Sistemi elettorali
di Tommaso Edoardo Frosini
Si definisce «sistema elettorale» quel meccanismo che consente di trasformare in seggi i voti che il corpo elettorale esprime. Ma dietro a questa fredda definizione c’è qualche cosa in più.
C’è che i sistemi elettorali sono (anche) dei sistemi istituzionali che organizzano l’esercizio della sovranità popolare, perché la qualità di quest’ultima dipende (anche) dalle modalità istituzionali attraverso la quale essa può manifestarsi; ed è attraverso il sistema elettorale che si costituiscono delle regole e delle procedure che ordinano la scelta dei titolari di cariche pubbliche da parte dei membri di una comunità.
C’è poi che i sistemi elettorali sono (anche) condizionanti la forma di governo, ovvero i rapporti che si vengono a stabilire tra i supremi organi costituzionali (corpo elettorale, potere legislativo e potere esecutivo) in relazione alla funzione di indirizzo politico; dal momento che – come vedremo – a seconda del sistema elettorale adottato si fa mutevole l’assetto politico istituzionale della forma di governo.
C’è inoltre che i sistemi elettorali incidono sul numero (e sul ruolo) dei partiti politici che gareggiano alle elezioni; infatti, a seconda del sistema elettorale adottato si può venire a determinare il formarsi di un bipartitismo, oppure di un multipartitismo temperato o esasperato.
I sistemi elettorali servono per eleggere un organo monocratico oppure un organo collegiale. Nel primo caso – l’organo monocratico – è facile, visto che a dover essere eletta è una sola persona (come il Sindaco di un Comune, o il Presidente della Giunta regionale oppure il Presidente della Repubblica in Francia e negli Stati Uniti). Si può stabilire che risulterà eletto quel candidato che avrà ottenuto il maggior numero di voti. Come dicono gli inglesi: first past the post. In alternativa, si può stabilire che verrà eletto soltanto quel candidato che avrà ottenuto la maggioranza assoluta dei voti, e cioè almeno il 50,1 per cento. Se ciò non dovesse accadere – come è frequente – si può allora stabilire un secondo turno di votazione (da tenersi dopo una quindicina di giorni), nel quale si verranno a sfidare soltanto i due candidati che avranno ottenuto il miglior risultato elettorale nel primo turno, e in tal modo si avrà un «ballottaggio»; oppure si potrà stabilire che al secondo turno si presentino un numero minimo di partecipanti, che potrà essere determinato sulla base dei risultati ottenuti nella prima votazione, e quindi i primi tre o i primi quattro, oppure sulla base di una percentuale di voti minimi ottenuti, e quindi tutti coloro che avranno conseguito almeno il 10 o il 15 per cento dei voti. Comunque sia, al secondo turno verrà poi eletto quel candidato che avrà ottenuto il maggior numero di voti rispetto agli altri competitori.
Più complessi sono invece i sistemi elettorali per eleggere un organo collegiale. Qui la divisione si fonda su due grandi «famiglie»: quella del maggioritario e quella del proporzionale, all’interno delle quali ci sono poi vari figli e figliastri, ovvero varie formule.
Per iniziare, la questione da risolvere è: come si assegnano i seggi, a seconda della famiglia? Con il sistema maggioritario i seggi vengono assegnati ai candidati che nei rispettivi collegi uninominali abbiano ottenuto la prescritta maggioranza relativa, assoluta o qualificata; allora, il maggioritario è quel sistema in base al quale chi prende più voti conquista il seggio in palio. Con il sistema proporzionale, invece, i seggi attribuiti a un collegio plurinominale vengono ripartiti tra le liste di candidati dei partiti concorrenti in proporzione alla percentuale di voti ottenuti; allora, il proporzionale è quel sistema con il quale si ripartiscono i seggi in rapporto percentuale rispetto ai voti dati dagli elettori a ciascun partito (per esempio: se i voti sono 10 milioni e i seggi da assegnare 100, il partito che ottiene 2 milioni di voti avrà assegnati 20 seggi). Si può altresì affermare – sia pure con qualche azzardo – che il sistema elettorale proporzionale postula un «voto sincero», perché consente all’elettore di esprimere liberamente la sua preferenza, mentre il sistema elettorale maggioritario richiede un «voto strategico», perché suggerisce all’elettore di concentrare i voti sui vincitori probabili.
E veniamo alle famiglie elettorali e alle varie formule che esse esprimono. Per quanto riguarda la famiglia del maggioritario, ci sono le formule maggioritarie a maggioranza relativa (plurality), che sono quelle in cui vince il seggio il candidato che ha ottenuto il maggior numero di voti nell’ambito di un collegio uninominale, come avviene in Gran Bretagna per la elezione della Camera dei comuni oppure negli Stati Uniti per la elezione della Camera dei rappresentanti. Ci sono poi le formule a maggioranza assoluta (majority), che sono quelle in cui vince il posto il candidato che ha ottenuto la metà più uno dei voti espressi. Queste ultime formule prevedono ovviamente, per il caso che nessun candidato ottenga la prescritta maggioranza, soluzioni alternative per l’assegnazione del seggio. Una prima soluzione è quella di procedere a un secondo turno di votazione tra i due candidati più votati in prima istanza. Una seconda soluzione è quella – prevista in Francia per la elezione dei deputati dell’Assemblea Nazionale – in cui accedono a un secondo turno soltanto quei candidati che hanno ottenuto una percentuale di voti minimi (in Francia fissata al 12,5 per cento degli elettori e non dei votanti). Una terza possibile soluzione –adottata in Australia– è quella del voto alternativo, sulla base del quale ogni elettore deve indicare l’ordine di preferenza dei vari candidati in lizza. Se nessuno ottiene la maggioranza assoluta con le sue prime preferenze, si computano anche le preferenze alternative ai candidati meno votati a partire dall’ultimo, fino a quando uno dei concorrenti rimasti in gioco raggiunga la maggioranza prescritta. Ci sono, infine, le formule a maggioranza qualificata, che sono però scarsamente applicate per le elezioni di rappresentanti politici, e sono più frequenti per l’assegnazione di alcune alte cariche, come – nell’ordinamento italiano – quella di Presidente della Repubblica o di giudice costituzionale da parte del Parlamento in seduta comune. Anche in queste ipotesi deve essere previsto un meccanismo alternativo di elezione per il caso del mancato raggiungimento della maggioranza richiesta. In genere si prescrivono delle successive votazioni a maggioranze più basse (per esempio, dopo la terza votazione, da quella dei due terzi dell’Assemblea a quella assoluta per l’elezione del capo dello Stato).
I sistemi elettorali proporzionali si possono distinguere, invece, a seconda del metodo di calcolo usato per la distribuzione dei seggi, e tenendo altresì in considerazione la grandezza della circoscrizione elettorale. Si usa differenziare i metodi basati sul comun divisore da quelli basati sul quoziente. I primi operano la divisione della cifra elettorale di lista (il totale dei voti ottenuti da un partito nella circoscrizione elettorale) per un determinato divisore via via crescente (per esempio per 1, 2, 3, ecc. fino alla concorrenza del numero dei posti da attribuire: metodo d’Hondt), e attribuiscono i seggi alle liste che abbiano ottenuto i prodotti più alti. I secondi, cioè quelli basati sul quoziente, invece, dopo aver diviso la cifra elettorale circoscrizionale per il numero dei posti da ricoprire (eventualmente maggiorato: per esempio +2: metodo Imperiali), e ottenuto in tal modo il quoziente elettorale (naturale o corretto), assegnano i seggi alle liste in ragione di quante volte il quoziente entra nelle rispettive cifre elettorali e dei più alti resti.
I sistemi elettorali tuttavia spesso si presentano misti, perché succede che le due famiglie – maggioritario e proporzionale – si accoppiano fra loro cercando così di combinare i vantaggi dell’uno con quelli dell’altro. E allora ci sono sistemi elettorali maggioritari con correttivo proporzionale, che consentono l’elezione di candidati in buona parte con metodo maggioritario e in parte ridotta con metodo proporzionale. Così come ci sono sistemi elettorali proporzionali con correttivo maggioritario, che consentono l’elezione di candidati sulla base dello scrutinio di lista di quei partiti che abbiano superato una soglia elettorale, cosiddetta «clausola di sbarramento», come in Germania che è fissata al 5 per cento per le elezioni del Bundestag; oppure attraverso la previsione di un premio di maggioranza che aiuta il partito o la coalizione di partiti a ottenere la maggioranza di seggi.
Conclusivamente, si è soliti fare un ragionamento di fondo riguardo l’incidenza dei sistemi elettorali sull’assetto politico. Si può dire, cioè, che i sistemi maggioritari tendono a evitare l’eccessivo frazionamento del sistema partitico – perché inducono i partiti a coalizzarsi tra loro – e rendono più facile la formazione di stabili maggioranze di governo, ovvero mirano alla governabilità; mentre i sistemi proporzionali, assicurando la massima rappresentatività delle assemblee elettive, evitano la sottorappresentazione dei partiti minori e rispecchiano con più fedeltà la scelta ideologica degli elettori, ovvero mirano alla rappresentatività. I sistemi misti, infine, cercano di compensare, in modo più o meno efficace, i vantaggi e gli svantaggi delle diverse formule, cercando, in tal modo, di perseguire al tempo stesso capacità rappresentativa e governabilità.
Più specificatamente, nell’ambito dei rapporti fra sistemi elettorali e sistema dei partiti, e di come l’uno condiziona e influenza l’altro, è ancora in atto, una discussione, tutta politologica, originata dalle cosiddette «leggi» di Duverger. La prima «legge» afferma che «il sistema maggioritario a un turno tende al dualismo dei partiti»; la seconda, invece, che «il sistema maggioritario a doppio turno e la rappresentanza proporzionale tendono al multipartitismo». Duverger spiega i differenti effetti dei sistemi elettorali in termini di fattori «meccanici» – cioè che tutti i partiti, eccetto i due più forti, sono sottorappresentati perché penalizzati in ogni collegio – e di fattori «psicologici» – perché gli elettori si rendono conto di sprecare il loro voto dandolo al terzo partito e quindi finiscono col votare uno dei due grandi partiti. Alle «leggi» di Duverger sono state mosse, negli anni, diverse critiche e obiezioni. Certo, più che criticare si può riconsiderare il rapporto tra sistemi elettorali e sistemi partitici, provando a distinguere tre importanti aspetti di questa tendenza: a) tutti i sistemi elettorali tendono a produrre risultati non perfettamente proporzionali; b) tutti i sistemi elettorali tendono a ridurre il numero effettivo dei partiti rappresentati in parlamento rispetto a quelli presenti nelle competizioni elettorali; c) tutti i sistemi elettorali possono costruire una maggioranza parlamentare per dei partiti che nella realtà non hanno ricevuto una tale maggioranza da parte degli elettori.
In conclusione, valga però questa regola anglosassone: il sistema elettorale serve a fare una maggioranza e un governo e non a rappresentare i sentimenti di una collettività.
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