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Agricoltura

di Guido Pescosolido

Definizione e origini

Letteralmente il termine agricoltura significa «arte di lavorare la terra per ricavarne il maggiore e miglior frutto possibile» [Devoto-Oli]. In economia esso identifica quella che per millenni è stata, per numero di addetti e per reddito prodotto, la più importante delle attività produttive svolte dall’uomo. Nell’accezione corrente con il termine agricoltura si indica non solo la coltivazione di specie vegetali, ma anche l’allevamento degli animali e lo sfruttamento delle foreste. L’agricoltura così intesa, unita alla caccia e alla pesca, forma l’insieme delle attività primarie, che è il primo dei tre grandi settori in cui sono suddivise, con quello delle attività secondarie e quello delle terziarie, le attività produttive di qualunque moderna economia.

Fino all’avvento della rivoluzione industriale quasi tutte le civiltà conosciute furono basate su un’economia agricolo-pastorale ed ebbero come caratteristica comune una struttura sociale ed economica nella quale una percentuale oscillante tra il 70 per cento e il 90 per cento della popolazione viveva svolgendo lavori nei campi e producendo in questo modo la parte maggior del reddito. Ancora a metà Ottocento solo l’Inghilterra aveva una struttura sociale in cui gli addetti alle attività industriali e la quota di reddito prodotta superavano quelli dell’agricoltura e solo nella seconda metà del secolo XIX altri Paesi del vecchio Continente realizzarono trasformazioni sociali simili a quelle inglesi. Nel 1861 in Italia la quota di reddito prodotta dall’agricoltura sul totale nazionale sfiorava il 60 per cento del totale, mentre le attività secondarie e terziarie stavano entrambe intorno al 20 per cento. Solo negli anni Trenta del secolo XX le attività agricole scesero per quota di reddito al di sotto delle secondarie e anche delle terziarie.

La nascita dell’agricoltura risale a un tempo infinitamente lontano rispetto a quello in cui, tra Diciassettesimo e Diciottesimo secolo, se si tralasciano i prodromi cinquecenteschi di matrice sociniana, presero forma e consistenza il pensiero e l’ideologia liberale, nonché gli ordinamenti economici e politici che a essi si ispirarono. Senza tener conto delle tracce troppo labili risalenti al Mesolitico, le prime accertate forme di allevamento del bestiame e di coltivazione della terra risalgono infatti al Neolitico, ossia per il bestiame intorno al 9.000 e per le colture campestri intorno al 7.000 a.C. Dalla coltivazione della terra derivò la più grande trasformazione che il genere umano abbia mai realizzato nel suo modo di vivere, di produrre e di costruire modelli di civiltà prima dell’avvento della rivoluzione industriale. In essa troviamo le premesse più lontane anche per la nascita di istituti giuridici e politici che sono rimasti per sempre patrimonio della storia della civiltà occidentale e che costituirono anche alcuni presupposti fondamentali delle teorie e delle pratiche del liberalismo.

Sviluppo storico

La pratica della coltura dei campi e quella dell’allevamento domestico degli animali per prevalere definitivamente rispetto alle consuetudini della raccolta di frutti spontanei della terra e della caccia di animali selvatici impiegarono tempi molto più lunghi di quelli che sono propri di una rivoluzione secondo l’accezione moderna del termine. Tuttavia, nonostante ciò, l’avvento dell’agricoltura è stata definita comunque una rivoluzione, la «rivoluzione neolitica» per l’appunto, per via della portata veramente radicale dei cambiamenti non solo tecnico-produttivi, ma economici, sociali, culturali, politici, che essa produsse.

Il primo e più importante evento rivoluzionario fu la nascita della proprietà privata del suolo, la cui salvaguardia e difesa non per caso troviamo citate nel classico passo del Secondo trattato sul governo di John Locke come la ragione fondamentale «per cui gli uomini entrano in società […] e […] eleggono e conferiscono autorità al legislativo». La necessità di difesa dei colti contro i non coltivatori, quanto meno per il periodo di tempo compreso tra semina e raccolto, portò necessariamente all’affermazione di un rapporto esclusivo e prolungato nel tempo tra uno o più individui e una porzione di suolo. Tale rapporto riservato, concepito originariamente come temporaneo, divenne col tempo definitivo, sancendo in tal modo la nascita del concetto di proprietà, individuale o collettiva che fosse, contro il concetto corrente del non possesso esclusivo e continuativo della terra o addirittura del suo non uso. Rivoluzionaria fu poi l’introduzione dell’insediamento stabile, strettamente connesso alla necessità di un rapporto diretto ed esclusivo con la terra e al concetto di proprietà privata. La necessità di difesa dei colti implicava quella di non allontanarsi da essi almeno fino al raccolto, allorché subentrava la necessità di conservare i prodotti per un periodo di tempo più o meno lungo. A entrambe queste esigenze si poteva rispondere solo mediante l’insediamento fisso sul territorio. Il nomadismo cominciò quindi a regredire. Comparvero popolazioni seminomadi o stanziali che costruirono insediamenti fissi che ben presto si trasformarono in accampamenti permanenti, che poi divennero villaggi e città. Progressivamente prese dunque forma la comunità agricola vera e propria, centro in origine economico, ma contestualmente anche di aggregazione sociale e di organizzazione politica poiché all’atto stesso della sua costituzione essa richiese l’espletamento di funzioni di natura militare e politica a tutela e garanzia delle attività produttive.

Le prime comunità agricole sorsero nel Vicino oriente intorno al 7.000 a.C. e sempre al 7.000 a.C. risalgono anche le prime prove certe di coltivazione in Messico dell’avocado. Nel corso del quarto millennio un’agricoltura molto ricca e tecnicamente evoluta fioriva nella Mesopotamia meridionale, dove la pratica dell’irrigazione mediante una complessa rete di canali implicava un’organizzazione tecnica e sociale molto avanzata e complessa. Su queste basi fu fondata anche la civiltà urbana dell’Egitto dei faraoni e l’agricoltura intensiva della valle dell’Indo e quasi tutte le successive civiltà del pianeta, sia pure con caratteristiche specifiche molto diverse l’una dall’altra a seconda dei luoghi e dei tempi in cui fiorirono. Fu agricolo-pastorale la civiltà romana, non solo quella delle origini basata sul pilastro del cittadino, contemporaneamente soldato e proprietario al quale venivano assegnate terre conquistate con la guerra, ma anche quella della maturità e della decadenza dell’Impero, basata sul sistema latifondistico affermatosi in seguito alla crisi della proprietà coltivatrice e alla disponibilità di una massa crescente di schiavi. Quando con l’arresto delle conquiste cominciarono a mancare gli schiavi, alla coltivazione del latifondo si provvide favorendovi il progressivo impiego di coloni a compartecipazione e l’introduzione di un sistema normativo teso a frenarne l’eventuale esodo. La fioritura di trattati di agronomia (Catone, Varrone, Columella, Plinio il Vecchio, lo stesso Virgilio), fu espressione non solo di un’economia alla quale si collegavano strettamente politica e istituzioni, ma di una cultura nel senso più ampio del termine, nella quale il lavoro dei campi occupava una posizione di primo piano, al di là dell’evoluzione più o meno rapida e più o meno radicale delle tecniche, delle strutture produttive e sociali, degli ordinamenti politici. Soprattutto però la civiltà romana si distinse per il ruolo largamente predominante in essa assunto, specialmente in età repubblicana e alto imperiale, dalla proprietà privata e dall’impresa individuale autosufficiente in modo diversamente da quanto accadde nell’era neolitica e nelle civiltà del Vicino, Medio e Estremo oriente nelle quali prevalsero invece forme di possesso collettivo e di gestione comunitaria delle terre nonché, in Oriente, una presenza diretta dello Stato in forme di dispotismo strettamente legate alla realizzazione e al controllo dei sistemi irrigui.

La civiltà dell’Europa medievale non perse completamente i caratteri fondamentali di quella romana, tuttavia accusò nei secoli dell’alto medioevo un generale arretramento del livello di messa a coltura delle terre e dell’allevamento del bestiame e uno scompaginamento profondo degli istituti giuridici e politici consolidatisi in epoca romana. Ciò fu conseguenza dell’azione congiunta del calo demografico causato da guerre, carestie, epidemie, e dell’introduzione degli usi di popolazioni barbariche che praticavano poco la coltivazione stabile dei terreni, vivevano soprattutto di caccia, pesca, raccolta di frutti spontanei, erano nomadi o seminomadi, conoscevano poco l’istituto della proprietà privata e usavano sistemi collettivi di sfruttamento delle terre. Specie nel Nord d’Europa e d’Italia il coltivatore individuale autosufficiente arretrò vistosamente a favore di una riorganizzazione dello spazio agrario del villaggio, nella quale vigeva la proprietà collettiva della maggior parte delle terre, anche se assegnata individualmente ogni anno in porzioni singole a contadini che, dopo il raccolto, la lasciavano al pascolo brado del bestiame comune. L’allevamento tornò a essere praticato in modo esclusivo nella forma brada di uso germanico, con conseguente dispersione del letame, regresso dei sistemi di concimazione, abbassamento delle rese, ristagno tecnico. In definitiva dall’economia agricolo-pastorale di età romana si tornò a un tipo di economia di tipo agro-silvo-pastorale in cui la coltura dei campi era meno estesa, meno produttiva, meno affidata ad aziende di tipo individuale basate sulla proprietà privata della terra ed era esercitata invece all’interno del quadro colturale e giuridico dell’economia comunitaria del villaggio, che dopo la discesa dei franchi nell’800 si trasformò nell’economia curtense dominata dal signore feudale, ma basata in larga prevalenza sui sistemi collettivi di sfruttamento delle terre. Si sottrassero a questo destino i territori sotto dominio arabo, quali la Sicilia e la Spagna meridionale, dove sistemi agricoli più intensivi, quadri colturali più variegati e sistemi di irrigazione complessi mantennero e accrebbero i livelli di produttività dell’epoca romana. Successivamente, con l’invasione normanna e la dominazione sveva, il feudalesimo e i suoi ordinamenti agrari e giuridici prevalsero anche in Sicilia come nel resto d’Europa, che viveva da secoli e continuò a vivere per molti secoli ancora di cerealicoltura estensiva, con cicli colturali che includevano periodi di riposo a maggese sempre più lunghi, assenza di piante da foraggio, allevamento brado, uso inalterato sin quasi all’anno Mille di attrezzi agricoli e tecniche risalenti all’età romana. Le colture specializzate erano soprattutto quelle orticole funzionali all’autoconsumo contadino, che era la finalità predominante dell’intera economia agricola alto-medievale, essendosi i centri urbani ridotti drasticamente di numero e consistenza. In questo contesto le possibilità di affermazione di una libera economia di mercato apparivano molto scarse e l’uscita dall’autoconsumo un’impresa molto ardua. La proprietà privata della terra era di fatto fortemente limitata nella sua pienezza da una serie di vincoli e diritti di uso da parte delle popolazioni contadine, che annullavano quasi del tutto i margini di flessibilità tecnico-organizzativa delle forme di utilizzazione.

I concetti di proprietà privata, di iniziativa individuale e di libero scambio dei prodotti non erano tuttavia scomparsi completamente, come non lo erano un certo numero di città sopravvissute alle invasioni barbariche, e quando dall’anno Mille la popolazione riprese a crescere le città fecero altrettanto nel numero e nelle dimensioni, cominciando subito a spingere sulle strutture comunitarie del contado in funzione di un aumento della produzione agricola da consumare in città da parte della popolazione urbana. Ebbe allora inizio un processo di erosione delle strutture comunitarie a favore di forme di organizzazione produttiva per conseguire l’aumento della produzione e fronteggiare la crescita della domanda di derrate alimentari da parte dei mercati cittadini. L’economia manifatturiera e mercantile delle città stimolò una prima fase di penetrazione del capitalismo nelle campagne con la ripresa delle forme privatistiche di possesso e di sfruttamento della terra soprattutto nelle aree vicine alle città. Si ebbe di fatti un aumento della produzione agricola in molte aree del Vecchio continente. Tuttavia essa fu dovuta più all’estensione delle coltivazioni a danno dei pascoli e dei boschi che a miglioramenti tecnici che pure non mancarono (introduzione dei cereali di primavera nelle aree piovose dell’Europa centrale, invenzione e adozione di un nuovo tipo di aratro dotato di versoio metallico nell’Europa centro-settentrionale, diffusione dell’allevamento del cavallo, ripresa delle pratiche irrigue) ma che consentirono aumenti di produttività che non diedero luogo a un innalzamento rivoluzionario del livello complessivo della produzione. Le rese per unità di superficie che facevano ritenere nel Medioevo ottimale un rapporto semente/prodotto di 1 a 3, solo nel XIV secolo passarono a un rapporto da 1 a 4, che equivaleva a nulla di più di un buon raccolto dell’epoca romana. Trattati di agronomia scomparsi dalla caduta dell’Impero romano ricomparvero solo nel XIII secolo come nel caso di quelli di Piero de Crescenzi o dell’inglese Walter di Henley. Si ebbe di conseguenza un peggioramento complessivo dell’alimentazione che portò a un sensibile indebolimento delle difese organiche della popolazione europea. La tragedia della peste nera del Trecento, che falcidiò di oltre il 30 per cento la popolazione europea, fu facilitata dall’insufficiente crescita quantitativa e qualitativa della produzione agricola rispetto all’aumento della popolazione registrata dagli ultimi decenni del primo millennio in poi.

Si è molto discusso sulle cause della lentezza dei cambiamenti tecnici e dello sviluppo della produzione agricola durante il Medioevo e l’Età moderna, e per la maggior parte d’Europa fino a Ottocento inoltrato e c’è convergenza abbastanza larga nel ritenere che una delle cause principali fosse la persistenza del regime feudale e delle pratiche consuetudinarie dirigiste e collettivistiche che continuarono a caratterizzare durante quei secoli in forma più o meno accentuata la società rurale europea. Le città più grandi e più forti politicamente e militarmente diedero luogo solo inizialmente a una liberalizzazione in senso capitalistico e individualistico della vita economica delle campagne. Ben presto, messi alle strette dalla pressione della plebe urbana affamata, i centri urbani cominciarono a risolvere il problema dell’alimentazione cittadina imponendo una fitta rete di controlli vincolistici sull’attività produttiva dei rispettivi contadi, obbligando questi ultimi con la forza a rifornire a prezzo politico le città di cereali e altri generi alimentari, rallentando quindi, se non bloccando del tutto, l’evoluzione verso la dissoluzione dell’economia comunitaria e la liberalizzazione della produzione e dei mercati. La lotta, tipica dell’età moderna, tra la legge del profitto, del mercato, della proprietà e dell’iniziativa individuale contro gli ordinamenti di un’agricoltura controllata da antichi e consolidati sistemi agrari governati o dagli statuti dei feudi e delle piccole città, o dai tribunali dell’annona e della grascia dei maggiori centri urbani si dispiegò in realtà già prima della grande pandemia di metà Trecento. Quando nella seconda metà del Quattrocento la popolazione del Vecchio continente riprese a crescere, riprese anche il braccio di ferro di forze favorevoli alla conservazione di un’organizzazione economico-sociale feudale, in cui l’agricoltura, base portante dell’economia, era sottoposta a un regime vincolistico, consuetudinario, paternalistico, collettivistico, contro forze fautrici di un’organizzazione economico-sociale di tipo capitalistico, in cui l’individualismo agrario e l’economia di mercato prevalessero e consentissero la rimozione degli ostacoli giuridici economici e politici che bloccavano il progresso agricolo.

Fu una contrapposizione che si protrasse molto a lungo nel tempo. Essa si concluse definitivamente in Inghilterra con la privatizzazione completa delle terre comuni attraverso le enclosures di fine Settecento, in Francia con l’abolizione del feudalesimo del 1789 e nel resto dell’Europa occidentale durante la prima metà dell’Ottocento, quando furono adottati i principi fondamentali ispirati direttamente o indirettamente dal codice civile napoleonico. Fu peraltro una contrapposizione che nelle sue implicazioni sociali e politiche si svolse nella realtà storica concreta ben prima che a livello di teorizzazione economica e politica, come accadde nella Germania teatro della guerra dei contadini. La trattatistica agronomica ne vide infatti quasi esclusivamente l’aspetto tecnico. Il massimo esponente di quella tardo-cinquecentesca, il lombardo Camillo Tarello, individuò lucidamente lo strumento per evitare l’esaurimento progressivo della feracità dei terreni coltivati a cereali e l’impossibilità di sviluppo oltre un certo limite dell’allevamento brado, che durante l’inverno doveva ridursi in misura proporzionale alla mancanza di erbe spontanee dei pascoli. Lo indicò chiaramente nell’inserimento delle piante da foraggio (lupinella, erba medica, trifoglio) in luogo del maggese nella rotazione triennale dei cereali invernali e primaverili e nella raccolta e conservazione durante l’inverno del fieno che esse avrebbero prodotto consentendo così l’allevamento stabulare di un numero di capi di bestiame enormemente più alto, con produzione maggiore di carne e latte, ma anche di letame da concime. Tuttavia non era posto in rilievo con la dovuta forza e chiarezza il ruolo frenante che sulla diffusione delle piante da foraggio avevano le terre collettive e i diritti di uso civico che in misura estesissima bloccavano qualunque trasformazione delle rotazioni dei colti richiesta dalle piante da foraggio. Fu solo con i teorici della fisiocrazia e della teoria economica classica che fu messo in luce esplicitamente che la massima valorizzazione del lavoro agricolo si sarebbe potuta avere solo in regime di massima libertà dell’impresa agricola, inconciliabile con la presenza di vincoli extraeconomici che ancora nel Settecento avviluppavano la maggior parte delle campagne europee. E di fatti bisognò attendere il XVIII e il XIX secolo perché le piante da foraggio superassero gli stretti confini delle poche enclaves in cui venivano coltivate sin dal Duecento e cominciassero a diffondersi su larga scala nella maggior parte delle campagne europee. Solo allora si realizzò quella che è stata definita la «rivoluzione agraria» dell’età moderna, che portò finalmente a un innalzamento senza precedenti delle rese delle colture e a un allargamento altrettanto forte dell’allevamento. Prima della metà del XIII secolo la produzione unitaria dei cereali ammontava generalmente a circa 3,0-3,7 quintali per ettaro. Tra il 1500 e il 1800 raggiunse i 6,3-7,0 quintali e in Inghilterra, in Irlanda e nei Paesi Bassi, fra il 1750 e il 1820, probabilmente superò i 10,0 quintali per ettaro. All’aumento delle rese contribuirono a partire dal XVIII secolo anche la diffusione del mais e della patata. Ma tutto ciò fu possibile soprattutto perché negli stessi anni la proprietà privata della terra ritrovò la pienezza giuridica che aveva avuto in età romana e l’agricoltura fu praticata sulla base di ordinamenti economici liberisti e capitalistici che si affermarono di pari passo con i principi politici liberali.

Ovviamente le nuove scoperte scientifiche ebbero un ruolo importantissimo nel determinare l’autentico balzo in avanti che la produzione agricola europea e mondiale fece registrare dalla metà dell’Ottocento in poi. I fertilizzanti naturali e chimici, le tecniche di selezione delle sementi, le nuove fonti di energia come il vapore, l’energia elettrica, il motore a combustione interna, la meccanizzazione e le tecniche di conservazione e trasporto dei prodotti vi ebbero un’importanza cruciale nei progressi vertiginosi del XIX e XX secolo. E tuttavia la disponibilità di tutti i ritrovati della scienza e della tecnica non evitarono la catastrofe dell’agricoltura sovietica sottoposta alla collettivizzazione forzata staliniana e post-staliniana. In realtà dove sono rimasti prevalenti i principi della libera impresa e del libero mercato è stato possibile realizzare progressi senza precedenti, inimmaginabili neppure dai più ottimisti degli agronomi sette e ottocenteschi. Non inganni al riguardo il fatto che nelle percentuali di formazione del prodotto interno lordo e in quelle della popolazione nei Paesi sviluppati dell’Occidente l’agricoltura attiva abbia visto ovunque diminuire drasticamente il proprio peso. Ciò è stato dovuto all’avvento dell’industrializzazione e poi dell’economia postindustriale che hanno realizzato progressi stratosferici rispetto a quelli agricoli. In realtà, in termini assoluti lo sviluppo dell’agricoltura è stato enorme e proprio nei Paesi industrializzati a economia liberale e capitalistica si concentra oggi la maggior quota della produzione agricola mondiale e la fonte di esportazione di derrate verso le aree colpite da povertà e carestie.

L’agricoltura italiana

L’agricoltura italiana pur con le sue specificità cronologiche e qualitative dovute alla sua condizione climatica, geografica e storica, ha seguito in linea di massima l’evoluzione delineata per quella del resto d’Europa. Arretramento quindi dei livelli di messa a coltura e dell’individualismo agrario durante l’età del basso impero e del Medioevo. Uno studioso come il Curis individuò già nei latifondi tardo-imperiali l’esistenza di diritti collettivi di lavoro e utilizzazione delle terre del latifondo da parte di coloni «utilisti» dietro versamento di una quota del prodotto al latifondista «direttario». Nel Medioevo l’economia di villaggio, la curtis medievale e l’economia feudale si estesero praticamente all’intera penisola con forte arretramento della proprietà libera e un’estensione generalizzata di usi civici e diritti collettivi delle comunità rurali e delle popolazioni feudali. Con la conquista normanna della Sicilia il feudalesimo si estese anche nell’isola e vi fu soppresso solo nell’Ottocento. L’Italia settentrionale fu invece una delle aree che per prime in Europa videro la rinascita delle città e l’inizio dell’erosione dell’economia e della società feudali. Lo sviluppo commerciale e manifatturiero delle repubbliche marinare e della rete dei comuni e delle signorie dell’Italia centro-settentrionale, con i loro ricchi patriziati cittadini, sospinse la penetrazione di rapporti se non propriamente e ovunque capitalistici, certo precapitalistici nella maggior parte delle campagne settentrionali. In Italia meridionale e insulare il regime feudale restava invece saldamente attestato in oltre il 70 per cento del territorio e il latifondo feudale a grano e pascolo costituiva l’ossatura portante dell’economia di quelle regioni. A stabilizzare questo stato di cose nel Mezzogiorno fu paradossalmente lo stesso capitalismo manifatturiero, commerciale e finanziario del NordItalia, che assunse il controllo dello smercio del grano meridionale e anche della seta lasciando inalterata la struttura dei rapporti di produzione, della struttura sociale e degli ordinamenti politici, per cui quando a partire dalla fine del Cinquecento le manifatture delle regioni centro-settentrionali entrarono in crisi e conseguentemente si rafforzò la componente agricola dell’economia del Nord-Italia, i rapporti di produzione della penisola si ritrovarono sensibilmente differenziati dalla presenza predominante nel Sud e nelle isole del latifondo feudale ed ecclesiastico, mentre invece nell’area tosco-umbro-marchigiana, ma anche nella maggior parte dell’area collinare piemontese, lombarda e veneta e in buona parte della pianura padana prevalevano forme differenziate di compartecipazione colonica, e in alcune zone irrigue della pianura padana il grande affitto capitalistico, sia pure fino alla metà dell’Ottocento in enclaves molto ristrette. Se si considera che la mezzadria toscana aveva un radicamento e una stabilità molto forte, ma nelle altre aree della compartecipazione colonica l’evoluzione verso la grande, media e anche piccola affittanza capitalistica appariva in atto anche se con lentezza, si comprende perché l’abolizione del feudalesimo a opera dei francesi all’inizio dell’Ottocento diede risultati più significativi soprattutto nel Mezzogiorno. Nel Nord l’avanzata della proprietà terriera borghese libera da vincoli feudali e collettivi era in atto da tempo e le forme di utilizzazione agricola della terra erano molto più vicine a quelle capitalistiche di quanto non avvenisse nel Sud. Certo, con l’eversione della feudalità il latifondo non scomparve e solo una parte delle terre baronali e demaniali furono vendute a proprietari borghesi, tuttavia la cosa più importante fu l’abolizione dei diritti d’uso feudali e collettivi, per cui anche i latifondi superstiti entrarono nel libero mercato della terra e nella piena disponibilità dei proprietari per eventuali modifiche tecnico-colturali, anche se queste tardarono alquanto a venire.

Al momento dell’unità lo Stato italiano si trovava ad affrontare uno dei compiti fondamentali di un regime liberale, ossia quello dell’affermazione della pienezza giuridica della proprietà della terra, in una parte minoritaria del suo territorio, in particolare nel Lazio, il cui territorio era ancora interessato per oltre il 50 per cento da usi civici, e nelle regioni di alta montagna alpine, dove il manso era un’organizzazione produttiva largamente presente. Nel resto della penisola il problema era stato per lo più risolto, anche se nel Mezzogiorno era avvenuto lasciando una scia di rancori da parte dei contadini contro la nuova borghesia terriera che sarebbe stata dura a morire. In realtà nel 1861 erano altri i nodi che l’agricoltura italiana richiedeva al nuovo Stato di affrontare e per i quali i principi della dottrina liberale e liberista erano ritenuti la ricetta più idonea. Non quello della spartizione delle terre, ritenuta inconciliabile con la difesa della proprietà privata come principio irrinunciabile di libertà e garanzia di sviluppo economico: la vendita delle terre degli enti ecclesiastici soppressi fu ritenuta legittima solo in quanto coincidente con l’eliminazione di un fenomeno illiberale e pre-capitalistico come quello della manomorta ecclesiastica, e in quanto funzionale agli interessi pubblici dello Stato liberale e allo sviluppo più efficace dell’istituto della proprietà privata e dell’economia agricola. Non quello della modifica dall’alto dei contratti agrari e dei rapporti di produzione: la libera contrattazione delle forze economiche era ritenuta uno dei capisaldi della dottrina liberale e l’idea di un intervento dello Stato in questa materia cominciò a circolare, peraltro senza immediata attuazione, verso la fine degli anni Settanta dell‘Ottocento nelle proposte di rimedio alla questione meridionale avanzate da liberali come Pasquale Villari e Sidney Sonnino. Il nucleo fondamentale del programma economico del movimento nazionale, in tutte le sue componenti e non solo in quella moderata-cavouriana, era imperniato sulla creazione di condizioni ottimali per la libera impresa e fra queste primeggiava la liberalizzazione degli scambi commerciali all’interno e all’estero. Era un programma perfettamente funzionale agli interessi di un’economia agricolo-commerciale come quella italiana di metà Ottocento favorita da una ascesa dei prezzi agricoli su scala internazionale che durò ininterrottamente in tutto il quarantennio 1840-’80. Trovava il pieno consenso del mondo della cultura economica dominante della scuola di Francesco Ferrara ed ebbe il totale assenso della rappresentanza parlamentare del nuovo regno, con pochissime voci discordanti preoccupate delle sorti di un apparato manifatturiero assolutamente impari a quello dei Paesi europei più industrializzati. Era un programma agricolturista che riteneva che lo sviluppo economico italiano potesse avvenire rimanendo quella italiana un’economia eminentemente agricola capace di assumere nella divisione internazionale del lavoro un ruolo di fornitrice di materie prime, derrate alimentari e semilavorati tessili alle economie industrializzate del Nord Europa, le quali avrebbero collocato nella penisola i loro prodotti manufatti. Era il programma attuato da Cavour in Piemonte nel decennio di preparazione e che fu integralmente condiviso dalla classe politica italiana fino al 1887. Esso si dimostrò valido fino alla fine degli anni Settanta e consentì fino ad allora un sviluppo della produzione agraria e un’accumulazione di capitale di notevole rilievo basata su di essa e sulla funzione assunta dallo Stato di grande operatore finanziario che prelevò risorse dall’agricoltura e le impiegò nell’ammodernamento delle strutture civili. Alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento, l’arrivo dei cereali americani sui mercati europei a prezzi insostenibili per le agricolture del Vecchio continente costrinse tutti gli Stati europei, tranne l’Inghilterra, ad abbandonare il liberismo e ad adottare tariffe doganali di protezione sia della cerealicoltura sia dell’industria. In Italia nel 1887 fu adottata una tariffa doganale che introduceva un dazio sul grano, sullo zucchero e su una serie di prodotti dell’industria che diede finalmente partita vinta alla pattuglia protezionista che, guidata da Fedele Lampertico e Luigi Luzzatti, aveva già preso deciso vigore con l’inchiesta industriale del 1870-1874 e aveva fondato nel 1875 l’«Associazione per il progresso degli studi economici» con suo organo ufficiale il «Giornale degli Economisti», contro l’ultraliberista «Società Adamo Smith» e la rivista «L’Economista» di Francesco Ferrara.

Contro la tariffa protezionista del 1887 si aprì una polemica violentissima da parte della scuola liberista e anche della maggior parte del pensiero meridionalista, che accusarono le forze governative di avere sacrificato l’agricoltura specializzata ed esportatrice, soprattutto meridionale, agli interessi dei latifondisti e di avere privilegiato le industrie siderurgiche, meccaniche e tessili non competitive a scapito di quelle leggere e «naturali» (serica e alimentare), d’onde uno sviluppo economico forzato e senza capacità competitiva e un’inutile dissipazione di risorse. La polemica si protrasse a lungo anche nel XX secolo e si placò solo dopo il secondo conflitto mondiale con l’entrata dell’Italia nel Mec. La sua durezza indusse molti a ritenere che con la tariffa del 1887 gli interessi dell’agricoltura italiana fossero stati sacrificati a quelli dell’industria, quelli del Sud a quelli del Nord e che l’intera economia nazionale nel suo insieme ne sarebbe risultata danneggiata. Inoltre, il fatto che lo Stato dagli anni Ottanta assumesse un ruolo sempre più interventista nell’economia del Paese indusse molti a mettere in discussione anche il fatto che esso potesse definirsi uno Stato autenticamente liberale.

In realtà la tariffa dell’87 non fu un provvedimento prevalentemente industrialista, anche se da esso sarebbe derivata, ma dopo quasi un secolo, la scomparsa in Italia non dell’agricoltura, ma della società rurale tradizionale. La tariffa fu invece un provvedimento volto anzitutto e soprattutto a salvare prima della cerealicoltura del latifondo meridionale, quella delle aziende agrarie capitalistiche e non del NordItalia, ossia l’intera cerealicoltura nazionale che nel 1887 era ancora di gran lunga, per manodopera occupata, reddito e peso sociale, il settore più importante dell’intera economia italiana. E lo fece con successo, anche se il Mezzogiorno pagò un prezzo ingentissimo e tuttavia inevitabile. Il successivo ridimensionamento del peso dell’agricoltura nell’ambito dell’economia italiana non derivò da un suo mancato progresso in assoluto, ma dallo straordinario sviluppo dell’industria e del terziario, così come è avvenuto nei Paesi più progrediti dell’occidente a partire dagli Stati Uniti. Nel 1887 il prodotto lordo privato dell’agricoltura scese per la prima volta dal 1861 sotto il 50 per cento del totale, accusando una perdita di 8,5 punti rispetto al 1880, ma nei successivi 14 anni il dazio sul grano mostrò tutta la sua efficacia facendo crescere il prodotto interno lordo agricolo da 25,6 a 33,0 miliardi di lire a prezzi costanti (1938), il che consentì all’agricoltura di tornare nel quadriennio 1898-1901 a superare il 50 per cento della quota di partecipazione al prodotto lordo totale, crescendo quindi più delle attività secondarie e terziarie. In età giolittiana, nonostante i progressi ottenuti anche in campo agricolo, il grande boom industriale diede inizio al ridimensionamento del peso relativo delle attività primarie che si sarebbe concluso nel 1985 con la discesa per la prima volta sotto il 5 per cento della quota di partecipazione alla formazione del valore aggiunto e con il 10 per cento circa degli occupati, ma che ebbe un percorso molto lento: solo nel 1924 infatti il prodotto lordo dell’agricoltura scese al di sotto del 40 per cento del totale e solo nel 1933 risultò inferiore sia a quello dell’industria che a quello delle attività terziarie.

Per quanto riguarda infine il problema del tasso di liberalismo della classe politica dagli anni Ottanta dell’Ottocento in poi, appare ormai chiaro che l’idea di uno Stato liberale completamente disinteressato al processo di sviluppo economico nell’età dell’avvio dell’industrializzazione non si realizzò compiutamente neppure in Inghilterra, che pure vi si avvicinò più di qualunque altro Stato. Del resto con Keynes la stessa teoria economica pervenne alla conclusione che per evitare l’inceppamento e il crollo del sistema capitalistico e per determinare la possibilità della creazione della ricchezza necessaria a permettere a tutti di realizzare compiutamente una condizione di vita liberale lo stesso sviluppo capitalistico esige un intervento organico dello Stato. Il liberalismo italiano e le politiche economiche e agricole dello Stato unitario non furono mai ispirate al completo disimpegno della mano pubblica dai processi economici, neppure nei primi anni di vita dello Stato unitario, quando pur nel quadro di una politica indiscutibilmente disimpegnata quanto a intervento diretto nelle attività produttive e nei rapporti commerciali con l’estero, fu tuttavia attuata proprio dallo Stato una grande forzatura dei tempi e dell’entità dell’accumulazione di capitale e del loro impiego in opere pubbliche e infrastrutture. Gli interventisti e i protezionisti non ritenevano, e a ragione, di essere, e di fatto non furono, al di fuori della tradizione liberale nazionale ed europea. Un’ipotesi del genere è stata fatta, ed è apparsa a molti non del tutto priva di fondamento, riguardo all’atteggiamento che Giolitti assunse in materia di conflitti del lavoro, quando la decisione del non intervento della forza pubblica fu vista come un abbandono del principio liberale di intangibilità della proprietà privata. E tuttavia sia in quel caso, sia soprattutto nei provvedimenti che a partire dalla conclusione della Prima guerra mondiale fino alla riforma agraria degli anni Cinquanta e alle successive leggi sui contratti agrari e sul rapporto di mezzadria, non si può ignorare che l’atteggiamento dello Stato sia stato conforme al principio liberale dell’obbligo da parte di esso di farsi garante per tutti delle condizioni minime di partenza sul piano economico, sociale e politico.

Bibliografia

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Brano tratto dal "Dizionario del liberalismo italiano", edito da Rubbettino Editore. Clicca qui per acquistarlo con il 15% di sconto