Repubblica
di Aldo G. Ricci
Il termine repubblica evoca una parola-simbolo dalle radici antiche che si è venuta caricando nel corso del tempo di sempre nuovi significati. Il significato primo, res publica,cosa del popolo, si trova quasi a coincidere con quello di Stato, o con quello di politéia greca, e in tale accezione può adattarsi a realtà politico-istituzionali assai diverse. Se riflettiamo infatti sulla tripartizione aristotelica delle forme di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia), che mette in primo piano l’archìa, il potere (di uno, pochi o molti), con le sue possibili degenerazioni (tirannide, oligarchia, demagogia), salta agli occhi che «repubblica» non coincide con nessuna di queste perché pone in primo piano gli interessi comuni, ma anche il consenso popolare alle leggi: fattori essenziali perché in una comunità sia possibile affermare la giustizia.
Nella tradizione romana, la res publica, nell’accezione prevalentemente ciceroniana, coincide con la fine del potere regio, per poi, durante l’Impero, distinguersi anche da questo. Il termine assomma così una valenza di polarità antitetica alla monarchia destinata a perdurare nei secoli successivi, anche se va notato che nell’età della decadenza e nei secoli successivi, la formula res publica romanorum viene usata in una dimensione cesarea e universalistica di grande fascino nei secoli del Sacro Romano Impero.
Questa bipolarizzazione dell’eredità romana si riflette da un lato nel richiamo all’Impero, sacro e romano, in chiave universalistico-cristiana, dall’altra, almeno fino a Machiavelli (che rappresenta una eccezione) nella teorizzazione della repubblica in chiave localistica, come forma politica delle «piccole patrie»: sono le repubbliche comunali dei primi quattro secoli del secondo millennio, che un repubblicano conservatore quale Sismondi, descriveva come le culle della rinascita della libertà in Europa.
In queste dimensioni infatti la partecipazione popolare raggiunge la sua compiuta espressione, traendo la sua forza dalla concreta materialità di un bene comune, destinato a dare frutti di natura morale e giuridica. Questa forza etico-giuridica del termine si conserverà nei secoli, oscillando tra la drammatica esaltazione machiavelliana della politica alle innocue dispute filosofico-letterarie del XVII e XVIII secolo, destinate a essere spazzate via dalla frattura rivoluzionaria dell’89.
Da quel momento il bipolarismo semantico del termine: comunità/stato da un lato, forma di governo dall’altro, sembra risolversi a vantaggio del secondo termine, con la vittoria delle repubbliche nazionali, unitarie, federaliste o popolari, in ogni caso sempre espressioni della modernità, che intende sbarazzarsi delle monarchie, piccole o grandi, che, alla fine dell’età feudale, avevano accompagnato la nascita degli stati nazionali.
In epoca moderna, la repubblica come forma di governo sembra quindi aver assorbito ed esaurire ogni altro significato del termine, anche se, negli ultimi tempi, accanto alla valenza istituzionale ha cominciato a riaffacciarsi l’altra, quella etico-giuridica, che guarda a uno specifico repubblicano che va al di là della forma di governo.
Insomma la repubblica evoca una lunga storia, che si ramifica e si diversifica nel corso dei secoli, a volte rifluendo in un alveo comune, altre diversificandosi in corsi separati e spesso contrastanti. In questa lunga storia l’Italia ha avuto un ruolo di protagonista che si è andato via via riducendo a partire dalla seconda metà del XVI secolo con la sua progressiva emarginazione dai processi di modernizzazione, anche se un filone sotterraneo dell’idea repubblicana ha continuato a scorrervi fino alla Rivoluzione francese.
A partire da quella frattura, l’idea repubblicana è riemersa e cresciuta legandosi sempre più strettamente alle vicende nazionali, e rappresentando nel corso del Risorgimento una delle possibili alternative per la causa unitaria. Con il prevalere dell’opzione monarchica, la repubblica è sopravvissuta come testimonianza ideale e proselitismo finché, dopo la vittoria del fascismo e vent’anni di dualismo di potere tra corona e regime, l’opposizione a quest’ultimo ha trascinato con sé anche un rifiuto della monarchia che ha coinvolto trasversalmente la maggioranza dei partiti, preparando la vittoria repubblicana nel referendum del 2 giugno 1946.
È da questo percorso che occorre muovere, almeno nel nostro Paese, per una riflessione sulla repubblica nella prospettiva del pensiero e del movimento liberale. Liberalismo e repubblica hanno seguito nel corso dei secoli che li hanno visti entrambi presenti sulla scena della storia percorsi diversi, per lo più paralleli, a volte destinati a incrociarsi, altre a divergere.
Delle diverse valenze del termine repubblica si è detto. Di quelle ancor più numerose di liberalismo molti autori si sono occupati, sempre sottolineandone la diversificazione nel corso del tempo e delle diverse aree geografiche.
La definizione del «liberalismo» come fenomeno storico presenta notevoli difficoltà, come osserva Nicola Matteucci alla voce nel Dizionario di politica, curato dallo stesso autore insieme a Norberto Bobbio e Gianfranco Pasquino [Torino, 1983, seconda ed. riveduta e ampliata]. In primo luogo, spiega, perché la storia del liberalismo si trova intrecciata con quella della democrazia; poi perché il liberalismo si presenta in tempi diversi nei diversi paesi, a seconda del loro grado di sviluppo; e infine perché il termine può indicare, di volta in volta, un movimento o partito, un’ideologia politica o meta-politica, una struttura istituzionale, o anche la riflessione che ha promosso un cambiamento di ordine politico in senso liberale.
Così per lo storico l’unica definizione possibile coincide con la rassegna storica delle azioni e dei movimenti di pensiero, definiti «liberali», che si sono determinati e sviluppati a partire da un certo periodo della storia europea e americana.
Ma una rassegna non è una definizione. Un’altra strada può passare attraverso la disanima delle diverse concezioni della «libertà», ovvero del valore primo di cui i liberali si sono sempre proclamati assertori. Si prosegue quindi attraverso le diverse definizioni di «libertà»: in natura, nella società (e quindi anche sul fronte della sfera economica, dove liberalismo s’incrocia con un altro termine destinato ad accompagnare la sua storia: liberismo), nella sfera religiosa, nello Stato.
Quest’ultima dimensione chiama in causa la struttura rispetto alla quale il liberalismo è stato chiamato a confrontarsi più intensamente e variamente nel corso del Novecento, sia per l’irrompere del socialismo sulla scena politica, sia per l’espandersi dello Stato sociale anche nei paesi a più forte tradizione liberale.
Inutile in questa sede fare una rassegna analitica di questi percorsi. Basti osservare che negli ultimi anni si è assistito all’affermarsi di una sorta di «liberalismo ecumenico» onnicomprensivo, che rischia di alterare profondamente la sua specificità. Allo stesso tempo va anche rilevato che le sfide più impegnative per il liberalismo moderno si presentano oggi nella sfera etica, comprendendo in essa sia i problemi posti dalla rinascita dell’integralismo religioso, sia quelli della bioetica e delle nuove frontiere della scienza, sia, infine, gli interrogativi che nascono dalle nuove tecnologie e dai riflessi che ne derivano nella vita quotidiana e nella sfera della privacy.
In questa prospettiva, dove si colloca il rapporto con la repubblica? Come si è detto, i percorsi dei due termini, intesi storicamente, sono per lo più paralleli, con incroci e sovrapposizioni occasionali e individuali, ma mai essenziali e necessari.
Concentriamoci sul caso italiano. Se prendiamo coma data di riferimento la Rivoluzione francese e poi la discesa delle armate rivoluzionarie nella Penisola, vediamo che l’affermazione di una prospettiva repubblicana si accompagna con rivendicazioni e affermazioni di carte costituzionali per lo più mutuate dal modello francese, con la presenza evidente di motivi liberali, ma sovrastati sempre dal quadro repubblicano e rivoluzionario di marca d’oltralpe.
Quando l’italo-svizzero J.C.L. Simonde de Sismondi scriverà la sua monumentale Storia delle Repubbliche italiane nel Medio Evo, tra il 1807 e il 1814, rivendicando all’esperienza dei comuni repubblicani tra il XII e il XV secolo il merito della rinascita della libertà in Europa, contribuirà alla formazione di una coscienza nazionale italiana e alla diffusione dell’idea repubblicana nel nostro Paese, senza per questo voler proporre un modello per il futuro in cui libertà e repubblica siano necessariamente associate, e la prima sia destinata a cadere in mancanza della seconda.
Questa distinzione prosegue lungo tutto il periodo risorgimentale, quando il liberalismo comincia a radicarsi e diffondersi all’interno della nuova classe dirigente che si sta formando nella ricerca delle possibili strade da percorrere per una emancipazione nazionale dai contorni ancora imprecisati. L’opzione repubblicana è una delle opzioni possibili nell’ambito del movimento liberale. Così come, in ambito repubblicano, a cominciare da Mazzini, solo in alcuni casi e per certi aspetti, si può parlare di liberalismo.
A partire dalla conclusione del percorso unitario sotto l’insegna di Casa Savoia, la divaricazione fu ancora più netta e il repubblicanesimo assume contorni radicali, irredentisti o socialisti che lo allontanano ulteriormente dall’ambito liberale. La grande stagione del liberalismo al potere in Italia, quella che viene appunto chiamata «l’età liberale», si svolge tutta sotto l’egida della monarchia, senza che questo comporti rilevanti contrasti istituzionali, a conferma dello scarso o marginale interesse del liberalismo per la forma di governo (se per questo s’intende il carattere ereditario o elettivo del vertice istituzionale).
La vera discriminante resta la centralità del Parlamento, una centralità indiscussa, pur con alcune ombre durante tutta l’età liberale. Una grave cesura in questa distinzione dei ruoli istituzionali e nell’equilibrio dei poteri può essere individuata nel 1915, quando il re svolse un ruolo determinante nel rovesciamento delle alleanze e nella successiva entrata in guerra dell’Italia al fianco dell’Intesa, scavalcando la maggioranza del Parlamento.
Un liberale indiscusso come Giolitti, contrario alla guerra, rilevò immediatamente l’elemento illiberale di questa sopravvivenza di assolutismo conservata nello Statuto, e, tornato al governo dopo la guerra, propose, senza successo, che il potere di dichiarare la guerra venisse dato al Parlamento.
La compatibilità tra regime liberale e monarchia subì un duro colpo in seguito all’avvento al potere del fascismo e alla sua convivenza ventennale con Casa Savoia. Nei lunghi anni in cui l’opposizione si trasferì all’estero o assunse le forme di una fronda intellettuale all’interno, il problema istituzionale cominciò a porsi anche nell’ambito del mondo liberale, pur con alcune distinzioni tra chi prospettava un semplice avvicendamento delle persone (dimissioni del re a favore del figlio o del nipote) e chi invece riteneva preferibile una svolta istituzionale in senso repubblicano.
Il problema si pose in maniera concreta all’indomani della caduta del fascismo, quando i partiti del Cln, pur con sfumature diverse, chiesero l’abdicazione di Vittorio Emanuele III. La tregua istituzionale accettata dalle parti in seguito alle pressioni alleate e alla «svolta di Salerno» (quando Togliatti impose la priorità della conclusione del conflitto), rinviò la soluzione del problema di alcuni mesi fino al famoso appuntamento referendario del 2 giugno 1946.
Non è questa la sede per entrare nei dettagli di quel passaggio storico. Vale però la pena di ricordare le posizioni che si delinearono nel Congresso liberale che precedette il referendum, svoltosi a Roma dal 29 aprile al 2 maggio, perché emblematiche dell’atteggiamento dei liberali sulla questione istituzionale.
Rispondendo a quanti temevano che un pronunciamento dei delegati al congresso sull’alternativa repubblica/monarchia potesse portare a una scissione, Benedetto Croce, dopo aver rilevato che la divisione sul tema era trasversale a tutti i partiti, proseguiva con queste parole: «Il vero è che noi liberali non abbiamo alcun diritto di promuovere scissioni su un quesito che non riguarda la consistenza della libertà, ma la forma giuridica dello Stato, e commetteremmo un sopruso se volessimo costringere i monarchici o i repubblicani del partito a rinnegare il non rinnegabile loro sentimento e ad uscire dal partito, perché gli uni e gli altri hanno la nostra stessa fede morale e politica e per essa hanno nobilmente lavorato, e ancora lavorano con noi». Per questo, proseguiva Croce, ci siamo battuti perché la scelta istituzionale fosse affidata a un referendum dove tutti i cittadini potessero pronunciarsi (sulla falsariga dei plebisciti risorgimentali) e per questo siamo favorevoli a lasciare ai liberali libertà di voto nel referendum.
Il Congresso si espresse poi a maggioranza, per bocca di Einaudi, Cattani e altri, in favore della monarchia (una monarchia rinnovata e inserita con un corretto equilibrio dei poteri nella nuova costituzione), pur lasciando libertà di voto per il referendum ai propri elettori, secondo l’indicazione di Croce.
Questi, nella sua apertura, aveva con grande lucidità messo a fuoco il rapporto tra liberalismo e repubblica. In quanto liberali, aveva detto Croce, repubblicani e monarchici hanno la stessa fede morale e politica, e non è sulla questione istituzionale che possono dividersi. Possono farlo, nella scelta referendaria, per un diverso «sentimento» (per usare le parole di Croce), ma non in linea di principio, perché la «consistenza della libertà» è eguale per gli uni e per gli altri. In quanto liberali, si può essere contro una monarchia o una repubblica per ragioni storiche specifiche, ma non per ragioni teoriche generali.
Il tempo può farci sembrare lontane e superate queste parole, almeno nel nostro ambito nazionale, ma le vicende storiche e istituzionali di altri paesi, di antiche e solide tradizioni liberali, ci confermano della loro validità.