impianto positivistico si segnalava per l’originalità di una struttura speculativa che attribuiva un ruolo centrale e un rilievo decisivo alla logica e al metodo del sapere scientifico e per questo riponeva piena fiducia nella dinamicità dei processi conoscitivi e nella possibilità di utilizzarli per la crescita della civiltà. La tradizione storiografica individua questa fase come quella del positivismo sociale e critico il cui carattere distintivo si riscontra nell’affermazione del primato della mentalità scientifica che permette di identificare i fattori reali che regolano i rapporti sociali e consentono di operare concretamente nella direzione del progresso.
La seconda stagione, introdotta nella sua dimensione filosofica da Herbert Spencer e poi alimentata dalle teorie di Charles Darwin, vide il positivismo virare decisamente in chiave evoluzionistica e poi deterministica. L’impostazione che assegnava alla mentalità scientifica il ruolo di motore della conoscenza e del cambiamento sociale venne in breve tempo sostituita da un orientamento che tendeva ad assolutizzare i risultati della ricerca scientifica e ad assumere in chiave omniesplicativa le regole del mondo naturale. Questa fase in cui nel positivismo prevalse il profilo scientistico si caratterizzò quindi per un largo impiego di analogie di derivazione biologica applicate ai diversi campi della conoscenza e utilizzate per interpretare – ingabbiandoli in leggi e regole predeterminate – l’agire umano e la dinamica della vita sociale.
La terza stagione, che si colloca negli ultimi decenni del secolo e registra la massima espansione del movimento, propose infine la deriva riduzionistica del positivismo, oramai segnato da forme estreme e superficiali di meccanicismo. Alla sua larga diffusione si accompagnò infatti il dilettantismo dei cultori, che comportò un significativo indebolimento dell’impianto filosofico e metodologico. I principi ispiratori della cultura positivistica cedettero il campo a formule e dogmi semplicisticamente applicati a ogni ambito della vita individuale e sociale, mentre alla fiducia nelle potenzialità conoscitive del reale si sostituì un acritico materialismo.
Nel volgere di alcuni decenni, dunque, il profilo del positivismo conobbe mutamenti sostanziali, destinati a modificarne sensibilmente i tratti e ad incidere sulla coerenza e sulla solidità dei suoi principi. Un profilo egualmente cangiante ed eterogeneo caratterizzò anche la collocazione della cultura positivistica rispetto allo scenario delle coeve ideologie politiche. Affermatosi in parallelo allo sviluppo della società industriale e considerato la filosofia della borghesia, il positivismo spenceriano e soprattutto quello milliano ebbero un collegamento evidente e diretto con il pensiero liberale dell’epoca, che contribuirono a orientare. In seguito, però, il prevalere dell’evoluzionismo e poi del naturalismo, che contrassegnarono la cultura positivistica in chiave nettamente deterministica, permisero la sua convergenza con il pensiero di Marx e un potente connubio con il materialismo storico. L’ulteriore approdo rappresentato dal darwinismo sociale, infine, consentì di poter richiamare il positivismo anche per sostenere l’ipotesi d’impronta eugenetica.
La vicenda italiana del positivismo ebbe tratti sostanzialmente analoghi a quelli che il movimento presentò nel resto del quadro continentale [Papa 1986]. Due elementi le furono però del tutto peculiari: il repentino e inarrestabile declino che negli ultimi anni del secolo investì il movimento a seguito della reazione idealistica guidata da Benedetto Croce e la collocazione prevalente che esso registrò all’interno del dibattito filosofico piuttosto che in quello scientifico [Rossi L. 1988]. Appare un dato di tutta evidenza, infatti, che l’impianto teorico e metodologico del positivismo alimentò in modo importante soprattutto gli studi storici, antropologici e psicologici e contribuì ad aprire nuovi orizzonti nelle scienze giuridiche e criminologiche [Santucci 1982]; e risulta assolutamente certo che l’ambito nel quale incise maggiormente fu quello degli studi sociologici, con i quali si costituì «un dato originario e reciprocamente diffusivo» [Barbano, Sola 1986, pp. 7-15]
Il positivismo venne introdotto in Italia nella versione milliana e all’inizio assunse carattere essenzialmente umanistico. I suoi cultori miravano alla conoscenza della realtà attraverso lo studio delle vicende umane nelle condizioni mutevoli e contingenti del loro manifestarsi. Una impostazione del genere intendeva evitare l’errore di considerare l’uomo quale entità astratta, ma ciò veniva realizzato senza porre in discussione il permanere della filosofia nel campo degli studi morali. Nella formulazione datane da Villari nel saggio La filosofia positiva e il metodo storico, esso veniva assunto come «un nuovo metodo, non già un nuovo sistema» e la sua peculiarità identificata nella «applicazione del metodo storico alle scienze morali […] con l’importanza medesima che ha il metodo sperimentale per le scienze naturali» [Villari 1866].
La prima stagione positivistica nazionale, sviluppatasi tra il 1865 e il 1875, presentava una articolazione dei suoi indirizzi strettamente connessa con le potenzialità applicative del canone metodologico. Il positivismo costituiva all’epoca una sorta di strumento supplementare d’indagine. Non era la capacità di identificare regolarità nette e omniesplicative ciò che gli studiosi gli riconoscevano; piuttosto, come già all’epoca era segnalato da un osservatore straniero (A. Espinas, La philosophie expérimentale en Italie, 1880), vi ricercavano i fondamenti di un nuovo atteggiamento conoscitivo. Il suo originario significato metodologico andò invece mutando a partire dal 1870. I profondi cambiamenti che investirono l’Italia postunitaria esigevano infatti una capacità conoscitiva e operativa che la tradizione culturale spiritualistica non aveva. In questo quadro, il positivismo poté facilmente sostituirsi allo spiritualismo come punto di riferimento della cultura nazionale e la sua affermazione risultò in breve tempo dilagante, comportando però l’abbandono del suo originario indirizzo umanistico e la trasformazione dei suoi orizzonti da metodologici a dottrinari.
Fu la creazione della «Rivista di Filosofia Scientifica», nel 1881, a sancire il definitivo imporsi della seconda fase del positivismo italiano. A partire da allora, infatti, nella cultura nazionale ebbe luogo il sistematico smantellamento della multidimensionalità dell’indagine filosofica e scientifica sostituita dalla ricerca di una piattaforma gnoseologica di tipo strettamente fattualistico. Il successo del cosiddetto positivismo degli scienziati corrispose quindi alla strutturazione di una filosofia omniesplicativa fondata sul dogmatismo fenomenistico, in cui: I) l’introduzione del darwinismo e dello spencerismo orientarono la riflessione in direzione naturalistica e evoluzionistica; II) alla primigenia tendenza storico-critica si sostituirono pretese sintetiche di tipo universalistico; III) uno scientismo assolutizzato demonizzò la dimensione speculativa fino al punto da prefigurarsi – secondo una nota immagine – come «filosofia dell’antifilosofia»; IV) la concezione della realtà umano-sociale si configurò nei termini di una metafora biologistica al di fuori della quale niente aveva significato [Restaino 1985].
Il ruolo predominante che dopo il 1880 il positivismo naturalistico rivestì nelle scienze sociali determinò la sostanziale emarginazione della sua tradizione storico-umanistica – in cui si ritrovavano intellettuali del calibro di Villari, Angiulli, Gabelli, Siciliani e Ardigò [Magnino 1955] – e consentì l’affermazione di studiosi destinati in breve tempo a divenire autentici capiscuola delle rispettive discipline. Fu così per gli antropologi Cesare Lombroso e Giuseppe Sergi, per i giuristi Enrico Ferri e Giuseppe Vadalà Papale, per gli economisti Gerolamo Boccardo e Achille Loria, per i sociologi Michelangelo Vaccaro e Errico De Marinis e soprattutto per lo psichiatra-filosofo Enrico Morselli, a cui si deve la elaborazione di molti dei dogmi del monismo evoluzionistico nostrano.
Malgrado le correnti di impronta meccanicistica rimanessero prevalenti, negli ultimi anni del secolo la cultura positivistica italiana registrò anche il nitido emergere di un indirizzo di stampo revisionistico. Si trattava di un orientamento che muoveva dalle posizioni ardigoiane – in cui lo sperimentalismo si coniugava con il riconoscimento delle idealità umane come momento originario della vita sociale – e che vedeva impegnati personaggi allora poco noti ma di indubbio valore come Giovanni Marchesini, Giuseppe Tarozzi, Erminio Troilo e Alessandro Groppali. L’approccio revisionista intendeva rappresentare il superamento del riduzionismo e del determinismo antispeculativo e il suo obiettivo era la ricerca dei termini di una possibile integrazione – o quanto meno conciliazione – tra le varie espressioni dell’esprit positif e l’idealismo. L’operazione, intellettualmente assai interessante, risultò tuttavia tardiva e inefficace rispetto a un quadro oramai avviato al declino. All’alba del Novecento, infatti, i segni di una potente controffensiva spiritualistica erano già inequivocabili; e la contemporanea pubblicazione, nel 1903, del saggio gentiliano La rinascita dell’idealismo e del primo numero della rivista «La Critica» diretta da Croce altro non furono che l’apertura ufficiale di una nuova epoca nella quale per qualsiasi forma di positivismo applicato alle scienze sociali non vi sarebbe stato alcuno spazio.
Bibliografia
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