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Socialismo liberale/Liberalsocialismo

di Michele Donno

«Liberalsocialismo», «socialismo liberale», «liberalismo sociale» sono concetti differenti che hanno avuto accezioni diverse nel linguaggio politico italiano ed europeo. Essi indicano determinate correnti politiche, operanti in Europa tra Ottocento e Novecento, che avanzarono il problema di inserire nell’ambito del processo di evoluzione del liberalismo quelle istanze proprie delle masse operaie organizzate, desiderose di perseguire un miglioramento delle condizioni di vita e di avere un ruolo più rilevante nella gestione della cosa pubblica e nella direzione dello Stato.

Di «liberalismo sociale» parlò già Hobhouse ne Il Liberalismo (1911). Esso consiste nell’estensione del principio di eguaglianza, sancito dal liberalismo politico nei rapporti giuridici e politici, anche alla sfera dei rapporti economici e sociali, favorendo, quindi, il passaggio da una democrazia politica a una democrazia sociale.

Per «socialismo liberale» si intende quel filone di socialismo non marxista che tende a dissociare il socialismo dal marxismo (già ai tempi di Marx si parlava di liberaler sozialismus). Si può ragionevolmente indicare in Gaetano Salvemini il precursore del moderno «socialismo liberale», essendosi egli posto per primo il problema del nesso fra democrazia e socialismo, non solo come studioso di Mazzini e Cattaneo ma anche nella sua attività politica, caratterizzata da un rapporto «difficile» con il socialismo italiano già a partire dai primi anni del Novecento, quando Salvemini, che si professava «riformista rivoluzionario», denunciò le degenerazioni corporative del riformismo.

Nella biografia di Salvemini vi è una fase estremamente interessante, e per lo più sottovalutata, in cui Salvemini riflette sulla crisi dello Stato liberale e sulla ricostruzione su nuove basi dello Stato, orientandosi verso la definizione di un «socialismo liberale». Egli dedicò, infatti, nel 1920, due importanti «postille» ai rapporti tra socialismo e liberalismo; nel primo di questi scritti Salvemini, che pure aveva combattuto durante il primo ventennio del Novecento un’accanita battaglia liberista, procedette alla dissociazione del liberalismo politico dal liberalismo economico, operazione quest’ultima che qualche anno dopo Benedetto Croce avrebbe compiuto sul versante liberale. Salvemini era ben cosciente di avere di fronte non più un regime di libera concorrenza ma la trasformazione in senso monopolistico del capitalismo. Non credeva, tuttavia, ad una crisi catastrofica del sistema capitalista ma all’urgenza di una sua «riforma» a opera del movimento operaio, inteso come «movimento economico e politico delle classi lavoratrici» e diretto non solo al miglioramento delle loro condizioni materiali ma alla trasformazione dei rapporti di produzione. Salvemini – come più tardi farà Carlo Rosselli – nell’altro dei due scritti, pur postulando il superamento del marxismo come filosofia della storia e dottrina economica, si rifà a Marx come «teorico del movimento operaio e della lotta di classe»: la prassi del movimento operaio era la «rivoluzione in atto». Salvemini, quindi, condivise l’impostazione del discorso di Filippo Turati Rifare l’Italia (1920), e cioè l’urgenza che i socialisti andassero al potere «non per attuare il socialismo ma per salvare la democrazia».

Il «liberalsocialismo» è, invece, più che una conciliazione del liberalismo con il socialismo, il superamento dialettico del socialismo e del liberalismo in una sintesi nuova. Da parte di molti studiosi ed esponenti del «liberalsocialismo», si è affermato che esso nella storia d’Italia ha una data e un luogo di nascita ben precisi. Guido Calogero nei suoi Ricordi del liberalsocialismo (1944) indica tale data nel 1936, con la nascita del Movimento liberalsocialista. Quest’ultimo, secondo Calogero, fu un «movimento antifascista» del «post-fascismo», senza rapporto di continuità con analoghi tentativi operati in precedenza. Calogero, infatti, oltre ad affermare la «rottura» generazionale e culturale con l’antifascismo liberaldemocratico e socialista liberale, indica nella critica al socialismo e alla democrazia, svolta sul piano politico da Giovanni Gentile, il punto di partenza del movimento, che successivamente maturò nel distacco da Gentile e nel passaggio a Croce. Ne risulterebbe, secondo la ricostruzione fornita da Calogero, che i liberalsocialisti non fossero a conoscenza dello sforzo di revisione del socialismo e del liberalismo che aveva avuto luogo prima dell’avvento del fascismo in quelle elaborazioni che si erano sviluppate fra il 1925 e il 1926, nel vivo della lotta al nascente regime fascista, e anche da quel dibattito che si era avuto precedentemente su «L’Unità» di Gaetano Salvemini, sulle tre riviste di Piero Gobetti, «Energie Nove», «La Rivoluzione liberale» e «Il Baretti», su «Il Caffè» di Ferruccio Parri, sulla «Critica Sociale» di Filippo Turati, su «Quarto Stato» di Pietro Nenni e Carlo Rosselli, «Critica Politica» di Oliviero Zuccarini e su «Pietre». Secondo Calogero, né il gruppo liberalsocialista né gli altri gruppi antifascisti in Italia erano al corrente, poi, delle teorizzazioni più mature espresse nel Socialismo liberale di Carlo Rosselli pubblicato in edizione francese nel 1930.

Socialisme liberal era, però, in vendita a Parigi ancora nel 1938 e se non ebbe una larga diffusione in Italia per effetto della censura, esso fu conosciuto nell’ambiente dei fuoriusciti e degli esponenti di Giustizia e Libertà in Italia; basti pensare alla citazione che ne fece Carlo Levi nel suo saggio su Gobetti e a Leone Ginzburg. Anche Croce ne ebbe conoscenza. Del resto le elaborazioni precedenti di Rosselli, e in particolare i suoi articoli sul concetto di «liberalismo socialista», comparsi nel 1924 su «Critica Sociale» e su «Rivoluzione Liberale», non potevano essere sconosciuti, così come anche i suoi articoli su «Quarto Stato». Una divulgazione del nucleo centrale delle teorie rosselliane venne poi largamente operata dal periodico clandestino «Giustizia e Libertà». Nel suo saggio Socialismo liberale, Rosselli si domanda cosa sia il liberalismo. Nel dare una risposta a questa domanda – secondo Rosselli – si deve ricorrere a un’analisi storica. Dopo il tramonto dell’assolutismo, era possibile per tutti definirsi liberali e vi era un minimo denominatore comune rappresentato dalla tutela delle libertà di culto, di pensiero, di associazione, di stampa e dal fondamento del potere sulla volontà del popolo, espressa attraverso il meccanismo rappresentativo. Ma vi sono interpretazioni diverse nell’esercizio di queste libertà. Tutto il conflitto si sviluppa fra i seguaci del «sistema» e del «metodo» liberali. Per «sistema» si possono intendere lo stato moderno o il sistema capitalistico borghese; per «metodo» liberale, Rosselli riteneva che esso consistesse nella «premessa fondamentale che la libera persuasione del maggior numero è il miglior mezzo per raggiungere la verità». Il metodo liberale deve essere considerato il «minimo comune denominatore di civiltà»; si tratta di un sistema di regole che garantiscono la pacifica convivenza dei cittadini e delle classi ed umanizzano la lotta politica, permettendo l’alternativa al potere dei vari partiti e classi, «incanalando nella legalità le forze progressiste».

Con Socialismo liberale, la critica di Rosselli al socialismo marxista si traduce nel disegno di conciliare e fondere insieme socialismo e liberalismo, attraverso programmi economici «misti», in parte collettivisti e in parte liberali. Polemizzando con Otto Bauer, Rosselli affermava che i «veri» liberali si trovavano in quella particolare «minoranza storica» costituita dal proletariato. La funzione liberale e liberatrice era esercitata dal movimento socialista come erede del liberalismo «rivoluzionario». Rosselli accoglieva, tuttavia, solo in parte le riserve di Guido De Ruggiero e di Bauer sul rispetto, da parte del socialismo italiano, del metodo liberale. Per Rosselli il «problema consiste […] nel far sì che le classi lavoratrici siano pienamente consapevoli e degne del loro compito liberale», il che poneva il problema dell’esplicito rinnegamento della violenza; non vi è un’incompatibilità tra liberalismo e socialismo, soprattutto se si guarda non tanto alla teoria ma alla prassi del movimento operaio.

Il passaggio cruciale di questa acquisizione del «metodo liberale», come accettazione di regole e di valori, è, quindi, il «rifiuto della violenza», non solo nel momento precedente alla conquista del potere ma anche successivamente. Si tratta di abbandonare l’idea della rivoluzione come «atto insurrezionale», ma anche della violenza come mezzo per governare il processo di transizione. Rosselli ribadisce quanto ormai è assunto come un dato comune della teoria gradualistica e riformistica e cioè «che non si possa giungere al socialismo improvvisamente, con un colpo solo». Il metodo democratico deve garantire questo passaggio al socialismo e presiedere all’organizzazione di una società socialista, poiché anche quest’ultima deve vivere sul consenso. Ma il rifiuto della violenza non significa rinuncia al «diritto alla resistenza», nel momento in cui la violenza sia esercitata nei confronti della maggioranza, come nel caso del fascismo.

Rosselli affronta, poi, il problema della compatibilità tra socialismo e liberalismo, affermando che al pari del liberalismo il socialismo è una aspirazione e una «fede», non una costruzione chiusa e dogmatica; è una concezione sempre perfettibile e superabile. Rosselli, sempre in polemica con Bauer, parlava di «socialismo dei liberali», dicendosi convinto che l’abito mentale di un socialista non è dogmatico: «io non credo – scriveva Rosselli – alla dimostrazione scientifica del socialismo, non credo di possedere la verità assoluta, non intendo chinare la fronte davanti a dogmi. Sono socialista per un insieme di principi, di esperienze, per la convinzione tratta dallo studio dell’evoluzione dell’ambiente in cui vivo» [Rosselli 1924]

Autonomia della classe operaia, autoconquista e autocoscienza, penetrazione dei valori del socialismo nello stato liberale sono, dunque, i caratteri di questo socialismo «nuovo» che deve riformarsi facendo propri i valori del liberalismo. Al suo apparire, Socialismo liberale venne giudicato negativamente, non solo dai comunisti ma anche da esponenti socialisti italiani. Giuseppe Saragat, intervenendo nel dibattito, riconosceva al libro dell’amico e compagno «il rigore della deduzione e la sicurezza dell’informazione» [Saragat 1931], ma criticava lo sforzo dell’autore di costruire un socialismo su basi non marxiste e lo accusava di cadere in realtà nell’antimarxismo seguendo il percorso compiuto da socialisti come Karl Renner, l’ex cancelliere austriaco dell’immediato dopoguerra, e il belga Henri De Man, che proprio in quegli anni, con il suo libro Psicologia del socialismo del 1927, aveva cercato di smentire lo stesso Marx, sostenendo che il capitalismo non fosse prossimo alla fine.

Saragat, quindi, criticò la tesi centrale del saggio di Rosselli costituita dall’opposizione tra marxismo e libertà. E proprio su questo tema, Saragat si era impegnato ad elaborare una riflessione più compiuta: tra il 1927 e il 1928 aveva scritto un saggio, pubblicato a Marsiglia nel febbraio 1929 e intitolato Marxismo e democrazia (nel 1936, pubblicherà L’umanesimo marxista). Democrazia e lotta di classe rappresentavano per Saragat due momenti nello sviluppo delle libertà: il primo era la premessa ideale del secondo, premessa che sarebbe da quest’ultimo stata superata «al modo con cui le sintesi dialettiche superano i termini antagonistici e cioè non con la loro distruzione ma con la loro incorporazione ad un grado più alto […] La lotta di classe è una lotta democratica, democratica perché è liberatrice, democratica perché è rivoluzionaria» [Spertia (G. Saragat) 1929]. La condizione centrale nella lotta di classe era il suo libero sviluppo, garantito più che dalla prevalenza numerica in un regime democratico, dal fatto stesso della democrazia. Il compito specifico del proletariato era, dunque, secondo Saragat, la conquista della democrazia tout-court.

Nella successiva polemica con Rosselli, dopo l’uscita di Socialismo liberale, Saragat ribadiva che «il problema è di sapere se la teoria marxista indipendentemente dal suo aspetto teleologico – o deterministico, come sostiene Rosselli – è nei suoi fini e nei suoi mezzi conciliabile con l’idea di libertà. In altre parole il problema è di sapere se il fine che Marx prevede e se i mezzi che giudica adeguati al fine sono liberi» [Saragat 1931, p. 181]. Secondo Saragat, l’errore di Rosselli consisteva «nel confondere la ineluttabilità dei fini con la meccanicità delle cause, nel confondere insomma la teleologia, che è in un certo senso atto di fede, con il determinismo che è impassibilità della materia» [ivi, p. 182]. Da questo errore, cioè da questo fraintendimento del pensiero marxiano, Rosselli sarebbe giunto – secondo Saragat – all’errore di fondo: escludere dal marxismo ogni elemento etico, affermando quindi una sorta di amoralismo in Marx. E, invece, Saragat sosteneva: «La eticità marxista non è nelle frasi ma nella materia che sovverte e che compone verso un fine di assoluta libertà. L’eticità marxista infine è in quella coscienza di classe che presuppone con la sensibilità dell’oppressione la volontà della emancipazione» [ibidem].

Tra coloro che contribuirono alla prima formulazione di un programma liberalsocialista vi furono, tra gli altri, Guido Calogero, Tommaso Fiore, Piero Calamandrei e Leone Ginsburg, tutti coinvolti, in modo diverso, nel dibattito che aveva preceduto e seguito Socialismo liberale e che in momenti diversi avevano avuto contatti con Rosselli. Nel primo Manifesto del liberalsocialismo non vi è nessuna polemica né con il socialismo liberale né con Benedetto Croce; vi è, invece, un tentativo di conciliazione del liberalismo con il socialismo: a fondamento del liberalsocialismo vi è il concetto della sostanziale unità e identità della ragione ideale, che sorregge e giustifica tanto il socialismo nella sua esigenza di giustizia quanto il liberalismo nella sua esigenza di libertà. Queste ragioni ideali coincidono con lo stesso principio etico. Nella premessa del Manifesto si respinge energicamente la tesi della inconciliabilità tra liberalismo e socialismo – inconciliabilità che Croce affermerà solo più tardi – e si afferma il legame fra i valori etico-politici delle due tradizioni, pur non negando l’esistenza di un liberalismo che non si accorda con il socialismo e di un socialismo che non si accorda con il liberalismo. Nel Manifesto si opera, da parte dei liberalsocialisti, una critica dell’«individualismo (il liberalismo ingenuo)» e del «liberalismo antiquato e conservatore» e nello stesso tempo si esprime una condanna molto più forte e circostanziata del socialismo «marxistico e autoritario», che vede «nella dittatura del proletariato la condizione delle future libertà» e crede «che l’ideale della giustizia sociale debba essere dedotto dalla scienza dell’economia»; affermazioni queste ultime che dovrebbero avvicinarsi alle posizioni di Croce nel suo Etica e politica.

Vi è poi un accenno implicito ma sostanzialmente favorevole al «socialismo liberale», «questo socialismo, fondato sulla libertà è radicato nella più profonda aspirazione morale dell’uomo, quel liberalismo assetato di giustizia e deciso a non contentarsi di libertà che possono essere irrise come vuote, convergono e coincidono nel liberal-socialismo» [Calogero1945, p. 64]. Vi è perciò, in questo momento, coincidenza e convergenza tra socialismo liberale e liberalismo sociale.

Da Croce derivò successivamente la separazione tra liberismo e liberalismo, ma anche l’accettazione dell’«economia mista» e della critica al «taylorismo», presente nel socialismo di De Man e soprattutto nel volume intitolato Gioia del lavoro – fatto conoscere da Croce e che aveva influenzato sia Rosselli che Gramsci. A partire dal 1941, Croce procedette a una confutazione del «liberalsocialismo» e più tardi del «socialismo liberale» e anche del «liberalismo sociale», in nome di un «liberalismo assoluto». Eppure egli, che aveva decretato la «morte del marxismo», aveva guardato con simpatia all’emergere nel socialismo italiano ed europeo di una corrente di revisione in senso liberale del socialismo. È, infatti, a partire dal 1925, quando cioè si profila in Europa il pericolo totalitario, l’emergere del fascismo-regime e della degenerazione autoritaria del comunismo sovietico, che Croce è disposto a incoraggiare l’evoluzione democratica del liberalismo e a dedicare attenzione a quei filoni del socialismo non marxistico che facevano propri i valori del «sistema» e del «metodo» liberale. Nel suo Liberismo e liberalismo ritiene conciliabile un sistema politico liberale con riforme e istituzioni economiche derivanti da una concezione socialista; negli scritti di quel periodo, tuttavia, non vi è alcun riferimento al pensiero di Rosselli.

Successivamente Croce, che aveva dimostrato ammirazione per la Storia del liberalismo europeo di Guido De Ruggiero, il quale, come si vedrà più avanti, aveva sostenuto la «funzione liberale» della prassi del movimento operaio, non mancò ancora di riconoscere nella sua Storia d’Europa la grande funzione di emancipazione che ebbe il socialismo. Croce aveva incontrato Rosselli a Parigi nel 1932, prendendo in esame le elaborazioni alla base del programma di Giustizia e Libertà, che il filosofo napoletano confessò poi nelle sue Note ad un programma politico (1943) di aver «visto nascere». Ciò dimostra, dunque, quanto Croce fosse a conoscenza delle idee di Rosselli e del suo socialismo liberale.

Una decisa condanna, tuttavia, venne, poi, indirettamente nel momento costituente del Movimento liberalsocialista e infine, in via diretta ed esplicita, con la nascita del Partito d’azione. Le obiezioni che Croce muoveva al «socialismo liberale» – o «liberalsocialismo» – erano di carattere politico e filosofico. Egli temeva che si ingenerasse una confusione tra socialismo e liberalismo e soprattutto che si venisse a ricostituire in Italia un movimento socialista, che nei suoi rapporti incerti e alterni con il liberalismo, avrebbe ripetuto gli stessi errori, le compromissioni e le inconcludenze che furono «non ultima cagione della crisi accaduta in Italia» con l’avvento del fascismo. Croce temeva, inoltre, che il prevalere nel Partito d’azione di un programma socialista, che consisteva nella «proclamazione di una rivoluzione sociale», avrebbe portato a una nuova dittatura, dichiarando, quindi, inconciliabile il liberalismo con il socialismo. La condanna diretta al «socialismo liberale» si ebbe, infatti, con la recensione al libro di Aldo Garosci (Vita di Carlo Rosselli, 1946). Pur riconoscendo all’autore di Socialismo liberale e fondatore di Giustizia e Libertà di aver dato luogo all’«unico prodotto dottrinale dell’emigrazione italiana» e «all’unica azione concreta contro il fascismo», Croce condannò quell’«eresia».

De Ruggiero, dal canto suo, sosteneva che il marxismo fosse intellettualmente errato e che, soprattutto, fosse privo di fondamento il concetto di lotta di classe. Egli, infatti, negava l’esistenza delle classi, convinto dell’impossibilità di dimostrare la validità della divisione per classi della società, sostenendo che il liberalismo non fosse la dottrina politica di una classe sociale contrapposta ad un’altra. Nel liberalismo, invece, si confrontavano tutte le forze sociali, e in questo confronto si realizzava la società liberale. Queste sue posizioni lo distanziavano da Gobetti, il quale, invece, sosteneva che proprio l’organizzazione di classe e il movimento operaio avrebbero dovuto dare la spinta propulsiva al movimento liberale.

Numerosi testi di De Ruggiero sottolineano la validità liberale della battaglia socialista, come momento di organizzazione e sviluppo di energie nuove nella società; per questa ragione, secondo De Ruggiero, le forze liberali avrebbero compiuto un grande errore nell’avversare il socialismo, diventando in questo modo strumento di contrapposti interessi di categoria. Negli anni cruciali per l’affermarsi del regime fascista, molti liberali appoggiarono il fascismo e De Ruggiero denunciò fortemente il pericolo che per il liberalismo rappresentava l’identificarsi con le posizioni di classe; il filosofo liberale, quindi, prese le distanze dal liberalismo ufficiale, a tal punto che arrivò a sperare nel fallimento dei partiti liberali e democratici ufficiali, denunciando come in quella difficile fase della storia italiana vi fosse più carica liberale nel movimento socialista e in quello cattolico, che non in quegli esponenti dell’Italia liberale schierati al fianco del regime fascista.

De Ruggiero sosteneva un liberalismo capace di condividere con il socialismo democratico una battaglia comune per il progresso sociale e la difesa delle libertà nell’interesse generale. Questa convinzione, in conclusione, portò gli esponenti del liberalismo democratico ad allontanarsi dalle altre forze liberali e da buona parte dello schieramento cattolico.

Nella sua Età del Risorgimento (1931) il giudizio di Adolfo Omodeosul socialismo è assai severo. Egli riconosce che all’interno del movimento operaio si vengono a formare «due indirizzi contrastanti: uno moderato e evolutivo e democratico e uno residuo, rivoluzionario e violento e dittatoriale». Nel 1924 – Stalin non era ancora succeduto a Lenin –, Omodeo osservava come il riformismo prevalesse nei paesi più evoluti. Anzi, dalla guerra e dal violento impoverimento del mondo avrebbe tratto l’occasione la corrente rivoluzionaria più pura (cioè il bolscevismo) per divampare di nuovo. In ciò Omodeo vede in effetti il fallimento della profezia marxiana. Egli non riconosce – a differenza di De Ruggiero – una funzione positiva e «liberale» al socialismo. Omodeo contestava che il socialismo nei paesi ricchi finisse per accettare, sulla base di interessi corporativi, l’imperialismo. Le espansioni coloniali, quindi, cointeressavano anche i partiti operai presenti nella economia nazionale; si assisteva, in sostanza, all’integrazione della classe operaia dei paesi industrializzati nel sistema capitalistico.

Questo severo giudizio sul socialismo, che potrebbe dare una connotazione conservatrice al pensiero politico di Omodeo, si collega però a una rilettura del pensiero sociale di Mazzini e ad una riflessione in senso democratico del liberalismo.Omodeo, come De Ruggiero, non rinnega la lezione crociana sia di Etica e politica che di Liberismo e liberalismo. Omodeo non trova in realtà contraddizione tra il liberalismo «radicale» di Croce e la concezione della «libertà liberatrice» o espansiva, o se si vuole di «liberalismo sociale», che lo accomuna a De Ruggiero.

Come De Ruggiero, anche Omodeo critica la teoria liberalsocialista di Calogero. Nella critica al «liberalsocialismo» e al «socialismo liberale», Omodeo si rifà alla religione della libertà di Croce affermando il «congiungimento radicale della libertà politica con la libertà morale, della libertà come principio dinamico». Per Omodeo, la libertà è indipendente da ogni contenuto economico, liberalistico o marxistico. La libertà si regge espandendo la comunità dei liberi, concetto questo che gli derivava da Mazzini. La libertà è liberatrice e la liberazione diviene essa stessa generatrice di giustizia.

Omodeo invocava un rinnovato mazzinianesimo, liberato da ogni elemento mitico e da ogni visionaria concezione palingenetica e proponeva un programma di riforme – lotta ai monopoli, eliminazione delle differenze sociali, allargamento del ceto politico, linguaggio comune, rapporto con le masse. Ciò potrebbe apparire come un programma socialista ma Omodeo riduce il socialismo a materialismo storico e non dà nessun credito alla revisione «liberale» del socialismo, con ciò criticando fortemente le teorie rosselliane.

Bibliografia

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Brano tratto dal "Dizionario del liberalismo italiano", edito da Rubbettino Editore. Clicca qui per acquistarlo con il 15% di sconto