Politica economica
di Francesco Forte
Il pensiero economico liberale, dalla metà dell’Ottocento sino ai primi anni del Novecento ha come sua matrice la Destra storica [cfr. Are 1965; Romeo 1959; Forte 2010]. In questo pensiero teorico e politico, accanto a liberisti puri come Francesco Ferrara, che si può considerare il leader iniziale di questa grande scuola di pensiero, troviamo altri economisti-politici liberali o politici-economisti come Camillo Benso di Cavour, che non sono fautori del liberismo puro, ma di una concezione, più robusta, dal punto di vista dell’economia positiva, in cui c’è un rapporto fra stato e mercato, con il primo al servizio del secondo. Era così, a ben guardare, anche in Adam Smith. Ma in Cavour e nella Destra storica ci sono la cultura e i problemi dello «sviluppo di una nazione»nell’economia di mercato, nella seconda metà dell’Ottocento, cioè dopo la rivoluzione industriale i cui presupposti Smith teorizzava con chiarezza, ma che ancora non si era realizzata. In Smith il governo ha un ruolo strumentale al sistema di mercato e delle libertà civili, con la legge e l’ordine, le opere pubbliche e l’istruzione, ma questi due ultimi compiti del governo sono appena abbozzati [cfr. Butler 2007]. In Cavour e nel nucleo centrale della Destra storica il ruolo del governo è simile a quello di Smith, ma dalle opere pubbliche si estende agli investimenti pubblici in infrastrutture (ferrovie, canali navigabili, sistemazione del suolo con bonifiche, preservazione di foreste ecc.), e dall’istruzione si estende alla formazione e tutela del capitale umano, mediante la pubblica istruzione e la carità sociale. Nella sua riflessione sulla prolusione di Francesco Ferrara al suo Corso di economia politica, Cavour, soffermandosi sulle teorie dei Malthus, delinea la sua concezione dello sviluppo economico sostenendo che la tesi per cui la crescita della popolazione può eccedere quella delle risorse portando a costi unitari crescenti e quindi a un peggioramento del tenore di vita delle masse popolari può essere vinta, in economia di mercato, grazie alla interazione fra i tre fattori del lavoro, in cui vi è una componente di conoscenze e competenze che tende a migliorare, del capitale che deriva dal risparmio e tende a crescere più che in proporzione con lo sviluppo e della natura che assieme agli altri due può dare risorse crescenti. L’ampliamento del mercato sollecita la divisione del lavoro e questa riduce i costi [cfr. Cavour (1849-50; 1860) 1933]. La concezione teorica di Cavour è chiaramente orientata allo sviluppo, grazie al mercato, ma non solo a causa del mercato. Ciò perché servono le infrastrutture di trasporto e comunicazione per ampliare il mercato e migliorare l’agricoltura e l’istruzione e l’assistenza per migliorare il capitale umano. Egli scrive: «Applaudiremo alle tasse prelevate sulle classi agiate per istruire e per educare le classi povere. Vedremo in ciò un atto di giustizia che produce inoltre un’utilità economica nella società, con il rendere il lavoro più intelligente e quindi più efficace. Applaudiremo a tutte le spese pubbliche che ridondano a vantaggio dei più, fin tanto che queste spese necessiteranno gravezze tali da non diminuire l’incentivo a creare nuovi capitali, noi le approveremo pienamente, senza esitazione» [Id. (1848) 1850; 2009]. Questa concezione è prevalente negli economisti-politici e nei politici-economisti liberali delle Destra storica che si rifanno, sostanzialmente, anche se non unicamente, al pensiero economico classico. La ferrovia come infrastruttura per l’economia di libero mercato aperta alla concorrenza interna e internazionale appare un servizio pubblico essenziale, a politici-economisti liberali della Destra storica come Camillo di Cavour e a economisti-politici di tale indirizzo come Marco Minghetti.
In questo quadro, che riguarda i contenuti e i tratti differenziali delle concezioni del mercato e dei modelli di politica economica dei politici e dagli economisti liberali italiani, iniziando con quelli dell’Ottocento della Destra storica, per poi passare a quelli (di numero minore) della sinistra storica, per passare a quelli del Novecento, occorre inserire anche gli indirizzi di teoria economica a cui essi sono appartenuti. Si tratta, a grandi linee, fondamentalmente dei quattro sistemi teorici o «scuole»: innanzitutto la scuola economica «classica», in Italia rappresentata, all’inizio del periodo in esame, massimamente da Francesco Ferrara; di cui, come accennato, fu seguace, a livello politico fra i personaggi di grande rilievo, sostanzialmente solo Cavour e per un periodo limitato di tempo Antonio Scialoja. Poi la scuola positivista-istituzionalista che combinava la tradizione italiana con quella degli economisti classici rappresentata fra gli economisti-politici da Marco Minghetti, Fedele Lampertico, Angelo Messedaglia, Agostino Magliani e fra i politici-economisti da Quintino Sella. La scuola storico-sociologica germanica rappresentata da Gerolamo Boccardo, Luigi Luzzatti, Giuseppe Majorana e Carlo Francesco Ferraris. Ed infine la scuola economica neoclassica su basi microeconomiche soggettive «marginaliste», che si era sviluppata in Italia sul finire dell’Ottocento rappresentata in parlamento, nei governi e nei maggiori organismi economici pubblici, da una vasta schiera di economisti-politici come Maffeo Pantaleoni, Antonio De Viti De Marco, Luigi Einaudi, Epicarmo Corbino, Gustavo del Vecchio, Giuseppe Medici, Costantino Bresciani Turroni, Ernesto Rossi e che dominò largamente nella cultura economica italiana sino agli anni Sessanta, oltre che con gli economisti citati, con Ugo Mazzola, Giuseppe Ricca Salerno, Wilfredo Pareto, Augusto Graziani senior, Enrico Barone, Attilio Cabiati, Umberto Ricci, Pasquale Jannaccone, Giuseppe Ugo Papi, Giuseppe Di Nardi, Ferdinando Di Fenizio.
Dagli anni Sessanta, nella vita accademica, il pensiero economico in questione, a cui appartiene il presente autore, diventa sempre più minoritario, perché assume sempre più rilevanza l’indirizzo keynesiano, ufficialmente denominato liberale, ma sostanzialmente dirigista, quello della economia sociale del benessere, predominante nel mondo cattolico e in quello marxista. Fra gli esponenti maggiori del pensiero economico liberale, per le elaborazioni di politica economica, si possono menzionare Sergio Ricossa, Antonio Martino, Alberto Quadrio Curzio.
La distinzione fra scuole teoriche non sempre coincide con la distinzione fra destra e sinistra liberale e neppure fra economisti-politici liberali che militarono nel partito liberale o in altri partiti. Le implicazioni politiche delle diverse scuole di pensiero economico sono molto meno schematiche di quello che si potrebbe pensare. Non deve perciò stupire che del filone economico liberale della Destra storica facciano parte anche economisti-politici diversi da quelli della scuola dell’economia classica di tradizione britannica o ferrariana. Alcuni attingono al filone italiano di Giandomenico Romagnosi, Carlo Cattaneo, Melchiorre Gioia, Gian Maria Ortes. Minghetti, come economista realizzò una sintesi fra indirizzo economico classico e scuola storica, nel solco della tradizione italiana di Romagnosi, sotto l’influenza del pensiero liberale cattolico di Antonio Rosmini. Così Angelo Messedaglia, esponente autorevole della Destra alla Camera dei deputati, successivamente nominato senatore che sviluppa un filone positivista-quantitativo e per il pensiero inglese si nutre degli eretici dell’economia classica come Malthus; e il senatore Fedele Lamperticoche, nella sua elaborazione positivista, fa riferimento anche a Gian Domenico Ortes e Melchiorre Gioia e che, sulla base di essa riesce a individuare l’emergere della grande industria e quindi l’esigenza di nuove relazioni non paternalistiche fra impresa e lavoratori, che si organizzano in sindacato. Lampertico, per altro, votò contro la nuova assicurazione obbligatoria sugli infortuni sul lavoro, che a suo avviso avrebbe dato luogo a controlli burocratici fastidiosi e non efficaci. E perciò è stato criticato, per una sua presunta incoerenza, rispetto alle posizioni teoriche innovative appena viste [cfr. Gioia 2003]. Ma la critica non è esatta, in quanto Lampertico aveva effettivamente individuato i limiti di questo meccanismo quando è affidato allo stato. È però vero che avrebbe dovuto proporre istituti alternativi, per la soluzione del problema, come il ricorso obbligatorio ad assicurazioni sugli infortuni in concorrenza fra loro sul mercato o a formule di assicurazione cooperativa, ma non lo fece. Non aveva una impostazione adeguata di natura istituzionale. Alcuni economisti-politici successivi della Destra storica come Luigi Luzzatti, più volte ministro e presidente del consiglio rifecero, a volte in modo eclettico, un ampio riferimento alla scuola storica e istituzionale germanica. E altri come il senatore Gerolamo Boccardo, con ancor maggiore eclettismo, mescolarono quegli indirizzi, con quelli della metodologia economico sociologica positivista nel tentativo di aggiornare il pensiero economico liberale classico. Questi esponenti economici della Destra storica, che si sostiene Francesco Ferrara avesse criticato, con l’accusa di «germanesimo economico» socialisteggiante, ed etichettato come scuola lombardo-veneta [cfr. Ferrara 1874], si possono dire, in modo pertinente, liberali riformisti, che oltrepassano il confine della tradizione economica classica, in quanto consapevoli delle sfide della nuova società capitalistica, ma mantengono fermi i cardini base della libera iniziativa e della proprietà privata. Così Gerolamo Boccardo sostiene che non è il caso di preferire alla formula «lasciar fare, lasciar passare», la formula consistente nello «aiutare a fare, aiutare a passare», né di slanciarsi per l’ennesima volta contro il libero scambio e di rifare l’apologia del protezionismo. Ma che è meglio puntare sui rimedi positivi ai drammi sociali che si accompagnano inevitabilmente ai passi avanti nello sviluppo. E con riguardo al dramma dell’emigrazione sostiene «abbiamo però la Sardegna, abbiamo terre incolte nell’agro romano, e nelle province meridionali che formano il nostro Near Sud» [cfr. Boiardi 1987, pp. 596-597]. Così suggerisce le linee di una politica liberale di sviluppo delle aree in ritardo, basata sugli investimenti in opere e infrastrutture.
Occorre aggiungere ancora che nell’indirizzo riformista del pensiero economico liberale della Destra storica, c’è un robusto filone cattolico. Ho già ricordato che Marco Minghetti traeva ispirazione dal pensiero liberale cattolico di Antonio Rosmini. Accanto a economisti politici liberali cattolici come Fedele Lampertico, che mentre sostengono il primato dei valori etici delle azioni umane e quindi propugnano lo sviluppo del credito popolare e della cooperazione, affermano che la preservazione della famiglia, della proprietà, della libertà, anzi delle libertà, basterebbero di per sé soli a stabilire i punti di contatto fondamentali di una azione comune fra stato e chiesa cattolica, troviamo politici-economisti cattolici come l’industriale senatore vicentino Alessandro Rossi, che promuovono la cooperazione e il credito popolare e l’edilizia popolare e la formazione del capitale umano, dimostrando concretamente quali possano essere le linee di azione di un liberalesimo riformista, che unisca cattolici e laici [cfr. Fontana 1985; Are 1974]. I tempi non erano, allora, maturi per tale collaborazione.
Una questione che divise gli economisti-politici e i politici-economisti liberali dell’Ottocento e che li divise ulteriormente nel Novecento e che, alla fine, portò alla disgregazione del partito liberale e della componente liberale della Democrazia cristiana, è quella delle imprese pubbliche nel settore delle infrastrutture, che coinvolge anche il problema del rapporto fra grande capitale e liberalesimo economico-politico e quindi il modello di economia di mercato liberale, se di concorrenza o con il dominio delle grandi imprese. Secondo il conte di Cavour, le linee ferroviarie fra il Piemonte e la Francia e quelle verticali e orizzontali dell’Italia erano essenziali, per aprire l’Italia alle forze spontanee del sistema di libero mercato [cfr. Cavour (1855) 1933]. Dunque l’investimento in questo settore è un compito fondamentale per lo stato, per le linee principali, mentre quelle secondarie si svilupperanno tramite l’iniziativa privata, come complemento ai tronconi promossi dallo stato. Questa tesi, che Cavour aveva formulato in un saggio in francese comparso nella «Revue Nouvelle» nel 1855, con riguardo a una rete ferroviaria che collegasse l’Italia alla Francia e poi attraversasse orizzontalmente il Nord e verticalmente dal Nord al Sud, era divenuta uno dei pilastri del programma della Destra storica, in chiave economica, per aprire l’Italia al mercato internazionale e farne un unico mercato e in chiave politica, per realizzare una effettiva unità nazionale. E anche per garantirsi l’appoggio delle potenze occidentali contro l’impero austro ungarico. Ciò comportava che le industrie e la finanza privata avessero un ruolo importante nelle commesse ferroviarie, ma meno rilevante nell’investimento e nella gestione delle ferrovie di quel che fosse possibile con una gestione in concessione interamente privatistica. E d’altra parte l’investimento ferroviario e il riscatto statale delle reti private comportavano un elevato costo per la finanza pubblica. E quindi un consistente peso fiscale per la finanza pubblica che in larga misura ricadeva sulle masse popolari tramite la tassazione indiretta, non solo del sale e del tabacco, ma anche, per un certo periodo, del grano.
Il governo della Destra storica del Lamarmora nel 1865, con ministro dei lavori pubblici Stefano Jacini, e Ministro delle finanze il politico-economista Quintino Selladiede la concessione delle principali linee ferroviarie a quattro grandi imprese private, con una legge Sella-Minghetti, onde fare appello al capitale privato in un periodo in cui lo stato aveva un pesante debito pubblico e gravosi problemi di equilibrio del bilancio. La legge prevedeva la facoltà di riscatto dello stato al termine della concessione. In seguito, nel 1874, da parte del governo Sella, con Ministro dei lavori pubblici il giurista e filosofo liberale Silvio Spaventa in relazione alla necessità di intervento dello stato in soccorso finanziario alle compagnie private, era stato rinegoziato il riscatto dello stato da queste concessioni.
Nel 1876, Marco Minghetti, presidente del consiglio leader della Destra, si impegna per il riscatto dai privati delle linee ferroviarie, che egli medesimo aveva loro affidato in concessione e spiega:
Io affermo con sicuro animo di non avere punto abbandonato quei principi. Io credo ancora che l’ingerenza governativa debba restringersi il più possibile, limitarsi anzi a quei punti soli dove è necessaria e individui e associazioni private non arrivano. Io credo che lo stato moderno deve spogliarsi di molte attribuzioni che ha e che non gli spettano, lasciarle alla libertà individuale e alle associazioni private; ma d’altra parte credo che vi siano alcuni servizi, sopratutto quelli i quali non possono avere concorrenza, dei quali il Governo può e deve essere il più naturale, il più utile esercitatore nell’interesse della cosa pubblica. Io credo che le strade ferrate siano, come i telegrafi e le poste e in un avvenire forse più prossimo di quello che voi credete, saranno date all’esercizio governativo in tutte le parti del continente europeo. Lo stato potrà spogliarsi di molte altre ingerenze che oggi ha e lasciare alla libertà individuale un’azione più piena e più larga, ma prenderà in mano sua questi grandi servizi pubblici [in Gherardi 2003, p. 45]
Silvio Spaventa, relatore della legge sulla statizzazione, liberale di scuola idealista, venne accusato di statolatria [cfr. Alatri 1987, p. 348]. Il governo della Destra cadde e per sempre, su questa posizione perché il gruppo lombardo di centro capeggiato da Cesare Correnti politico-economista della linea di destra centrista, che aveva a lungo studiato il problema, riteneva che i privati avrebbero potuto assicurare in modo più rapido ed economico i capitali necessari. Già nel 1865, relatore sulla questione ferroviaria, nella legge della Destra, aveva affermato «io sono per le grandi società, che agiscono qui, ma respirano sul mercato europeo» [cfr. Parisi 2003, p. 39]. La sinistra era per la privatizzazione soprattutto perché essa costava di meno allo stato e permetteva quindi di indirizzare la spesa pubblica a scopi sociali e/o di ridurre la pesante tassazione indiretta, che la Destra aveva adottato, con la tassazione del grano macinato allo scopo di pareggiare il bilancio. Quella di Sella e Minghetti e quella di Correnti erano ambedue concezioni economiche liberali. La destra voleva evitare che una infrastruttura fondamentale in cui si formava, per ragioni oggettive il monopolio e che aveva importanza strategica-militare fosse controllata da grandi gruppi privati in cui erano presenti finanzieri di stati che potevano anche entrare in guerra con l’Italia. I liberali di centro avrebbero voluto una maggior internazionalizzazione della nostra economia, mentre reputavano che al rischio di monopolio e di perdita di indipendenza si potesse ovviare con la regolamentazione, tramite il regime di concessione, come era sino allora accaduto. L’investimento estero avrebbe apportato capitali e mentalità fresche e avrebbe consentito di ridurre la pressione fiscale, incrementare le infrastrutture. Nei Principi di scienza delle finanze di Luigi Einaudi, per le situazioni di monopolio naturale, relative a infrastrutture essenziali all’economia di mercato, troveremo indicate entrambi le soluzioni, in modo imparziale. Benché l’autore, nella sua epoca, per infrastrutture nuove come la rete idroelettrica optasse per la seconda soluzione, non risulta che ritenesse necessaria la privatizzazione delle poste o delle ferrovie. Vi esigeva il pareggio del bilancio, con una politica di prezzi «economici», eguali al costo pieno, comprendente la remunerazione del capitale investito, in conformità al pensiero liberale, in cui lo stato è al servizio del cittadino che paga il costo dei servizi pubblici di cui fruisce con prezzi pubblici per quelli divisibili e con imposte per quelli indivisibili.
Il «divide» fra liberismo economico favorevole ai grandi gruppi e liberalesimo economico, riemerge nel primo e secondo decennio del Novecento con riguardo al tema delle imprese di pubblica utilità, delle concessioni pubbliche, delle regole antimonopolio, delle regolamentazioni dei mercati finanziari, della borsa, delle banche e delle società per azioni e in generale ai principi atti a favorire la concorrenza e i diritti dei piccoli operatori, dei nuovi operatori, del pubblico dei risparmiatori e dei consumatori. Si tratta di un discrimine difficile e opinabile in concreto. Ciò perché, il mercato senza regole non può funzionare ma ciò offre il pretesto per il palliare delle regole e delle autorità di controllo dei mercati con poteri discrezionali e perché come dimostra Joseph Scumpeter, anche fra i grandi gruppi, nel mercato aperto e con tendenze al progresso tecnologico, si sviluppa la concorrenza fra grandi imprese innovatrici. Inoltre, come si è visto, la presenza di monopolio naturale nelle grandi infrastrutture, anche nel pensiero liberale più esigente, in fatto di libera iniziativa e proprietà privata, può giustificare l’impresa pubblica. Infine l’intreccio fra grandi gruppi e potere politico si esercita non solo negli ambiti appena visti, ma anche nelle commesse pubbliche e in relazione ai dazi doganali, alle sovvenzioni al commercio estero e ai divieti protezionistici. Ma questo discrimine è essenziale per rendere il pensiero economico-politico liberale indipendente dagli interessi e dalla cultura dei grandi gruppi di potere. Una politica economica «liberale» che dipende da gruppi oligarchici è una contraddizione in termini. E se sono quei gruppi a dettare il successo dei movimenti politici e culturali a favore dell’economia di mercato, ci sono poche speranze per un genuino successo di tale pensiero, al di fuori di cerchie accademiche e culturali ristrette. D’altra parte, ci sono settori come quello delle imprese di pubblica utilità o delle banche, in cui il rapporto fra operatori pubblici e imprese è inevitabile perché lo stato è titolare della proprietà dei beni comuni, e dei diritti di esproprio dei beni privati, nel campo delle risorse idriche, delle miniere, degli spazi aerei e dell’etere, delle acque territoriali, delle rive del mare, dei laghi e dei corsi d’acqua, dell’uso del suolo, del sottosuolo e del sopra suolo, per costruirvi condutture, strade, gallerie, ponti, linee telefoniche ed elettriche, aeroporti, ecc.
Nei primi due decenni del secolo le battaglie a favore della concorrenza, contro la commistione fra interessi economici protetti e la politica, con riguardo ai vari temi appena indicati fu condotta da economisti liberali come Luigi Einaudi, Edoardo Giretti, Attilio Cabiati, da Maffeo Pantaloni, che in parlamento rappresentò, nel primo Novecento, una coalizione di socialisti, radicali e liberali, e da Antonio De Viti De Marco che dal 1901 al 1921 rappresentò per un ventennio l’ala libero scambista e antistatalista del partito radicale. Nel programma elettorale di Pantaleoni del marzo 1900 egli poneva al primo punto «abbattere le bande di predominio» e chiariva: «Sono predoni che vanno abbattuti gli industriali che vivono di dazi protettori, anziché dei propri capitali e della propria capacità tecnica, i proprietari che strappano al parlamento, coalizzati contro gli industriali, leggi che rincariscono il grano, invece di meglio coltivare le loro terre; le società commerciali, le imprese tutte che ricevono premii a spese dei contribuenti o conseguono monopoli, le banche se si salvano a spese dell’erario pubblico, le leghe di fornitori che creano a sé medesime una fonte permanente di lucri influendo sulle camere e sul governo. Tutto questo sistema predatore, mentre costa centinaia di milioni al paese, è la vera, ultima causa delle più gravi fra le altre malsane manifestazioni della vita politica nostra. Debbono restringersi le funzioni del governo a quelle poche mansioni che costituiscono un interesse collettivo non conseguibile senza una azione coercitiva. L’Amministrazione così si riduce, il suo congegno così si semplifica, e le spese pubbliche allora non richiedono più imposte insopportabili» [in Bini 2003]. Antonio De Viti De Marco combatté soprattutto il protezionismo doganale e le collusioni degli interessi protezionisti con le forze politiche, ma accompagnava tale tesi con quella che lo stato dovesse ingerirsi il meno possibile nel mercato, dovesse far pagare i suoi servizi divisibili come quelli ferroviari al costo pieno, dovesse sgravare da imposta diretta i redditi minimi ed eliminare le imposte dirette sui consumi popolari, riducendo la spesa pubblica.
Nel secondo dopoguerra sino ai primi anni Sessanta campioni del riformismo liberale in questi ambiti furono il settimanale «Il Mondo» fondato da Mario Pannunzio, i convegni de «Gli Amici del Mondo» (come quelli su Lotta contro i monopoli, Petrolio in gabbia, I padroni della città, Atomo ed elettricità, Le baronie elettriche, La borsa in Italia), ed in particolare fra gli animatori e leader di queste battaglie Ernesto Rossi, discepolo di Luigi Einaudi, al cui pensiero aveva dedicato una magistrale raccolta di scritti, denominata il Buon governo. La sua battaglia utopica contro il capitale monopolistico e l’inquinamento del capitalismo mediante un rapporto ambiguo con lo stato, molto efficace dal punto di vista mediatico, ma assai poco operativa, si svolse con riguardo al monopolio elettrico pubblico-privato, le scorrerie di borsa rese possibili dalla mancanza di una seria regolamentazione, i vari protezionismi vecchi e nuovi, l’ambiguo rapporto fra l’organizzazione cooperativa e lo stato in agricoltura, le industrie di stato [cfr. Rossi 1953; 1954; 1955; 1961; 1962; 1963]. Il declino del pensiero economico-politico e politico-economico liberale nella seconda parte del Novecento, dopo l’iniziale periodo di fioritura postbellica, dipende dalla sua incapacità di affrontare questi problemi e quelli delle regole della moderna società per azioni e dei mercati finanziari, affrancandosi dai grandi gruppi economici e svolgere, pertanto, una linea autonoma a favore del mercato di concorrenza e di riforme economiche a esso conformi. Tipica espressione di questa crisi è la figura tormentata di Guido Carli, il principale economista-politico nella scena economica italiana dagli anni Sessanta sino alla fine del secolo, di origine liberale, poi esponente politico e di governo della Dc. Nel dopo guerra, quando era ancora aderente al partito liberale, Carli fu assertore strenuo dalla liberalizzazione degli scambi e delle valute, in quanto fautore di un modello di libero scambio internazionale. Diventato governatore della Banca d’Italia fu difensore strenuo della autonomia della banca centrale dallo stato. Ma egli concepì il compito del banchiere centrale come un compito di moneta e credito manovrati, di natura discrezionale. Pertanto non svolse una politica di stabilità monetaria e teorizzò una politica di attivismo monetario. Ad esempio, alla fine degli anni Sessanta del Novecento, criticò chi scrisse, qualificandolo spregiativamente, come un economista demartiniano (da Francesco De Martino, segretario generale del Psi dell’epoca) [cfr. Carli 1993], per avere sostenuto che bisognava combattere l’inflazione, ma anche evitare la deflazione. Carli invece aveva pensato, allora, di attuare una deflazione, pur in presenza di un saldo attivo della bilancia corrente dei pagamenti, per combattere l’eccesso di rivendicazioni sociali, con l’arma monetaria. Egli a più riprese critica il liberista Milton Friedman, per la linea di moneta neutrale, sostenendo che il banchiere centrale deve «intervenire», per guidare l’economia di mercato, secondo la direzione giusta. Il punto di vista di Friedman, che Carli critica, consiste nella regola della emissione di una quantità fissa di moneta, lasciando che il mercato vi si adatti. Ciò, in regime di mercati flessibili, può comportare la riduzione del livello dei prezzi, ma non la riduzione dell’occupazione propria di una linea di deflazione in presenza di mercati del lavoro e della distribuzione commerciale rigidi. E in ogni caso, l’effetto non dipende da una scelta discrezionale di moneta manovrata, ma dalla regola di neutralità monetaria. In alternativa a quella di Friedman, la linea di neutralità monetaria anziché in termini di emissione costante della quantità di moneta viene concepita in termini di potere di acquisto della moneta tendenzialmente stabile, come nella concezione prevalente per le banche centrali che regolano il tasso di interesse e il credito sulla previsione del tasso di inflazione. Questa linea appare conforme al pensiero liberale in rapporto alla esigenza di dare un quadro di certezze agli operatori economici e di tutelare i loro contratti.
La teoria sostenuta da Guido Carli in relazione alla nazionalizzazione dell’energia elettrica fu quella che essa doveva essere fatta a condizione che non si facesse un operazione di conversione delle azioni delle precedenti società in azioni della nuova società, ma che si indennizzassero le società per la avocazione delle aziende elettriche da loro possedute, che venivano conferite a un nuovo soggetto pubblico. Il progetto originario dei fautori della nazionalizzazione, come mezzo per combattere il cartello monopolistico elettrico privato-pubblico composto di Finelettrica del gruppo Iri e di Edison e Sme private, contro i cui intrecci di poteri economico politici aveva scritto Ernesto Rossi, consisteva nello scorporo di Finelettrica dall’Iri e nella acquisizione da parte di Finelettrica della quota di controllo delle altre due maggiori compagnie elettriche nazionali, conferendo ai loro azionisti quote azionarie di Finelettrica in esubero rispetto a quelle necessarie per il controllo. Il progetto non era gradito né al gruppo di comando dell’Iri, né a quelli di Edison e Sme. Guido Carli, nella qualità di governatore della Banca d’Italia, sostenendo che la questione era di sua competenza, impose la soluzione di un ente elettrico nazionale, che avrebbe indennizzato in contanti le società che possedevano le aziende elettriche che venivano a esse scorporate. Esse potevano così continuare a operare, reinvestendo le somme ottenute in imprese di vario genere. Ma lo stato doveva sborsare, in rate, una grossa somma, da finanziare con imposte come nel caso del progetto di riscatto delle Ferrovie della Destra storica, o con debito pubblico, come invece accadde allora, con il supporto attivo della Banca di Italia. Il pensiero economico politico liberale fu sostanzialmente assente dal dibattito su questo tema. [cfr. Forte 1966, p. 103]
Dobbiamo ora considerare il tema, che a ciò si connette, in modo per altro ambiguo e nebuloso, della distinzione fra la destra e la sinistra liberale e il liberal-socialismo. Accanto agli economisti-politici e ai politici-economisti che, nell’Ottocento, e nei primi decenni del Novecento, militarono nella Destra storica e nel centro che di essa fece parte per molto tempo, ci fu una corrente quantitativamente minore, di politici-economisti ed economisti-politici che possiamo denominare di sinistra liberale, che fece capo, in sede politica, alla sinistra storica, a una parte dei repubblicani e dei radicali. Nel primo Novecento la sinistra liberale è una componente importante del centro-sinistra giolittiano. Nel periodo repubblicano essa emerge nel partito liberale, poi dopo la sua scissione degli anni Cinquanta, una pattuglia di liberali di sinistra confluisce nel partito radicale o esce dalla politica attiva, mentre una componente di cui l’esponente principale è Ugo La Malfa, opera nel partito repubblicano. Alcuni esponenti originari della sinistra liberale, per il vero, come nel caso di Antonio Scialoja e Agostino Magliani, dalla Destra storica e dal culto per l’economia classica passarono alla sinistra, altri però, come Napoleone Colajanni, Giulio Alessio, Marcello Soleri e, in tempi più recenti, il già citato Ernesto Rossi, e Ugo La Malfa, appartengono, sin dall’inizio, alla sinistra liberale. D’altra parte alcuni economisti che militarono nel partito radicale o nei repubblicani assieme ai radicali e ai socialisti, come De Viti de Marco e Pantaleoni sono catalogabili, con i criteri che vedremo, nella destra o nel centro e non nella sinistra. L’elemento distintivo della «sinistra» liberale, che si qualifica come tale per la sua partecipazione, agli schieramenti politici di sinistra, non è per altro facile da trovarsi. Cerchiamo ora di svolgere questa ricerca, che ci aiuta anche a individuare il confine, fra modello liberale di economia di mercato e di politica economica e modelli di destra o di sinistra non liberali. Una prima fondamentale distinzione, da entrambi i punti di vista, per quanto riguarda sia la concezione dell’economia di mercato che della politica economica, sta nel protezionismo.
In effetti fra libero mercato e libero scambio nel modello economico della concorrenza vi è un nesso inscindibile e il protezionismo generalizzato proprio del nazionalismo economico pertanto non è compatibile con il modello dell’economia di mercato di concorrenza. Inoltre, fa parte della concezione liberale anche il modello liberista «schumpeteriano» di una economia liberista, in cui dominano le grandi imprese e le grandi banche e in cui la concorrenza si svolge solo nel tempo tramite la distruzione creativa. E fra tale liberismo e il protezionismo c’è una antitesi, in quanto la grande impresa ha bisogno di un grande mercato e la concorrenza fra monopolisti nel tempo presuppone la libertà di entrata. Tuttavia, la grande impresa per affermarsi ha bisogno di barriere entro cui crescere: e queste possono essere individuate non solo nel progresso tecnologico tutelato da brevetti, ma anche nelle grandi commesse pubbliche e nelle concessioni di diritti pubblici come quelli di esproprio per costruire strade o linee ferroviarie e telefoniche e sfruttare il sottosuolo e le acque, ma anche mediante barriere doganali. Dunque il protezionismo, nel senso ampio del termine e anche in quello specifico delle dogane si addice a una economia di mercato caratterizzata da grandi imprese e da tendenze al monopolio. Inoltre, esso si addice alla sollecitazione allo sviluppo delle forze del mercato di aree meno sviluppate, in campo industriale e agricolo. Così vi possono essere favorevoli le masse operaie, oltre ché gli industriali e gli agrari delle produzioni protette e le banche a essi interessate. Così non è anomalo trovare delle forze politiche liberali protezioniste ed è più facile che ciò accada per quelle della sinistra, in quanto fautrici dello sviluppo economico e degli interessi delle masse lavoratrici più influenti. Per i politici e per gli economisti politici liberali di sinistra il protezionismo si giustifica dunque sia come politica attiva per lo sviluppo economico, in regime di economia di mercato caratterizzata dall’industrializzazione e dalla politica di tutela delle aree meno sviluppate e sia come politica di apertura sociale. In effetti, la tariffa doganale italiana del 1887 fu introdotta dal governo della sinistra storica di Agostino De Pretis ed ebbe il favore dell’industria, della borsa e della grande e media proprietà agraria. Appartiene a questa schiera lo studioso di statistica e uomo politico radicale-repubblicano Napoleone Colajanni, menzionato sopra, fautore alla fine dell’Ottocento e nel primo decennio del ventesimo secolo di un moderato protezionismo del grano, a favore dello sviluppo agricolo, in particolare nel Mezzogiorno. Ma ciò è vero solo per la sinistra storica sino ai primi tre lustri del Novecento, non appare vero per il secondo Novecento. Ugo La Malfa, economista e politico, leader del partito repubblicano, che si può considerare come il maggiore esponente del pensiero di politica economica della sinistra liberale italiana della seconda metà del Novecento, attuò, da Ministro del Commercio Estero, nel 1951 la decisa liberalizzazione degli scambi, che è alla base del boom industriale italiano, assieme alle altre liberalizzazioni e alla stabilizzazione della lira. Successivamente, fu uno dei protagonisti della unificazione europea, in relazione alla attuazione del mercato europeo comune. Anche l’altro leader economico della sinistra liberale della seconda parte del Novecento, Ernesto Rossi, di cui si è già visto, che ebbe un ruolo politico minore, ma un ruolo culturale maggiore di La Malfa, fu un acerrimo avversario del protezionismo, perché avversario delle grandi imprese monopolistiche, da lui battezzate «I padroni del vapore», per indicare l’intreccio fra politica ed economia, che si determina con la grande industria protetta sul mercato internazionale e interno.
E d’altra parte sono protezionisti, nella seconda metà dell’Ottocento, anche alcuni politici economisti della Destra storica liberale come Quintino Sella e Alessandro Rossi, per altro limitatamente a industrie giovani. E sono moderatamente protezionisti economisti politici di spicco della Destra storica liberale laica e cattolica come Luigi Luzzatti e Fedele Lampertico e il capo scuola liberale dell’economia politica dell’Università di Pavia Pietro Cossa, che nel 1874 si schierarono a favore di un moderato protezionismo economico dell’industria e di un moderato intervento dello stato per favorirla e sostenere le classi operaie e fondarono nel 1875 a Milano il primo convegno della nuova Associazione per il progresso degli studi economici, che ebbe come suo organo scientifico «Il Giornale degli economisti», nella sua prima serie. È vero che il loro protezionismo è moderato e che, in questo, si distingue nettamente da quello della sinistra protezionista. Si può anche dire che mentre la concezione economica dei liberali ortodossi è tendenzialmente orientata al libero scambio, salvo eccezioni, la sinistra liberale è al riguardo più flessibile e variegata e la linea protezionista in essa emerge più facilmente, tanto più quanto essa diventa espressione non di forze politiche di élite, ma di massa, dato l’orientamento protezionista di una parte consistente della classe operaia e dato l’orientamento protezionista di una parte consistente dei sostenitori degli interessi economici delle regioni meno sviluppate.
Un altro connotato distintivo fra sinistra e destra liberale in economia può consistere nel diverso atteggiamento nei riguardi dell’impresa pubblica. Esso può altresì costituire il discrimine fra concezione economica liberale in cui predomina l’economia di mercato e in cui la politica economica tutela il mercato dalla concezione economica dirigista o collettivista in cui è lo stato il principale protagonista dell’economia. In effetti, fra la concezione economica del mercato e della politica economica dei liberali delle varie tendenze e dei dirigisti, il ruolo dell’impresa pubblica, nell’industria, nel credito, e anche nel commercio costituisce un netto discrimine. Francesco Saverio Nitti, economista di grande livello e prestigio, nazionale e internazionale, con la sua scuola che si può definire di socialismo liberale, è un campione del dirigismo statale in economia, mediante l’impresa pubblica, e sarà la scuola nittiana che genererà in Italia dal secondo decennio del novecento in poi i migliori campioni della formula dell’economia mista, industriale e finanziaria e mercantile, da Alberto Beneduce, a Meuccio Ruini, a Donato Menichella, che sono esponenti del gruppo laico, a Pasquale Saraceno. E anche Carlo Rosselli, che non deriva dalla scuola nittiana, di origine storico-istituzionalista, ma da quella economica neoclassica, alla quale appartengono i maggiori esponenti del socialismo liberale della prima parte del XX secolo, che si differenziano dal liberalesimo sociale (termine carico ci ambiguità) e dal liberalsocialismo, proprio perché per loro il processo economico non ha il mercato al primo posto e lo stato in ruolo sussidiario, ma il mercato e lo stato sullo stesso piano, in formule di economia mista.
Ma nell’Ottocento troviamo il fatto apparentemente paradossale che la Destra storica, come si è visto, cadde, politicamente, sulla questione ferroviaria, in quanto favorevole alla gestione statale delle ferrovie. È però vero che furono i liberali della sinistra, nell’epoca giolittiana, a dare vita, con il governo Fortis, alla ristatizzazione delle ferrovie, privatizzate dalla sinistra storica successivamente. La questione però è molto più complessa di quel che questo apparente paradosso faccia sembrare. Infatti, accanto alle imprese di pubblica utilità tendenti al monopolio, la sinistra liberale può accettare anche banche e assicurazioni pubbliche, imprese industriali e commerciali pubbliche municipali. L’economista Giuseppe Majorana, politico riformista della sinistra storica che sostenne la necessità di una banca pubblica per lo sviluppo del mezzogiorno, in polemica con Luigi Luzzatti (fautore, invece, delle banche popolari di credito cooperativo), propugnava una assicurazione sociale obbligatoria, finanziata parzialmente dallo stato e per il resto dai contributi dei datori di lavoro e dei lavoratori, ma era anche anti protezionista. E Carlo Francesco Ferraris, uomo politico della sinistra storica fondatore in Italia della scienza dell’amministrazione, di cui tenne la prima cattedra all’Università di Pavia, poi docente di questa disciplina e rettore dell’Università di Padova, come ministro dei trasporti nel 1905, svolse il compito di statizzare le ferrovie, nel governo di Alessandro Fortis.
Un discrimine fra destra e sinistra liberale può trovarsi anche con riguardo all’intervento attivo dello stato per lo sviluppo economico, ponendo in connessione questo con la questione sociale, fermo restando che gli scopi distributivi sono subordinati a quelli economico-contabili. Questa è l’impostazione di liberalesimo sociale di Carlo Francesco Ferraris nei primi del Novecento: lo stato nella sua azione economica e sociale deve rispettare rigidamente le leggi economiche del mercato. Non è così nella formulazione di Guido Calogero, della cui formula teorica cosiddetta liberal-sociale il Ferraris viene erroneamente considerato come precursore. Questi, infatti, afferma con chiarezza che «occorre infondere negli operai questa convinzione, che i padroni non hanno voglia di sfruttare il lavoro a proprio beneficio, che il ribasso dei salari, il licenziamento di operai adulti, l’impiego di un gran numero di apprendisti, sono d’ordinario la conseguenza delle condizioni economiche generali. Di guisa che gli operai credendo, coll’opporsi a queste misure, di ribellarsi all’arbitrio di un padrone, combattono contro un nemico invincibile, la condizione stessa del mercato che minaccia anche la posizione economica dei padroni». Ma aggiunge anche che i padroni devono convincersi che abbisognano degli operai non solo perché lavoratori, ma anche come consumatori perché «ogni miglioramento dell’agiatezza degli operai accresce il consumo e quindi lo spaccio del mercato» [cfr. Ferraris 1880; Tausset 2003]. Da ciò l’utilità di associazioni dei datori di lavoro e di sindacati degli operai che comprendano questi principi, ma anche la necessità di assicurazioni obbligatorie contro la disoccupazione e contro gli infortuni sul lavoro e l’utilità dell’arbitrato obbligatorio nelle controversie di lavoro. Sempre dalla convinzione che le leggi economiche debbano presiedere alla politica sociale, si oppone alla introduzione obbligatoria dell’orario di lavoro di otto ore per tutti, in quanto molte imprese italiane non hanno ancora i macchinari adeguati per poter competere, con questo orario di lavoro, con le altre imprese e quindi il risultato sarebbe la chiusura di imprese e il licenziamento e la disoccupazione degli operai [cfr. Tausset 2003, p. 549].
Nel periodo più recente, nella corrente cattolica liberale fautrice di interventi correttivi del mercato vi è Giuseppe Medici, economista liberale Dc, fautore ed autore di una importante riforma agraria nell’Italia del secondo dopoguerra [cfr. Saltini 2001]. Nel libro del 1946, che preludeva al suo programma politico, L’Agricoltura e la riforma agraria, egli proponeva una politica diversificata secondo le diverse condizioni locali: nelle zone agricole settentrionali, si trattava di riformare i contratti agrari, mentre nelle zone centro-meridionali dove dominava il latifondo, si doveva operare anche con l’esproprio, ma queste due politiche, soprattutto la seconda, andavano collegate a sostanziali interventi di bonifica del suolo e di irrigazione. In parte notevole, le proposte di Medici, senatore del gruppo Dc e più volte Ministro, furono in seguito realizzate, come programmi democristiani.
Ezio Vanoni, negli anni Cinquanta, teorizzò e attuò parzialmente (la morte prematura gli impedì di attuare il suo programma), una formula di riformismo cattolico liberal-socialistamolto simile a quella di Carlo Francesco Ferraris [cfr. Forte 2009]. Il piano Vanoni, avversato da Guido Carli, ma apprezzato da Luigi Einaudi [cfr. Einaudi (1957) 1962] era sostanzialmente un programma di infrastrutture, in una prospettiva decennale, che doveva operare come promotore dello sviluppo, attuato con le forze del mercato, in regime di stabilità monetaria, con una considerevole formazione di risparmio, resa possibile da una tregua salariale, dovuta alla convenienza per il movimento sindacale di puntare sulla crescita dell’occupazione e sui benefici derivanti dallo squilibrio fra Nord e Sud. I liberali non capirono che il piano Vanoni (che egli chiamava «schema di sviluppo» per far comprendere che non si trattava di un piano dirigista) poteva essere la base per la loro collaborazione a una politica di sviluppo, che avrebbe ripreso le migliori tradizioni delle destra economica illuminata. E fra i membri del comitato scientifico che aveva predisposto lo schema Vanoni, accanto a Pasquale Saraceno, economista cattolico moderatamente dirigista e a due tecnici della statistica e dell’econometrica come Marcello Boldrini e Albino Uggè, dell’Università Cattolica, vi erano tre economisti liberali come Fedinando Di Fenizio, Libero Lenti e Giuseppe Di Nardi. Il Partito liberale, invece, rimase assente da questi temi, perse via via rilevanza politica a causa della sua frammentazione e della incapacità di una elaborazione costruttiva adeguata alle nuove realtà, una destra collegata soprattutto ai grandi interessi economici.
Un connotato della sinistra liberale è certamente costituito dalla particolare sensibilità alla questione sociale. Ne abbiamo già visto, in particolare, con riferimento al pensiero e all’azione politica di Carlo Francesco Ferraris. Un altro tipico esponente della sinistra liberale l’economista-politico Giuseppe Majorana, che militò nella sinistra storica, fu fautore dello sviluppo di assicurazioni sociali sul modello tedesco, in cui il finanziamento non ha luogo solo mediante i contributi dei datori di lavoro e dei lavoratori, ma anche tramite una sovvenzione permanente dello stato, che comporta un fenomeno redistributivo a opera della finanza pubblica. E quindi un compito dello stato al di fuori della sfera tipica del pensiero economico liberale sul ruolo della finanza pubblica, come fattore di produzione di beni pubblici di cui sono utenti i contribuenti medesimi.
Anche i pensatori e politici liberali cattolici dell’epoca che seguono la dottrina sociale «liberale» delle encicliche Rerum novarum e Quadragesimo anno come Luigi Toniolo e, in parte, Luigi Sturzo (la cui concezione inizialmente non appare liberale, ma socialista liberale, e quindi non una politica economica liberale con interventi conformi al mercato di concorrenza, ma una politica economica di interventi che sono difformi dal mercato, ma sono di natura individualista, in quanto fanno costante riferimento alla persona umana) perseguono principi di tutela dei lavoratori basati su un rapporto non conflittuale con gli imprenditori. Fanno però maggiore affidamento sulle organizzazioni cooperative, sulle banche popolari, sulle società di mutuo soccorso e sui comuni che sullo stato.
Certo la redistribuzione a beneficio dei meno favoriti, che non hanno mezzi adeguati di sussistenza, fa parte del pensiero economico liberale, già nell’epoca iniziale della Destra storica. Elementi moderatamente redistributivi di tale natura si trovano già nel pensiero economico di Cavour. Ad esempio, nella rivista «Il Risorgimento», da lui fondata nel 1847, nel saggio Statistica morale e intellettuale della nazione, scriveva della necessità di statistiche per determinare l’efficacia dell’azione della «carità pubblica ossia legale» con riguardo a «un quadro compiuto degli stabilimenti di beneficenza, dei loro mezzi, e della somma dei soccorsi che distribuiscono fra le classi più bisognose» [cfr. Cavour 2009, p. 22].
Il riformismo sociale della Destra storica liberale nasce dalla esigenza di combattere le allora nuove dottrine di socialismo collettivista, marxiste e non marxiste, contrarie all’economia di mercato e alla proprietà e al risparmio dei privati, con formule che si diffondano fra le masse e facciano appello alla solidarietà sociale volontaria anziché allo stato. Ciò mediante le cooperative, le banche di credito cooperativo, le casse di risparmio, le assicurazioni mutue e le associazioni di mutuo soccorso. E su questo versante ci sono i pensatori e politici della destra liberale laica come Alessandro Rossi di Schio e Luigi Luzzatti.
La questione, però è quella di stabilire le modalità e il punto critico in cui la redistribuzione genera una «lesione dei diritti di proprietà» e inefficienza e irresponsabilità di coloro che vengono aiutati. Ciò che nel pensiero della destra e del centro liberale è chiaramente determinato, sia sul lato della spesa che su quello della tassazione ed ha a che fare con le imposte arbitrarie e, in particolare, con quelle progressive, e con il danno della tassazione redistributiva al processo di accumulazione. Ma anche per la sinistra liberale, come si è notato, la priorità della produzione e delle leggi economiche sulla redistribuzione è un connotato essenziale per distinguerla da formule di socialismo liberale o di democrazia sociale che non si possono definire liberali.
Nel pensiero della sinistra liberale però lo stato ha un ruolo più ampio. Si possono ammettere l’imposta progressiva sul reddito e di successione e una redistribuzione che incide sui diritti di proprietà, ma sempre con canoni di pareggio tendenziale del bilancio e tendenziale stabilità monetaria. Il confine fra questa impostazione come credo economico liberale e credo nello stato del benessere in cui l’economia non è più basata sull’iniziativa e sulla responsabilità individuale è netto, sul piano teorico, meno su quello concreto. E ciò autorizza equivoci senza fine.
Un altro discrimine fra pensiero degli economisti-politici e dei politici economisti liberali della destra e della sinistra si potrebbe pensare di trovarlo per quanto riguarda la moneta. Per gli economisti-politici e i politici economisti della Destra storica e della linea liberale di destra o moderata, da Francesco Ferrara e Camillo di Cavour nell’Ottocento a Luigi Luzzatti nell’età giolittiana, a Luigi Einaudi, Costantino Bresciani Turroni e Giuseppe Pella, nel secondo dopoguerra del Novecento, a Guido Carli, alla fine del Novecento, la lotta all’inflazione è un canone fondamentale, anche se raggiungibile in modi fra loro diversi, in relazione all’evoluzione del sistema monetario mondiale e alle concezioni del governo della moneta, tramite gli istituti di emissione. Per Francesco Ferrara gli istituiti di emissione debbono essere liberi e in concorrenza fra di loro, con il solo vincolo della emissione di moneta sulla base del gold standard, ossia della riserva aurea. Per Cavour, invece, è necessaria una robusta banca centrale nazionale e le eventuali altre banche di emissione sono limitate e coordinate con questa, ma vale comunque il gold standard. Per il pensiero liberale successivo della Destra storica, ma anche per i giolittiani, il mono o bimetallismo, cioè il collegamento della moneta a una base aurea o ad una base aurea e argentea e la banca centrale nazionale sono un canone fondamentale. E il metallismo è derogabile solo temporaneamente in caso di estrema necessità. Ma è così anche per la sinistra liberale. Il corso forzoso nell’Ottocento in Italia fu abrogato da Agostino Magliani, economista politico in uno dei governi di Agostino Depretis, leader della sinistra storica, di cui fece parte nella sua qualità di ministro delle finanze. L’arma per riequilibrare bilancio pubblico e bilancia dei pagamenti per lui era costituita dai dazi di importazione, che avevano una doppia funzione, di fornire gettito fiscale e di protezionismo.
Due economisti politici e politici-economisti liberali cattolici «conservatori» furono Epicarmo Corbinoe Giuseppe Pella, che svolsero prevalentemente un compito meritorio, ma per sua natura transitorio, di difesa della moneta e degli equilibri del bilancio, nel periodo postbellico.
Il termine «liberista», invece, non serve a distinguere la concezione della politica economica dei liberali di destra, di centro o dei liberali di sinistra, come Antonio Scialoia, Baccarini, Agostino Magliani. Infatti, i liberali come Einaudi o Costantino Bresciani Turroni, che non sono definibili come liberali di sinistra, sono a favore di regole e di interventi pubblici conformi al mercato. Ed è per questo che Luigi Einaudi, che aveva appena scritto le sue Lezioni di politica sociale, in cui aveva esposto un sistema di politica sociale pubblica conforme ai principi di responsabilità individuale e di libertà di scelta in polemica con lo stato del benessere massificatore che si stava delineando, negli anni Cinquanta affermò di non essere «liberista», ma, semmai, neo liberale. E Röpke, il cui pensiero è pressoché identico a quello dell’Einaudi di questo periodo, accettò per la sua formulazione umanistica di politica economica, la definizione di «economia sociale di mercato», rifiutando invece quella di «neo liberale», che gli pareva in contrasto con il modello da lui sostenuto (come da Einaudi) del mercato di concorrenza fatto da tante piccole unità economiche e di tanti piccoli proprietari, con città a misura d’uomo e salvaguardia dell’ambiente, antitetico al modello di concentrazione industriale e di massificazione del mercato dominato dalle grandi imprese e delle città-formicaio. Questo era il «nuovo», a cui si contrapponeva il suo modello, che sembrava arcaico, in relazione alla civiltà delle macchine, ma che è poi tornato di attualità nella società delle tecnologie soft, bisognosa di tutela ecologica-ambientale. Vi è una differenza fra lo Einaudi dei primi decenni del secolo, che ha una teoria liberale con le regole per la concorrenza e le spese per gli investimenti in infrastrutture, ma non è a favore delle politiche sociali conformi al mercato, e il secondo Einaudi, quello che scrive le Lezioni di politica sociale. Il principio della concorrenza e quello della stabilità della moneta e del bilancio pubblico tendenzialmente in pareggio, salvo per una limitata quota del finanziamento della spesa per investimenti in opere pubbliche, comunque, collegano fra di loro, in modo coerente, le due posizioni assunte da Luigi Einaudi, nella prima e nella seconda parte della sua lunga attività nel campo della politica economica che spazia dal 1895 al 1961. Il neo liberalesimo dell’Einaudi maturo, degli anni Quaranta in poi, che ha discusso con Ropke e ha scritto le Lezioni di politica sociale, riempiendo una lacuna nella sua teoria generale della finanza pubblica, si può sintetizzare con cinque «ottimalità» essenziali: I) Il mercato ottimo non è quello liberista, ma quello liberale, che ha come principio la libertà di scelta della persona, il principio che ne consegue è la concorrenza, con il diritto di proprietà e di contratto, fatto rispettare mediante regole conformi al mercato. Anche imprese pubbliche potrebbero essere ammesse, in casi particolari, purché il mercato abbia regole conformi e quindi prezzi economici e non politici e le imprese siano in concorrenza con le altre. Ma prima bisogna stabilire se la regolamentazione non funziona meglio. II) L’imposta ottima è il prezzo per i beni pubblici e le istituzioni debbono consentire che le imposte siano votate con le spese di cui sono il prezzo; essa è economica se esonera il risparmio ed evita di tassare i guadagni differenziali, derivanti da un impegno differenziale; la spesa pubblica va riferita solo ai bisogni per loro natura pubblici, fra questi ci sono anche bisogni di natura sociale, ma in funzione del principio di libertà e nei limiti compatibili con il mercato. III) Ciò comporta che l’ottimo sistema di politica sociale è quello che punta soprattutto sulla riduzione delle diseguaglianze nei punti di partenza; che si basa sul principio di responsabilità e sulla concorrenza (la libera scelta del medico e la concorrenza fra ospedali, la scelta della previdenza integrativa, dell’età per andare in pensione con una pensione collegata ai contributi versati ecc.), che deve preferire gli interventi conformi come la pensione autogestita; deve rispettare i punti critici relativi ai limiti di ogni intervento il meglio intenzionato. IV) Il sistema economico ottimale è quello dei mercati globali e lo stato ottimo è lo stato federale, superando il mito dello stato nazionale, ma attenzione al mito del colossale, gli organismi troppo grossi non funzionano. V) La scuola ottima è basata sulla abolizione del valore legale del titolo di studio, sulla concorrenza fra scuole e sulla libertà di scelta; abolire il valore legale dei titoli di studio non vuol dire che essi non servono, ma che ciascuna istituzione sceglie quali titoli, di quali corsi di laurea o diploma, di quale università o scuola superiore siano valevoli per esso.
Costantino Bresciani Turroni, nella sua Introduzione alla Politica economica,del 1943, un lucido breviario di economia di mercato liberale, dedica un ampio capitolo, il terzo, alle «imperfezioni del mercato», sia in relazione ai cicli economici, che in relazione alla presenza di economie e diseconomie esterne consistenti nel fatto che non sempre i costi e i ricavi delle imprese coincidono con quelli della società: a volte i costi delle imprese sono inferiori a quelli sociali, a volte sono i ricavi delle imprese che sono inferiori a quelli sociali. Nella prima ipotesi, le imprese tendono a espandere la produzione al di là di quello che è ottimale dal punto di vista della società nel complesso, mentre nella seconda non la espandono abbastanza. Di qui l’opportunità di azioni correttive del governo. Nel decimo e undicesimo capitolo affronta il tema delle crisi economiche e delle politiche della congiuntura e suggerisce i lavori pubblici come mezzo principale per combattere la disoccupazione mediante ricorso al credito. Ma nelle crisi economiche vi sono anche squilibri fra settori produttivi che si sono gonfiati eccessivamente e l’inutilizzo di capacità produttiva che così si genera non può essere risolto con una politica generica di aumento della domanda. Circa le tesi keynesiana secondo cui ai risparmi non consegue necessariamente un investimento e secondo cui vi è una sistematica carenza di risparmi rispetto agli investimenti, egli rileva che è vero che non vi è un automatismo per cui al risparmio segua necessariamente l’investimento, sicché possono esserci situazione di carenza di questo rispetto a quello. Tuttavia questo è un caso particolare, come quello opposto di un eccesso di domanda di investimenti e di consumi rispetto al risparmio. Inoltre, una parte delle cause dell’inadeguato investimento, specie di medio e lungo termine, è dovuto al timore di continui interventi dello stato, di misure restrittive, di cambiamenti bruschi di direttive, di limitazioni al diritto di disporre del proprio denaro. Anche le tendenze al monopolio, che occorre combattere con istituzioni adeguate, sono spesso dovute all’azione dello stato, che le genera e accresce con protezioni doganali, politiche fiscali discriminatorie, ostacoli alla concorrenza. In questo, Bresciani Turroni concorda con Einaudi che sostiene che il monopolio è spesso figlio della legge. E non a caso Einaudi ha dettato la Prefazione alla Introduzione alla politica economica di Bresciani Turroni.
L’Introduzione alla Politica economica di Bresciani Turroni del 1943, le Lezioni di Politica sociale di Luigi Einaudi, del 1946 e Il Buongoverno del 1954, la antologia di scritti einaudiani raccolti da Ernesto Rossi, sono le tre splendide opere conclusive del pensiero liberale italiano sull’economia di mercato e sulla politica economica. Nella seconda metà del ’900, come si è accennato, gli eredi politici della Destra storica liberale e del centro sinistra liberale non seppero aprirsi alle istanze sociali dei socialisti riformisti, a differenza degli economisti-politici e dei politici-economisti liberali dell’Ottocento e del periodo giolittiano. Dalla metà degli anni Sessanta del ’900 in poi, il liberalismo economico in Italia è uscito di moda, per la sua incapacità di elaborare un pensiero liberale costruttivo sui nuovi temi che si andavano delineando. Si trattò di temi nuovi fondamentali: da quello della programmazione per lo sviluppo economico, a quelli delle pensioni e del sistema sanitario pubblico, all’ordinamento regionale, alla programmazione urbanistica e alla tutela dei beni culturali e ambientali, a quello degli istituti dell’Unione monetaria europea, a quello delle priorità e dei metodi per attuare le privatizzazioni e le liberalizzazioni, a quelli della riforma delle società per azioni, della tutela della concorrenza, della borsa, della nuova finanza, della regolamentazione dei mercati finanziari e delle banche e delle autorità di controllo sui mercati, nazionali, europei e mondiali. Nella Dc, che sino agli anni Sessanta aveva accolto nel suo seno economisti e politici-economisti liberali, essi dagli anni Settanta in poi furono espunti, salvo rare eccezioni, come quella di Guido Carli, che comunque ebbe in essa un ruolo politico molto limitato. E gli economisti liberali come Antonio Martino e Sergio Ricossa ebbero un ruolo minore. Il Partito repubblicano non ebbe sostanzialmente economisti liberali.
Il pensiero economico liberale è tornato alla ribalta solo alla fine del Novecento; negli ultimi decenni del Novecento fermenta nel Psi, soprattutto dopo la svolta craxiana. E così sui principali temi di riforme che vennero via via affrontati, da quella urbanistica, a quella delle Regioni, a quella previdenziale, a quella sanitaria, a quella tributaria, alla modifica del Trattato dell’Unione Europea, con la creazione del grande mercato comune e poi con il Trattato di Maastricht e l’Unione monetaria, il pensiero politico e politico-economico liberale è rimasto emarginato, salvo appunto che per la componente che si trovava nel Psi, dopo la sua svolta anti-comunista, per altro confuso con altre tendenze. Esso era stato emarginato anche a livello accademico e culturale, in cui aveva dominato sino agli anni Cinquanta del Novecento.
Riemerge solo a cavallo fra il Novecento e il Duemila, con la caduta della prima Repubblica, dopo il trattato di Maastricht. E diventa dominante in Forza Italia e successivamente nel PDL. E altrettanto vale per la vita culturale, con nuovi organismi culturali come l’Associazione Bruno Leoni e varie Fondazioni politico-culturali, con case editrici innovative come Rubbettino, LiberiLibri, Cantagalli e con le scuole di liberalismo intitolate a Luigi Einaudi.
Ma rispetto al secondo dopoguerra e agli anni Cinquanta, in cui ci fu un periodo di rigogliosa rifioritura del pensiero economico liberale, il divario sul piano dell’elaborazione rimane molto grande.
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