Stampa (libertà di)
di Maurizio Griffo
Come aveva già osservato Guido De Ruggiero, quella di stampa è una libertà recente. A differenza di altre libertà civili, essa comincia ad essere rivendicata solo con lo sviluppo e l’affermazione del giornalismo. Non casualmente una prima rivendicazione della libertà di diffondere le proprie idee per iscritto si trova nell’Aeropagitica di Milton che risale al 1644, è composta cioè nel pieno di quella rivoluzione inglese, caratterizzata da una amplissima produzione di libelli e tracts di stampa. Oltre un secolo dopo, la libertà di stampa è espressamente richiamata nelle dichiarazioni dei diritti e nei testi costituzionali delle rivoluzioni americana e francese. Anche in questo caso i sommovimenti politici sono accompagnati da una fioritura impetuosa di pamphlets e, soprattutto, di giornali e periodici.
In Italia è nel triennio giacobino che, sulla scia degli avvenimenti di oltralpe, la libertà di stampa fa la sua comparsa come diritto fondamentale. La troviamo infatti statuita nelle dichiarazioni dei diritti e dei doveri della Repubblica cispadana (1797) e della Repubblica napoletana (1799), e nella costituzione della Repubblica Cisalpina (1797). Per quanto si tratti di documenti costituzionali mai entrati in vigore o di brevissima durata, a questa proclamazione corrisponde, in quella fuggevole stagione, una possibilità di espressione molto più ampia che in precedenza. Nel periodo immediatamente successivo, però, la situazione peggiora di molto. Nel decennio napoleonico la stampa non è libera, ma severamente regolamentata; durante la Restaurazione è sottoposta a censura preventiva. Tuttavia la rivendicazione della stampa libera si riaffaccia nei tentativi di scuotere il giogo dei governi assoluti. Così è nell’effimera Costituzione napoletana del 1820, così nel Progetto di Costituzione per l’Italia fatta libera e indipendente all’anno1835, del 1832. Il panorama cambia con il 1848. Le carte e le costituzioni promulgate nel corso dell’anno registrano una sostanziale apertura liberale. Certo le soluzioni adottate sono diverse e rimandano alle differenti condizioni storiche che le modellano (carte ottriate, oppure costituzioni scritte da assemblee legislative). Ad esempio lo Statuto fondamentale per il governo temporale degli Stati della Chiesa, promulgata per volontà di Pio IX, abolisce la censura governativa (ma non quella ecclesiastica), stabilendo che misure repressive sarebbero state fissate da un’apposita legge. La Costituzione della Repubblica romana, che le succede immediatamente, presenta una formulazione notevolmente più aperta, limitandosi a proclamare la piena libertà di manifestazione del pensiero. Fatta salva questa specifica, resta, comunque, che l’affermazione della libertà di stampa è una costante delle costituzioni italiane quarantottesche. Oltre agli esempi richiamati, la ritroviamo infatti nello Statuto albertino, nello Statuto fondamentale del granducato di Toscana, nelle Basi di una costituzione per il ducato di Parma, nella Costituzione del regno delle Due Sicilie, nello Statuto costituzionale del regno di Sicilia.
Decisivo e dirimente, semmai, è il contesto politico complessivo in cui quelle proclamazioni vanno a collocarsi. Per comprenderlo basterà un confronto tra due situazioni che si possono considerare speculari. A Napoli la costituzione, contestualmente alla libertà di stampa, prevede una legge per frenarne gli eventuali eccessi, regolamentando le offese alle istituzioni, alla religione ed ai privati. Invece della legge, a maggio viene emanato un decreto che segna severe restrizioni alla libertà giornalistica. Alle vigorose proteste liberali il governo fa fronte presentando nell’agosto il previsto disegno di legge. Ma nel marzo dell’anno successivo, quando Ferdinando II decreta lo scioglimento delle camere legislative da poco di nuovo riunite, la legge non era ancora stata approvata. In questa vicenda particolare, insomma, si riverbera quella netta divaricazione tra l’assolutismo del sovrano, che aveva concesso la carta con la riserva mentale di revocarla appena si fossero create le condizioni favorevoli, e l’orientamento liberale dei componenti della camera bassa, che tentano inutilmente di imporre un regime rappresentativo.
In Piemonte, già nel corso del 1847, si registra un significativo mutamento di clima. Dal mese di ottobre, Carlo Alberto consente la pubblicazione di giornali politici. Fra la fine di quell’anno e l’inizio del successivo nascono numerose testate di vario orientamento politico («Il Risorgimento», «L’Opinione», «L’Armonia», «La Concordia»). Lo Statuto, promulgato il 5 marzo, garantisce la libertà di stampa (art. 28). L’editto che ne regolamenta l’esercizio viene emanato a poche settimane di distanza (26 marzo). Soprattutto, poi, l’esperienza piemontese del cosiddetto decennio di preparazione sarà paradigmatica per orientare la libertà di stampa dell’Italia unita. Cavour non solo si adopera per parlamentarizzare il regime semplicemente costituzionale disegnato dallo Statuto, ma riesce a impiantare un governo rappresentativo articolato nei suoi snodi essenziali, nel quale la stampa svolge un ruolo importante di veicolo dell’opinione pubblica. La posizione dello statista piemontese è sintetizzata in un discorso alla camera del febbraio 1852, dove si esprime la convinzione che un’attitudine repressiva in materia di stampa sia poco produttiva ai fini di un ordinato svolgimento della vita pubblica. A suo avviso è opportuno che i partiti estremi non siano costretti, dalle maglie di una legislazione eccessivamente vincolistica, a mascherare le loro convinzioni profonde, ma possano esporle liberamente. In questo modo quelle correnti politiche saranno riportate naturalmente alla condizione minoritaria che è loro propria.
Analogamente a quanto avviene con lo Statuto, anche l’editto sulla stampa, al momento dell’unificazione, è esteso alle altre province italiane, restando in vigore, con poche modifiche, per tutto il sessantennio dello stato liberale. Ispirato alla legislazione francese prequarantottesca, l’editto ne costituisce una rielaborazione in chiave più apertamente liberale. Esso riconosce il diritto di pubblicare periodici a tutti i cittadini, senza alcuna autorizzazione o licenza governativa. Non sono previste tasse o imposte speciali sulle imprese giornalistiche, né onerosi depositi al momento della registrazione del periodico. Restano però alcune ambiguità, relative anzitutto alla responsabilità penale di quanto pubblicato. Questa ricade su di un gerente responsabile (di solito un prestanome estraneo alla vita redazionale), ma si cercherà di estenderla, oltre che all’autore dell’articolo contestato, anche al direttore. Soprattutto, rimane un non trascurabile potere discrezionale alle autorità pubbliche, che possono decretare il sequestro preventivo di numeri del giornale o anche la sospensione della testata, vessando od ostacolando, attraverso sequestri ripetuti, dei giornali sgraditi al potere politico. Cosa accaduta nel decennio di preparazione e ripetutasi successivamente, soprattutto nei confronti di fogli sovversivi. Nel complesso, però, l’editto costituisce una cornice normativa che consente, nel corso del tempo, un consolidamento della libertà di manifestare per iscritto le proprie opinioni. Emanato quasi in contemporanea con lo Statuto che, per quanto ottriato era irrevocabile, l’editto gode di un prestigio simile a una legge costituzionale, condizione che ne fa un palladio a difesa della libertà non facilmente aggirabile. Valutato sull’intero arco di tempo della sua durata, lo si può considerare come un compromesso accettabile da tutti, perché in grado di consentire un equilibrio durevole fra le aspirazioni restrittive avanzate periodicamente dai settori più conservatori dello schieramento politico, e la richiesta di una libertà di stampa senza alcuna limitazione auspicata dai partiti estremi.
Un punto di equilibrio tanto più decoroso se si pone mente alla condizioni dell’Italia del tempo. Un giovane stato ancora imperfettamente legittimato, caratterizzato da un alto tasso di analfabetismo, che offriva un tessuto sociale ancora troppo povero per consentire lo sviluppo di una stampa di opinione, tendenzialmente svincolata da obbedienze o dipendenze politiche.
In questo lunga fase, la più seria minaccia alla libertà di stampa si ha durante la cosiddetta crisi di fine secolo. Cioè quando, dopo la brusca conclusione dell’esperienza crispina, per fronteggiare il crescere della questione sociale si pensa di rimettere in discussione gli equilibri costituzionali precedenti. Nel giugno 1898 il secondo governo Di Rudinì, presenta, fra varie misure restrittive, una proposta di legge per limitare drasticamente la libertà di stampa. L’anno successivo il progetto viene riproposto, in versione peggiorata, dal nuovo governo Pelloux. In particolare, è previsto un aggravamento delle pene per i reati a mezzo stampa, con l’aggiunta anche di una nuova fattispecie penale, il reato di turbamento dell’ordine pubblico per aver pubblicato notizie tendenziose. All’autorità giudiziaria viene conferito il potere di sospendere per tre mesi qualunque giornale o periodico. Infine, oltre alla responsabilità penale dell’autore e del gerente, si configura anche la responsabilità civile del tipografo. Le misure repressive e liberticide non arrivano a tradursi in norme positive per l’opposizione di un vasto schieramento comprendente non solo le opposizioni (anarchici, socialisti, radicali, cattolici), ma anche importanti esponenti del liberalismo costituzionale (Giolitti, Zanardelli).
La stagione giolittiana, apertasi con il nuovo secolo, vede instaurarsi un diverso clima politico, nel solco di una interpretazione più larga del dettato statutario. Una condizione che si risente anche sul versante della libertà di espressione. Come esito finale di una iniziativa parlamentare che prende nel mosse nel 1901, con una legge approvata nel giugno del 1906 viene abolito uno dei più odiosi strumenti repressivi consentiti dall’editto albertino, il sequestro preventivo. La situazione cambia del tutto, per ragioni di forza maggiore, al momento dello scoppio della Prima guerra mondiale. Già qualche settimana prima dell’entrata in guerra, con una legge approvata a marzo, si stabilisce che il governo possa vietare, quando lo ritiene necessario, la pubblicazione di notizie sulla situazione militare dello Stato. Tale facoltà viene tradotta quasi subito in pratica. A maggio un decreto proibisce, pena il sequestro della testata, che i giornali diano autonomamente notizie sul numero delle vittime (morti e feriti), informino sulle nomine dei comandi, facciano previsioni sulle operazioni militari, senza riportare comunicazioni ufficiali. Dal momento dell’entrata in guerra dell’Italia opera anche la censura militare che, nelle varie città, sottopone i giornali a un controllo occhiuto, spesso costringendoli a uscire con larghe parti cancellate. Infine, anche l’attività dei corrispondenti dal fronte subisce onerose restrizioni, sia dal punto di vista quantitativo, che in merito alle loro possibilità di movimento. Solo con il passare del tempo, quando si fa strada l’esigenza che la stampa svolga una funzione di tramite necessario con l’opinione pubblica per garantire un adeguato sostegno allo sforzo bellico, agli inviati di guerra si consente una maggiore libertà di azione, ma sempre nei limiti fissati dalle norme restrittive in vigore. Una simile compressione della libertà d’informare, certamente assai drastica, si spiega con la vicenda del tutto eccezionale della guerra. Tant’è vero che si riscontra, con caratteri in larga parte analoghi, in altri paesi belligeranti.
Con la fine del conflitto la condizione della stampa torna alla normalità. La normalità non torna invece per l’Italia. La crisi innestata dalla guerra non si risolve ma si aggrava con il passar del tempo. I tentativi di ricreare uno stabile equilibrio nelle istituzioni e di riportare un po’ di ordine in un paese devastato dalla violenza falliscono. Il collasso dello stato liberale apre la strada al fascismo che si impone con un misto di violenza, intimidazione, volontà di potenza, spregiudicatezza senza limiti. Le ricadute dell’avvento del regime mussoliniano, e del suo consolidarsi, sulla libertà di stampa, come sulle altre libertà liberali, sono esiziali. La progressiva demolizione della libertà giornalistica avviene con un’escalation nella quale si mescolano la brutalità e l’allettamento e l’improvvisazione convive con la mancanza di scrupoli. Nel luglio del 1923 viene presentato un decreto che conferisce ai prefetti, diretta emanazione del governo (e non più alla magistratura come nel progetto Pelloux), un amplissimo potere discrezionale. Essi possono, qualora siano state pubblicate notizie che allarmino la popolazione o turbino l’ordine pubblico, diffidare il gerente e farlo poi decadere. Rimasto sospeso per circa un anno, il decreto viene reso operativo, inasprendone semmai il dettato repressivo, nel luglio del 1924, a un mese dal delitto Matteotti. Nel corso del 1925, superata la fase critica successiva all’uccisione del deputato socialista, il fascismo si afferma definitivamente accentuando gli aspetti autoritari. Sotto il profilo che qui c’interessa occorre segnalare la nuova legge sulla stampa approvata alla fine dell’anno. Due le misure cardine del provvedimento, che si aggiunge, senza mutarlo, al decreto precedente. Al gerente si sostituisce la figura del direttore responsabile, che deve avere il gradimento del governo. Viene istituito anche l’ordine dei giornalisti, legando l’esercizio dell’attività all’iscrizione all’albo. L’anno successivo, con il varo delle cosiddette “leggi fascistissime”, viene cancellato ogni residuo margine di libertà. All’inizio di novembre, subito dopo l’attentato Zamboni, si ha un’ultima stretta di freni, con il sequestro o la chiusura di numerosi giornali. A quel punto la stampa libera non esiste più. Le testate che non sono state chiuse sono dirette da giornalisti legati al regime. Il fascismo non si limita a cancellare la libertà d’informazione, ma attraversato da una pulsione totalitaria, dirige la vita giornalistica. L’ufficio stampa della presidenza del consiglio prima e poi il ministero della cultura popolare imbeccano ai giornali le notizie da pubblicare, orchestrando le campagne politiche che il governo promuove a getto continuo come un improprio succedaneo della libera opinione.
Nel luglio 1943, la caduta del fascismo significa una immediata ripresa della dialettica politica, ma non una piena ripresa della libertà di stampa, perché la drammatica evoluzione del conflitto non lo consente. A ottobre gli Alleati autorizzano la pubblicazione di giornali nelle zone liberate. Nel gennaio 1944 tale potere viene trasferito al governo che, con un decreto, demanda ai prefetti la facoltà di autorizzare la stampa dei periodici. A partire dal gennaio 1946, con il passaggio dei poteri su tutto il territorio nazionale al governo italiano, la situazione si va normalizzando. Poco prima della convocazione dell’Assemblea costituente il potere di sequestro dei giornali viene rimesso alla magistratura. A suggello di questa stagione di ripresa democratica, sta la formulazione della costituzione repubblicana, dove abbiamo un riconoscimento pieno della libertà di espressione (art. 21). Già la dizione scelta, per cui titolari del diritto siano «tutti» e non «i cittadini italiani» (come si evince dalla discussione in aula) fa capire che alla libertà di stampa si vuole dare un valore larghissimo, tant’è vero che esso è esercitabile, all’interno del territorio della repubblica, anche da non italiani. La possibilità di sequestri non solo viene limitata a casi eccezionali, ma è affidata esplicitamente all’autorità giudiziaria, ripristinando una piena divisione dei poteri. Anche la registrazione, che resta obbligatoria, non è intesa come un’autorizzazione bensì come una semplice formalità per garantire la pubblicità della pubblicazione.
Rispetto alla cornice normativa generale, la realtà resta più vischiosa. Non viene modificata la normativa sui reati a mezzo stampa di epoca fascista. Anche l’esistenza dell’ordine dei giornalisti costituisce una limitazione di una piena libertà. Quanto ai nuovi mezzi di comunicazione di massa (radio, poi televisione), in continuità con l’esperienza fascista, essi restano monopolio statale costituendo un altro vincolo a una piena libertà di espressione. Tuttavia, queste limitazioni non risulteranno decisive, perché altri fattori le contrasteranno in modo decisivo. L’evoluzione del costume (che si svecchia e si modernizza rapidamente), lo sviluppo socio-economico del paese (che conosce una crescita a tratti tumultuosa), il tono generale della vita pubblica (che si configura come quella di una democrazia avanzata sotto molti rispetti), vanno in una direzione durevolmente favorevole all’incremento dell’area delle scelte individuali. Logico che anche la libertà di stampa non sia più messa in discussione. Logico ancora che col tempo (a partire dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso, a seguito di una sentenza della Corte costituzionale), si configuri una liberalizzazione delle frequenze radio-televisive. In epoca più recente, poi, lo sviluppo delle nuove tecnologie della comunicazione, in primo luogo la rete informatica, sta cambiando radicalmente il significato della libertà di scrivere e di comunicare, estendendola e ramificandola in una maniera che in precedenza non era dato immaginare.
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