Musicisti
di Antonio Rostagno
La storia politica dell’Italia liberale si colloca grosso modo fra l’Unità e la Prima guerra mondiale, con largo ritardo sul resto d’Europa. Ma la storia dell’idea liberale anche in Italia va retrodatata agli ultimi anni del Settecento. Se si accetta questa sia pur rozza cronologia, può dirsi che l’«età liberale italiana» abbia coinciso quasi esattamente con la parabola creativa di Giuseppe Verdi.
In secondo luogo il teatro d’opera sembra avvertire sempre più l’urgenza di tematizzare i valori di libertà, eguaglianza, tutela dei diritti e autodeterminazione dell’individuo quanto più la prassi sociale tende a sopprimerli o marginalizzarli. E ciò avviene soprattutto quando la tradizione del liberalismo classico deve confrontarsi con tendenze opposte, come la «via prussiana», la realpolitik di Bismarck, che dilaga fra anni Sessanta e Settanta, o i movimenti religiosi di massa, o ancora gli aggressivi nazionalismi. Il teatro d’opera assume in questo momento un significato antagonistico, d’opposizione a ciò che la storia politica e la struttura economica esprimono. Questa funzione oppositiva-educativa del teatro nasce tuttavia molto prima di Verdi, nella Parigi borghese dei Trenta dove il «liberalismo romantico» di Hugo, parafrasando la Préface all’Hernani, afferma la «libertà dell’arte» intesa come anticipazione della prassi sociale [Barjot 1995, pp. 50-51]. Ed è noto come il teatro di Hugo abbia attratto più di ogni altro gli interessi dei compositori e come, più in generale, la città di Rousseau e di Tocqueville, di Constant e di Guizot sia importante per la storia del rapporto fra rivendicazioni libertarie e opera italiana. All’inizio di questa storia possiamo porre la figura enigmatica e ambigua di Gioachino Rossini. Questi, in maniera più marcata dopo il 1848, fu un conservatore nella vita e nell’arte; la sua «paura della politica» [Emiliani 2007, p. 124] gli impose un atteggiamento diffidente verso i moti rivoluzionari del 1831 e del 1848; anzi in quest’ultimo anno, risiedendo nella Bologna in cui Ugo Bassi raccoglieva fondi per la guerra all’Austria, Rossini venne accusato dai patrioti di essere un «ricco retrogrado» e costretto alla fuga notturna a Firenze. Ambiguità: da un lato stanno i suoi rapporti personali con Metternich, la sua ammirazione per Pio IX (non solo nel 1846, quando tutti i liberali italiani riponevano grandi speranze nel nuovo papa, quando compose una Cantata per celebrarne l’elezione, ma anche dopo la svolta reazionaria del pontefice), la diffidenza di Heine e di Mazzini verso la sua arte, letta come rappresentazione ideale della Restaurazione. D’altro lato patrioti e liberali italiani trovarono nel suo teatro diverse situazioni simboliche in cui riconoscersi; dal celebre rondò di Isabella, citando a caso, nel finale dell’Italiana in Algeri («Pensa alla patria»), al suicidio di Anna nel finale del Maometto II, «O tu che Italia conquistar presumi» (scritto nel 1820, dopo i moti di Guglielmo Pepe), o al Siège de Corinthe (che riprende musica del Maometto II). L’ultimo titolo citato ammette un collegamento ideale con i coevi moti d’indipendenza della Grecia, ipotesi confermata dal fatto che Rossini nello stesso 1826 organizzò un concerto per i caduti di Missolungi. Eppure solo un anno prima il compositore aveva scritto Il viaggio a Reims ossia L’Albergo del Giglio d’Oro per celebrare l’incoronazione di Carlo X. Il «nodo avviluppato» di questa ambiguità trova il suo centro nel Guillaume Tell (da Schiller e da una serie di altre fonti francesi), composto e rappresentato a Parigi nel 1829, alla vigilia della Rivoluzione di Luglio, fra il Cromwell e l’Hernani di Hugo. Il Tell è stato letto come rafforzamento del diritto divino del monarca Carlo X alla vigilia della sua destituzione, o come generica accusa all’eccessiva crudeltà dei potenti, contraria all’ordine naturale (l’austriaco Gessler sugli svizzeri), o ancora come espressione di una nostalgia per alcune speranze del 1789 non realizzate. Perciò è difficile identificare senza residui il Tell con lo spirito borghese-rivoluzionario del 1830 [Walton 2003]. Nonostante l’ambiguità i patrioti italiani trovarono nell’opera la rappresentazione simbolica delle proprie rivendicazioni: per esempio a Bologna il 3 marzo 1831 un coro del Tell risuonò con nuove parole come Inno nazionale italiano. Anche le censure ritennero di vietare a lungo la rappresentazione; per esempio, alla Scala l’opera arriva solo nel 1837, con libretto completamente rifatto e intitolato Guglielmo Vallace.
L’idea della rivoluzione borghese è invece senz’alcuna ambiguità al centro del teatro di Hugo, con la sua battaglia contro l’assolutismo, l’arbitrio del potere, la privazione dei diritti, i pregiudizi o le convenzioni contrari al libero confronto fra individui: in una parola, la sistematica critica all’ancien régime. Più che di un consapevole liberalismo sociale, politico, etico, tuttavia, per ora sarebbe più corretto parlare di generiche aspirazioni libertarie. Uno dei primi rilevanti segnali in tal direzione nell’opera italiana viene da Bellini, solitamente alieno da posizioni di «arte impegnata»; nel 1830 egli progetta un Ernani su libretto di Felice Romani (l’eroe avrebbe dovuto essere un soprano en travesti); ma il progetto sfuma ancor prima di prendere coerenza drammatica, e ciò denuncia quanto la «linfa sociale» auspicata da Mazzini fosse ancora estranea all’opera. Altri progetti sul medesimo testo hugiano verranno invece condotti a buon fine nel 1834 da Vincenzo Gabussi ancora per Parigi su invito di Rossini, nel 1843 da Alberto Mazzucato e nel 1844 da Giuseppe Verdi. Nella Préface Hugo sintetizza quello che diverrà il messaggio del teatro verdiano:
Giovani, facciamoci coraggio! Per quanto vogliano renderci difficile il presente, l’avvenire sarà magnifico! Il romanticismo, che tante volte viene frainteso, non è altro che il liberalismo in letteratura, se si voglia considerarlo come puro pragmatismo. […] Il liberalismo in letteratura non sarà meno popolare del liberalismo in politica. La libertà nell’arte, la libertà nella società, ecco il duplice fine a cui devono tendere tutti gli spiriti logici e coerenti; ecco la duplice bandiera che raduna tutti i giovani forti e pazienti.
Nel 1834 Bellini si riavvicina a tematiche impegnative quando per la Parigi orleanista-borghese scrive I puritani. L’opera è ambientata sullo sfondo della rivoluzione di Cromwell, evento fondativo pur con tutte le sue ambiguità dell’affermazione della libertà e della uguaglianza [Revelli 2005, 53-56]. È vero che il problema politico della libertà è nell’opera di Bellini/Pepoli abbastanza marginale; ma è determinante che l’agnizione avvenga grazie alla liberazione da una dominazione politico-religiosa straniera (gli Stuart cattolici), che permette agli individui (Arturo Talbot ed Elvira Valton) di realizzare le proprie autonome scelte. Dove il Tell si era fermato alla liberazione di una collettività, quindi alla dimensione politica, I puritani entrano nel problema del libero arbitrio, quindi nella dimensione etica. Inoltre, lo scontro cruento di religioni si ritrova nella Juive di Halevy (1835) e negli Huguenots di Meyerbeer (1836); in queste tre opere i cattolici detengono il potere politico e la forza militare, mentre lo spettatore è condotto a parteggiare per gli oppressi, puritani, ebrei o ugonotti. Con posizioni più problematiche, il tema dello scontro di religioni si ritroverà nei Lombardi alla prima crociata di Verdi-Grossi (1843). Anche questo argomento trova collocazione nel liberalismo classico, che rivendica la libertà di culto indipendente dal potere politico o militare.
Con Donizetti dal 1835 inizia un maggior impegno politico-civile nella scelta dei soggetti d’opera: Marin Faliero, Poliuto, L’assedio di Calais, l’incompiuto Duca d’Alba, Dom Sébastien ne sono alcuni esempi. Possiamo credere casuale il fatto che la maggioranza di queste opere siano collegate a Parigi? Faliero deriva da un dramma di Byron ambientato nella Venezia trecentesca e affronta due aspetti politici: la relazione fra classi popolare e patrizia (anticipando il Verdi del Boccanegra) e l’errore di un potere politico ciecamente ripiegato sulla ragion di stato slegata dalle esigenze degli individui. Il vecchio doge Faliero si ribella al potere assoluto del Consiglio dei Dieci, tentando una rivolta popolare, ma ne rimane schiacciato. Il ritorno al popolo contro un’oligarchia costituita convinse Mazzini a indicare nel Faliero l’opera risorgimentale ideale e il prototipo della nuova arte impegnata (Filosofia della musica, 1836). Nell’Assedio di Calais e nel Dom Sebastien emerge invece il tema della libertà nazionale, con i tre connessi principi del liberalismo classico: l’unità della nazione, la sua indipendenza, la sua emancipazione.
I puritani e il Faliero vanno in scena al Théâtre Italien di Parigi (su invito di Rossini) il 24 gennaio e il 12 marzo 1835 con lo stesso cast di cantanti. La Monarchia di Luglio è già ingolfata in una crisi e a Parigi si sta affermando un movimento «socialista-liberale» supportato dal giornale «Populaire» di Cabet [Barjot 1995, 174]. Se Bellini non è influenzato da questo clima, per Donizetti le simpatie popolari e la scelta liberale democratica rappresentano una radicata convinzione e una componente determinante del suo teatro. È documentato il suo coinvolgimento con i mazziniani a Parigi, per cui probabilmente fece da ponte per carteggi e scambi di notizie; la collaborazione con Giovanni Ruffini (librettista del Don Pasquale e traduttore del Don Sebastiano) ne offre conferma.
Con Nabucco, nel 1842, inizia «l’età verdiana», la Verdizeit parafrasando Heine. L’età è segnata da grandi scrittori politici, dal Gioberti del Primato degli italiani (1843), al Cesare Balbo della Speranze d’Italia (1844), considerato uno dei testi fondativi del liberalismo moderato [Patriarca 2010, 13]. È il momento di massima tangenza fra pensiero liberale e opera italiana. La vicenda artistico-biografica di Verdi attraversa due fasi: dapprima l’opera e la vicenda biografica manifestano la necessità dell’emancipazione politica dell’Italia unita («fare l’Italia»); una volta raggiunta l’unità Verdi porta avanti l’impegno preso con Cavour di costruire le comuni basi culturali e morali della nazione («fare gli Italiani»). Il processo avrebbe dovuto portare alla uguaglianza etica (e in conseguenza giuridica e politica), intesa come principio universale, come diritto di ogni individuo (dall’imperatore alla prostituta). Nei suoi tardi anni più volte Verdi rileva con sconforto l’incomprensione dei governi per le classi lavoratrici; per esempio nella sdegnata opposizione alle tasse sui beni primari volute da Sella nel 1867 [Carteggi 1947, III/45, 62, 141]; o più chiaramente nel 1889 quando scrive parole durissime contro la politica economica del governo Crispi:
io non amo la politica, ma ne ammetto la necessità, le teorie, le forme di governo. Patriottismo, dignità, etc. etc., ma prima di tutto bisogna vivere. Dalla mia finestra [a Genova] vedo tutti i giorni un Bastimento, e qualche volta due carichi almeno di mille emigranti ciascuno! Miseria e fame! Vedo nelle campagne proprietari di qualche anno fa ridotti ora a Contadini, Giornalieri, ed emigranti (miseria e fame). I ricchi, di cui la fortuna diminuisce d’anno in anno, non possono più spendere come prima, quindi miseria e fame.
E come si potrà andare avanti? Non saranno mica le nostre industrie che ci salveranno dalla ruina!
Voi direte che sono un pessimista! … No, no … io credo d’esser nel vero.
[lettera al senatore Piroli, 10 febbraio 1889, Carteggi 1947, III/190-91].
È la terza fase del suo personale percorso, quella del pessimismo, comune a molti liberali italiani in quegli anni; il pessimismo deriva dalla progressiva sfiducia nella possibilità di realizzare una società fondata su principi etici indiscutibili, e si rispecchia nel capolavoro di quegli anni, Otello nato dalla collaborazione con Arrigo Boito. La forza antagonista negativa, che nel precedente teatro verdiano era un potere assoluto rappresentato da un ordine politico e sociale (sacerdoti, dittatori, consigli di stato) o una convenzione sociale ingiusta (la morale di Germont in Traviata), è ora entrata nella mente stessa dell’uomo, indebolito e incapace di orientare la prassi. Se la tragedia di Violetta o di Aida, denunciando la mancanza di libertà individuale, rafforza antifrasticamente il principio stesso della libertà, Otello indica il definitivo tramonto dell’uomo sociale e della sua capacità di regolare la vita su principi etici forti. Non più la denuncia di una situazione illiberale, dunque, ma la disfatta dell’idea stessa sotto i colpi dell’irrazionalismo.
Verdi era però partito da posizioni addirittura opposte; nel biennio rivoluzionario 1848-49, sull’onda mazziniana, aveva sposato entusiasticamente l’idea repubblicana. Dai Cinquanta, come molti suoi coetanei aveva abbandonato l’idea del Risorgimento rivoluzionario, a favore del processo riformista cavouriano-monarchico. Da Ernani ad Aida al centro del teatro verdiano sta la questione delle libertà dell’individuo, o meglio della coercizione delle libertà e della limitazione dei diritti individuali davanti a convenzioni, pregiudizi, poteri costituiti (ragion di stato illegittima, appartenenza a gruppi sociali religiosi opposti, convenzioni morali ecc.). Se vogliamo ricorrere a una classica distinzione, si tratta del problema della limitazione delle cosiddette «libertà positive». Nei casi emblematici dei Vespri siciliani (ancora per Parigi), della Traviata (ambientata, eterno ritornello, sempre a Parigi) o di Aida (il cui legame genetico con Parigi è fortissimo) i soggetti vertono anzitutto sulla privazione di alcuni diritti etici, prima che politici o giuridici.
Passando dal piano delle idee a quello della prassi, le convinzioni di Verdi emergono altrettanto chiaramente. Anzitutto egli è il massimo sostenitore della tutela del diritto d’autore, ossia dell’idea di «proprietà» artistica. Verdi inizia a pensare a questi diritti fin dagli anni Sessanta [lettere a Piroli 5 settembre 1869 e 16 luglio 1870, Carteggi 1947, III/67 e 71]; ma solo nel 1881, con Cesare Cantù, Boito, Ricordi, De Amicis, Verga, De Sanctis, Carducci, Villari e Zanardelli, fonda la Società Italiana degli Autori, mentre viene approvata la legge sul diritto d’autore. Non possiamo trascurare il fatto che questi eventi cadano al termine dell’esperienza politica di Benedetto Cairoli (primo ministro dal 1878 al 1881), forse il più illuminato governo espresso dalla Sinistra storica nello scorcio del secolo, che può essere letta come il primo esperimento nella storia dell’Italia unita di liberalismo avanzato [Cammarano 1999, 152].
Verdi affronta anche il problema della sovvenzione governativa ai teatri d’opera, ancor oggi attualissimo. I ministeri Ricasoli, Rattazzi e Menabrea per raggiungere il pareggio di bilancio avevano imposto profondi tagli di spese, fra cui la sovvenzione statale ai teatri, che il parlamento abolì nel 1867. Verdi reagì nel modo più duro [lettera a Piroli, 1 marzo 1869, Carteggi 1947, III/62]: il teatro non è un’industria, non deve essere valutato secondo la bilancia fra produzione di reddito e spese, ma è un servizio sociale e come tale necessita legittimamente delle sovvenzioni dello stato; nel sistema teatrale-musicale non vige affatto il principio del libero mercato. E più tardi:
Ah, il governo [della Destra storica di Giovanni Lanza] è ben colpevole! Abbandonare le arti in Italia, è come oscurare il sole! […] Sarebbe meglio una buona mazzata e fare di questo popolo, che sarà sempre principalmente, essenzialmente artistico, un popolo di nullità, di ciarloni, e d’imbecilli! […].
Scusate: e che Dio ispiri meglio questi nostri governanti! [Lettera a Piroli, aprile 1872, Carteggi 1947, III/92].
Ed è talmente convinto dell’idea che la ripete fino al 1883 [Carteggi 1947, III/162].
Altra convinzione che Verdi non si stanca di ripetere è la laicità dello stato, non raramente manifestata con aperto anticlericalismo. Si tratta di un atteggiamento assai condiviso nel liberalismo italiano di destra e di sinistra dei decenni unitari, anche senza bisogno di giungere agli estremi giordanobruniani di Crispi. La laicità dello stato e il pericolo antiliberale determinato dalla non autonomia del potere politico da quello religioso sono i temi delle opere più impegnate della maturità, Don Carlos (1867) e Aida (1871). Bastano due citazioni dai libretti: «Dunque il trono piegar / dovrà sempre all’altar?» chiede Filippo II al Grande Inquisitore nel III atto; «Né di sangue son paghi giammai / e si chiaman ministri del ciel!» dice Amneris dei sacerdoti egizi, capi spirituali e politici al tempo stesso. Tali posizioni si inquadrano nell’acceso clima generato dal contrasto fra Pio IX e lo stato italiano, fra il Sillabo del 1864 e il non expedit del 1874. In questo clima Filippo II denuncia l’errore tragico della sottomissione dello stato al dogmatismo confessionale, e non è casuale che l’opera sia pensata per la Parigi di Napoleone III, che difendeva la Roma papale dall’annessione al giovane stato italiano.
In questo momento emerge una corrente di dissenso interno alla chiesa, quella dei «cattolici liberali»; un esponente di spicco è don Francesco Montebruno, fondatore a Genova nel 1863 degli «Annali cattolici», periodico che tenta un dialogo fra cattolicesimo e liberalismo. Montebruno è nome importante per la famiglia Verdi: diverrà confessore e guida spirituale di Giuseppina Strepponi, conosciuta nel 1872, e dal 1888 entrerà in confidenza anche con Verdi [Walker 1964, 486]. Il prolungato dialogo con Montebruno fece conoscere al compositore una diversa anima del cattolicesimo italiano, la componente non intransigente, più liberale e aperta alla nuova società. Sono gli anni che vanno dal Requiem per Manzoni (1874) al Pater noster (1880)fino al Te Deum (1896).
Il problema dell’autonomia della sfera politica da quella spirituale si ripresenta molti anni più tardi nella Tosca di Puccini; Scarpia ne è il simbolo, la religiosissima Tosca la vittima. La non separazione fra la sfera spirituale, il potere politico e l’esercizio della forza (Scarpia è il capo della polizia del Papa) genera la catastrofe degli individui, privati non solo della libertà politica e giuridica, ma anche di quella etica e di pensiero. Nella teoria dello stato liberale, che salvaguarda l’autonomia dell’individuo nel campo politico, economico, etico e religioso, l’unico potere che, per contratto, rimane in mano allo stato è il monopolio della «forza legittima», sia pur entro i limiti imposti dalla giurisdizione dello stato di diritto: il monopolio della forza legittima deve non ostacolare o vincolare, ma favorire e garantire la libera circolazione delle idee (sfera etica) e dei beni (sfera economica). Tosca è la denuncia della mancanza di queste libertà, dell’errore antiliberale di un potere poliziesco che, anziché garantire, annulla le libertà fondamentali e i diritti individuali proprio perché assomma tutti i poteri nelle mani dello stesso capo militare.
Nel 1924 Puccini prese la tessera del partito fascista, sebbene la morte precoce non gli consentisse di meglio comprendere le degenerazioni di un’epoca ancora agli inizi. Più interessante è invece la vicenda di uno dei più agguerriti simboli dell’antifascismo italiano, Arturo Toscanini, di 14 anni più giovane di Puccini, che diversamente da quest’ultimo sopravvivrà al ventennio. Toscanini attraversa fasi storiche molto incerte e convulse; perciò non è facile né inequivocabile, né forse utile collocarlo in un indirizzo preciso e senza deviazioni. L’autoritarismo assolutistico con cui era solito trattare i colleghi cantanti o professori d’orchestra e di coro, sia pur sempre finalizzato agli altissimi suoi obiettivi artistici, era leggendario; non si deve però attribuire a questo aspetto caratteriale una colorazione politica o una ideologia, data la sua conclamata avversione a ogni dittatura. Nel 1919, dopo aver portato l’orchestra della Scala nella Fiume occupata da D’Annunzio, la biografia di Toscanini registra l’unica, minima parentesi politica. Nelle elezioni del comune di Milano del 1919, che confermeranno la giunta socialista di Emilio Caldara, Toscanini figura come sesto nome della lista protofascista formata nel marzo in piazza San Sepolcro e guidata da Mussolini. Il direttore aveva aderito, su sollecitazione di Filippo Tommaso Marinetti, contribuendo con la ragguardevole somma di 30.000 lire. Il programma tradisce la matrice socialista [Sachs 1998, 160]: assemblea costituente nazionale coordinata a una internazionale, proclamazione della repubblica, voto alle donne, abolizione del senato (che non era ancora elettivo), dei titoli nobiliari e della leva obbligatoria, disarmo internazionale, abolizione delle banche, limitazione e in alcuni casi confisca dei capitali privati, distribuzione delle terre ai contadini, confisca delle proprietà ecclesiastiche, partecipazione dei sindacati alla gestione delle industrie. La lista prende pochi voti, nessuno viene eletto, e la carriera politica di Toscanini finisce prima di cominciare; solo tre anni dopo la relazione con Mussolini si trasforma in radicale opposizione al regime, accompagnata da un crescente odio personale: «se fossi capace di uccidere un uomo, ucciderei Mussolini» pare abbia detto a un amico alla vigila della marcia su Roma» [Sachs 1998, 175].
In quel 1919 Toscanini riprende per la terza volta la direzione della Scala. L’anno dopo, grazie all’appoggio del senatore Luigi Albertini, proprietario del «Corriere della sera», e del sindaco socialista Caldara, la Scala di Toscanini diviene il primo Ente Autonomo d’Italia, poi seguito da tutte le altre grandi istituzioni teatrali. Ciò giunge al termine di un processo iniziato con la crisi economica e sociale del 1897-98, che aveva portato alla chiusura temporanea del teatro. È necessario un breve sunto di questa vicenda, che ha ancora molto da insegnare. Nel 1901 (Toscanini è direttore della Scala per la prima volta) un referendum chiama i milanesi a decidere se proseguire o no la sovvenzione pubblica alla Scala; nella campagna referendaria i socialisti Emilio Caldara e Filippo Turati si dichiarano per il no, opponendosi ai palchettisti e alla vecchia aristocrazia cittadina e proclamando che l’opera «divertimento dei ricchi» non può essere sostenuta dai soldi della comunità; i no vincono largamente. Dieci anni dopo tutto cambia: nel 1911 a Milano viene fondato il Teatro del Popolo e i socialisti pubblicano un opuscolo dal titolo significativo: Per la Scala, contro i palchisti, per l’educazione artistica del popolo. Il pamphlet segnala una svolta decisiva: 1) da «divertimento dei ricchi» il teatro sta diventando «educazione del popolo»; 2) nel teatro non lavorano solo «artisti» con paghe elevatissime e tradizionalmente inseriti in un libero mercato concorrenziale, ma c’è anche «il proletariato del teatro», i lavoratori a salario medio e basso, che rischiano ogni momento la disoccupazione, e abbisognano di forme di tutela. In questo clima emergono le prime proposte per la costituzione dell’Ente Autonomo. La Scala è allora gestita da una società di aristocratici, guidata da Visconti di Modrone; date le difficoltà economiche, Visconti aderisce a un progetto dell’impresario Walter Mocchi (ex-socialista, poi fervente fascista): per «ottimizzare» la forza lavoro, masse (orchestra, coro e corpo di ballo) e maestranze lavoreranno sei mesi alla Scala e sei al Colon di Buenos Aires. Chi non accetterà perderà il contratto: un chiaro sistema illiberale. Il 15 aprile 1915 il consigliere socialista Spotti critica il progetto Visconti-Mocchi: «il proletariato del teatro sarà pelato e strozzato maggiormente»; Ettore Albini scrive sull’«Avanti!»: «si sa che questa categoria di professionisti si organizzarono [nell’Unione Orchestrale Italiana, una specie di corporazione] appunto per imporre le loro tariffe, non per subire quelle che farebbero comodo agli impresari della Scala e del Colon». Vengono insomma al pettine tutti i nodi della evoluzione del teatro da attività commerciale privata a servizio pubblico. Nel 1917 la crisi bellica blocca tutto. Alla riapertura del teatro, con Toscanini direttore, nasce l’Ente Autonomo. Il direttore riforma le masse (nasce la «Orchestra Toscanini»), allunga i contratti e aumenta l’attività (le recite annue salgono a 120-140 contro le 80 fin’allora consuete). Questo tipo di gestione esclude dalle sue finalità ogni obiettivo di lucro impresariale, sostituito dalla concezione del teatro come «servizio sociale», strumento di educazione per tutta la cittadinanza. La moderna impostazione sottolinea sempre più il carattere di «istituzione pubblica» del teatro d’opera, con ridotte partecipazioni di capitali o proprietà private e con maggiore tutela del lavoro delle masse; è l’inizio della «rivoluzione copernicana» [Nova 2002, 40-42] a favore del primo dei tre obiettivi possibili di un teatro d’opera (artistico-sociale; economico; competitivo). In questa vicenda fondamentale nella storia del teatro italiano la figura di Toscanini emerge per l’equilibrio fra le esigenze artistiche e la comprensione delle necessità strutturali, la salvaguardia del lavoro e la tutela dei diritti.
Nel 1922, come già nel 1912, Toscanini dirige al Teatro del Popolo per la Società Umanitaria di Milano, strettamente legata ai socialisti; è chiaro il significato di radicale opposizione a Mussolini nell’anno della marcia su Roma. Gli anni che precedono il definitivo trasferimento di Toscanini in America sono colmi di spettacolari prese di posizione contro il nazismo e il fascismo. Nel 1936 e nel 1938 dirige a Tel Aviv e Gerusalemme; la seconda volta esegue estratti dal Lohengrin notoriamente prediletto da Hitler. E il gesto è ancor più provocatorio perché nel 1933 il direttore aveva lasciato il teatro di Bayreuth, fondato da Wagner e diretto dai suoi eredi, nazisti convinti, nonostante le ripetute preghiere di Hitler. Nel febbraio 1938, poco prima dell’Anschluss, Toscanini rompe i rapporti anche con il Festival di Salisburgo, dove era direttore principale.
Dal 1936 è documentato il rapporto con Benedetto Croce, altro uomo simbolo dell’opposizione al fascismo: nel mandare gli auguri per il compleanno, il filosofo invia una sua intervista alla rivista «Republic» di New York dove difende gli ordinamenti liberali e Toscanini; e questi con ostentato orgoglio la inoltra all’amante Ada Mainardi. In seguito i due uomini si incontreranno più volte.
Nel 1939, definitivamente trasferitosi a New York per dirigere la NBC, Toscanini aderisce alla Mazzini Society, una società di fuoriusciti antifascisti, per lo più italiani. Componente di spicco della società è Gaetano Salvemini, il quale nel 1943 pubblica il volumetto What to do with Italy, dedicato a Toscanini «che nelle ore più oscure dei delitti fascisti […] rimase intransigentemente fedele agli ideali di Mazzini e di Garibaldi». All’armistizio Toscanini e Salvemini abbandonano la Mazzini Society e più volte il direttore apostrofa il re come «un miserabile», «un traditore», «un codardo degenerato». Il 12 giugno 1944 i due firmano congiuntamente sul «Life» l’articolo An Italian Manifesto, tornando a chiedere agli Alleati di non sostenere Badoglio e il re. Finalmente l’11 maggio 1946 Toscanini torna nell’Italia liberata e dirige lo storico concerto per La Scala bombardata.
Se le convinzioni liberali non subirono flessioni, è anche vero che negli anni americani Toscanini si avvicinò al socialismo grazie alle frequentazioni con Salvemini, al quale anche Carlo Rosselli guardava come a un maestro per il suo Socialismo liberale (pubblicato in italiano nel 1945). E proprio ai principi social-liberali sembra istintivamente avvicinarsi Toscanini in questi anni tardi.
Bibliografia
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