America
di Giorgio Rebuffa
«O voi che amate l’umanità! O voi che osate opporvi non soltanto alla tirannia, ma anche al tiranno, fatevi avanti! Ogni angolo del vecchio mondo è invaso dall’oppressione. La libertà è perseguitata in tutto il globo. L’Asia e l’Africa da lungo tempo l’hanno espulsa. L’Europa la considera un’estranea, e l’Inghilterra le ha dato il preavviso di sfratto. O voi, ricevete la fuggitiva e preparate in tempo un asilo per il genere umano». Con queste parole Thomas Paine, nel 1776, conclude Common Sense. Ed è da queste righe che si può far cominciare il lungo rapporto tra le due sponde dell’Atlantico alla ricerca della libertà moderna.
L’America è al centro, quasi il motore, di questo itinerario a partire dalla Dichiarazione di Indipendenza e dalla sua «rivoluzione costituzionale». Vi sono in questa, tre fondamentali elementi. In primo luogo, un nuovo concetto di rappresentanza: le colonie esigono la rappresentanza «reale», quella espressa dalle comunità viventi sul suolo americano, non quella «virtuale» offerta da Londra.Anche se passano attraverso questo tipo di rappresentanza le leggi diventano «intollerabili».
La Dichiarazione del primo Congresso continentale nel 1774 aveva posto, infatti, un principio costituzionale del tutto nuovo: vi possono essere leggi «intollerabili», anche quando sono state approvate da un Parlamento. E, aggiungevano i convenuti a Filadelfia, ribellarsi contro quelle leggi non era solo lecito, ma era quasi un obbligo di fronte a Dio.
L’idea che possano esistere «leggi intollerabili», va di pari passo con una nuova idea di rappresentanza: viene rovesciato il vecchio significato della tradizione inglese, legato alla rappresentanza corporativa e cetuale. Il 1776 è data fondamentale della storia moderna, perché compare l’idea americana di libertà e Jefferson esprime nella Dichiarazione del ’76 la compiutezza del pensiero americano.
La Costituzione americana nasce proprio dalla specificazione di cosa sia «rappresentanza». E cosa siano i limiti che anche a essa vanno posti. Gli inglesi e i «lealisti» sostenevano l’idea di una rappresentanza virtuale; l’idea secondo cui si potesse essere rappresentati anche non direttamente: Westminster, anche senza il voto delle Colonie, poteva ben «rappresentare» anche la Virginia. Gli americani lottavano invece per la rappresentanza «reale». È questo un momento decisivo della modernità perché si rompe lo schema feudale e appare per la prima volta l’idea che il popolo sia una somma di individui, non più di ceti, di «ranghi».
Con questa rottura finisce il sogno imperiale della Gran Bretagna, l’impero impossibile, quello che secondo Adam Smith, non era mai stato una realtà e mai lo sarebbe stato. Il sogno finisce perché gli americani impongono una diversa idea di rappresentanza.
Vi è un altro elemento della Rivoluzione costituzionale americana, anche questo espresso a Filadelfia dal Secondo congresso continentale: chiedere la libertà per conseguire il benessere e la felicità individuali altro non è che eseguire la volontà di Dio. Gli americani prendono sul serio l’illuminismo: il diritto alla ricerca della felicità è a gloria di Dio e la libertà politica ne è condizione imprescindibile. Come scrive Jefferson: «Quando si combatte il tiranno si celebra Dio».
La guerra contro l’Inghilterra (o meglio: contro la tirannia del parlamento di Westminster), comincia per la difesa dei diritti e si conclude con l’indipendenza: le armi americane sono poste al servizio della rappresentanza americana.
L’indipendenza è un altro elemento della libertà americana. E se, certo non vi è la compiuta dottrina della nazione come base della rappresentanza, che verrà formulata nei primi momenti della Rivoluzione francese ad opera di Sieyès, è qui che la dottrina trova la sua genesi. Il rispetto del diritto naturale, inteso come sistema dei diritti soggettivi, ha come conseguenza l’indipendenza. Come scrive Thomas Paine in Common Sense: «non vi siano più Re, il diritto sia il Re».
L’idea rivoluzionaria dei limiti alla rappresentanza fa evolvere il sistema costituzionale statunitense in modo del tutto peculiare. L’enfatizzazione del ruolo del potere giudiziario costituisce il centro del modello costituzionale americano. In esso i «poteri» individuati dalla tradizione del pensiero costituzionale diventano «assolutamente separati»e affidati a «organi separati». Il punto di partenza per lo svilupparsi di questa visione, in cui risiede l’originalità della struttura politico-costituzionale americana, è l’esigenza di trovare i modi più efficaci per limitare il potere legislativo.
Nel momento di formazione della Repubblica tale esigenza è legata soprattutto a due fattori. Il primo è l’esperienza dei rapporti tra le colonie ed il Parlamento inglese: la rivoluzione costituzionale americana nasce sulla base del rifiuto della sovranità del parlamento di Westminster.
Il secondo elemento è la necessità di costruire una struttura federale, giacché gli abitanti delle singole colonie non intendevano rinunciare alle loro autonomie normative, consolidate e osservate anche nel periodo della dominazione inglese. Il disegno federale comporta il ridimensionamento netto, se non il rifiuto, di un concetto cardine della filosofia politica europea, quello di sovranità. In una struttura costituzionale dove le competenze normative devono essere ripartite e divisetra organi della federazione e organi dei singoli Stati, non può trovare posto l’idea che un qualche soggetto istituzionale possa essere dotato di competenze normative illimitate.
Da questo postulato discende l’idea che la costituzione sia una legge «superiore» alle norme ordinarie, vincolante innanzitutto per il potere legislativo. La fonte principale sulle origini del costituzionalismo americano è la serie di saggi (un vero e proprio commentario al progetto di costituzione), scritti da tre rappresentanti dello Stato di New York, Hamilton, Jay e Madison, pubblicati nel 1788 e raccolti sotto il titolo di The Federalist. In questi saggi è raccolto il nucleo originario di tutta la dottrina costituzionale americana. Il punto di partenza degli autori del Federalist èl’opinione secondo la quale il documento costituzionale esprime una volta per tuttela volontà del popolo. Conseguentemente le norme costituzionali si collocano in una posizione assolutamente diversa da tutte le altre: «Pochi paesi sembrano aver ben compreso ed aver applicato quella distinzione così fondamentale che l’America ha ormai pienamente accolto tra una costituzione che viene fissata dal popolo e non può venir alterata dagli organi costituzionali, e una legge votata dagli organi rappresentativi e che può quindi venir modificata da questi».
Per questo la Costituzione deve essere un documento «rigido», modificabile solo con procedure complesse. In questo modo lo stesso potere legislativo agisce «su delega della costituzione», ed è vincolato da ciò che questa gli permette di fare o da ciò che questa gli vieta. Tutta l’architettura costituzionale viene modellata in funzione di questo obiettivo: dal diritto di veto sulla legislazione del Congresso attribuito al capo dell’esecutivo (il Presidente degli Stati Uniti) alla ripartizione delle competenze normative tra organi statali e organi federali, all’affidamento di incisive competenze di controllo al potere giudiziario. In questo modo, l’organizzazione costituzionale diventa un sistema di interferenze e controlli reciprocitra i poteri, perché si deve prevedere il modo di «garantire a ciascuno il controllo costituzionale sugli altri», al fine di «far sì che ogni parte possa costituire essa stessa nei confronti delle altre il mezzo atto a contenerle entro i limiti costituzionali ad essa connessi».
Gli autori del Federalist rileggono Montesquieu e, in qualche modo, riformulano la dottrina della separazione: «quel che egli intendeva affermare […] non poteva essere che questo: che qualora chi possiede tutti i poteri di un determinato settore, assommi a sé anche tutti i poteri di un altro, vengono in tal modo sovvertiti i principi su cui poggia una costituzione democratica». In questo quadro il ruolo del potere giudiziario diventa determinante: la sua indipendenza (che si esprime nella nomina a vita dei giudici e non nella elettività) diviene assoluta. «Le corti – leggiamo nel Federalist – sono state designate ad essere un organo intermedio tra il popolo e il corpo legislativo al fine, tra l’altro, di mantenere quest’ultimo nei limiti imposti al suo potere [esse sono] come i baluardi di una costituzione rigida contro i possibili soprusi legislativi». La dottrina del Federalist,che potrebbe essere definita come una dottrina del «legislatore limitato», verrà sviluppata e applicata negli anni immediatamente successivi all’adozione del documento costituzionale, attribuendo. al potere giudiziario, ed in particolare al suo vertice, la Corte suprema federale, particolari funzioni. Sarà Tocqueville a osservare come il ruolo del potere giudiziario rappresentasse l’elemento di differenziazione più rilevante tra l’organizzazione costituzionale europea e quella statunitense: «Presso le nazioni europee i tribunali esercitano la loro giurisdizione solo nei confronti dei privati: mentre si può dire che la Corte Suprema degli Stati Uniti fa comparire davanti a sé dei sovrani» e ancora «il potere accordato ai tribunali americani di pronunciarsi sull’incostituzionalità di una legge, rappresenta ancora una delle più potenti barriere che siano mai state elevate contro la tirannia delle assemblee politiche».
Per la verità, il grande potere della Corte suprema non era affermato in modo esplicito nel documento costituzionale del 1787, dove ci si limitava a indicare che «Il potere giudiziario si estenderà a tutti i casi di diritto e di equità che si presenteranno nell’ambito della presente costituzione» [Articolo III, sezione 2]. Esso è piuttosto il prodotto degli implied powers che il documento attribuisce alla Corte. Tali implied powers vengono esplicitamente affermati nel caso Marbury versus Madison, la decisione del 1803, in cui si trova pienamente formulata la versione americana del principio della separazione dei poteri. Nell’argomentazione della decisione da parte dei giudici della Corte suprema il principio costituzionale dei «limiti» all’azione dei poteri elettivi, esecutivo e legislativo, è interpretato come un mezzo per espellere dall’ordinamento, dichiarandole incostituzionali, le norme legislative (o di altra fonte), che ne violino i principi: «La differenza tra un governo limitato ed uno con poteri illimitati – si legge nella decisione – svanisce qualora le limitazioni non abbiano effetto sulle persone alle quali vengono imposte, e se leggi proibite e leggi consentite rimangono tutte in vigore. È un’affermazione troppo chiara perché possa essere contestata, che la Costituzione proibisce ogni legge che sia in contrasto con essa; e che nessuna assemblea legislativa può mutare la costituzione con una legge ordinaria. Tra due leggi in conflitto sono le corti a dover giudicare la validità dell’una o dell’altra».
Questa torsione della dottrina della separazione diventa l’asse lungo cui si svilupperà la prassi costituzionale degli Stati Uniti e sarà la linea guida non solo delle Corti, ma anche della Presidenza e del Congresso. Questa versione non si limita all’attribuzione di poteri distinti a organi separati, ma è anche una dottrina del «conflitto tra poteri»che devono intralciarsi reciprocamente. L’esecutivo ha la facoltà di nominare i membri del giudiziario e di porre il veto ai provvedimenti legislativi; a sua volta il potere legislativo vaglia le nomine proposte dall’esecutivo e può impedire dei suoi indirizzi normativi. Il giudiziario, poi, apparentemente così dipendente, nel momento della nomina dei suoi membri dall’esecutivo e dal legislativo, è in grado di bloccare ogni decisione normativa degli altri due poteri dichiarando costituzionalmente nulli i loro atti.
Il mito della libertà americana costruisce la Francia rivoluzionaria. Ma questa, per così dire, «rapisce» il mito, lo fa suo e lo trasforma dandogli una ben differente torsione. Infatti, a partire dalla fine della fase rivoluzionaria le definizioni e l’idea stessa di Costituzione dell’Europa continentale si differenziano nettamente rispetto alle definizioni e alle concezioni di Costituzione degli americani. Nell’Europa, dove domina la dottrina francese anche nell’età della Restaurazione, Costituzione e diritti vengono collocati in un orizzonte utopico e, in termini giuridici, «costruttivista»: i diritti sono immutabili e proclamabili, il legislatore (anche il costituente) non è che «il notaio della natura». L’America torna nel Vecchio continente con il viaggio di Tocqueville, che par quasi compiuto per rettificare il mito, per far tornare alle origini la Rivoluzione atlantica. Due passi del grande liberale francese ci possono aiutare a comprendere questo percorso e la divaricazione degli «opposti sentieri del costituzionalismo», per usare l’espressione storiografica consolidata. Il primo passo, del 1835, si trova nella prima parte de La democrazia in America: «Quando si visitano gli Stati Uniti e si studiano le loro leggi, ci si accorge che l’autorità che è stata data ai legisti, e l’influenza che si è lasciata loro prendere nel governo, formano oggi la più potente barriera contro gli sbandamenti della democrazia». Il secondo, di circa dieci anni successivo, contenuto in una Memoria accademica, esprime la critica di Tocqueville verso il modo in cui la dottrina stava costruendo in Francia il sistema del diritto amministrativo: «Stiamo attenti che non si spandano, in materia di diritto amministrativo delle massime che rendano alla monarchia rappresentativa del nostro tempo lo stesso servizio che i legisti del Medioevo hanno reso alla monarchia feudale, e che, per odio della confusione dei poteri e dell’anarchia, non si stabiliscano dei principi che ci facciano a poco a poco perdere la libertà».
Si tratta di due giudizi che esprimono opinioni apparentemente divergenti sul ruolo del ceto dei giuristi: positivo nella repubblica americana, negativo e quasi preludio al dispotismo nella monarchia francese. La ragione di questa (solo apparente) contraddizione sta nel fatto che Tocqueville coglie la ben diversa valenza del ruolo dei professionisti del diritto nei due contesti istituzionali. Oltre Atlantico, questi continuano a essere la voce – per attenerci alla formula di Lord Coke – della «ragione artificiale». In primo luogo in America, a differenza che in Francia e nell’Europa continentale, non vi era distinzione tra soggetti (pubblici e privati) nelle controversie; vi era la presenza, poi, della Corte suprema e del controllo di costituzionalità; e, infine, bisogna considerare i peculiari e ben diversi caratteri delle dottrine, dei linguaggi, dei concetti, usati dai giuristi dalle due parti dell’Atlantico. Tocqueville analizza tutti questi elementi, ma ciò a cui attribuisce uno speciale significato è l’ultimo, quello che riguarda la cultura giuridica. Il ruolo e la formazione dei giuristi nel continente americano si modellano sulle esigenze professionali, mentre nell’Europa continentale avviene esattamente il contrario; e i linguaggi professionali si adeguano all’universo concettuale costruito nelle accademie e, soprattutto, nelle amministrazioni dello Stato. È, quindi, del tutto diversa la funzione costituzionale e politica dei giuristi.
Il sistema statunitense costruito sul principio dell’autonomia delle professioni giuridiche, sulla loro «non statualità», consente che la cultura giuridica (la «ragione artificiale») costruisca valori e indirizzi non sempre coincidenti con quelli dei poteri pubblici. Anzi, si può dire che proprio qui vada cercata l’origine di una società «autoregolata» e «contrattuale», in cui la regolamentazione dei rapporti tra soggetti e «attori sociali» è affidata all’autonomia privata, e dove l’intervento regolatore dei soggetti pubblici è ridotto al minimo.
Il carattere «autonomo» delle professioni giuridiche (in parte un’eredità britannica in cui erano le scuole organizzate dalle professioni, gli Inns of Court, a determinare contenuti e metodi della formazione professionale), trova il suo fondamento in un postulato costituzionale «latente», da cui origina la repubblica americana: la diffidenza verso il legislatore. Vi è nella formazione del sistema statunitense una particolare accentuazione dell’opinione di Montesquieu sulla «pericolosità» del potere legislativo. Per gli americani, una preoccupazione costituzionale è – come scrive nel Federalist Alexander Hamilton – di rimediare al fatto che «i rappresentanti del popolo riuniti in assemblea sembrano talora fantasticare di essere il popolo stesso». Al fine di arginare il legislatore si seguono varie strade. In primo luogo, la peculiare applicazione della dottrina della separazione dei poteri, che diventa il conflitto tra di essi. Ma altrettanto importante è l’altro elemento: l’autonomia e l’unità delle professioni giuridiche. Nel continente europeo la funzione dei giuristi si colloca in una prospettiva quasi opposta. Qui vi è l’assunto epistemologico per cui il diritto sia una scienza, tassonomica e classificatoria, analoga alle scienze naturali; una «scienza esatta». Di conseguenza, si afferma un particolare ruolo dei giuristi, quasi parte dello Stato. Come scrive Savigny, che di tale concezione può essere considerato l’iniziatore: «Allora si affermerà una classe speciale di giuristi, la quale, essendo pure parte del popolo, ne rappresenta l’insieme in questa sfera intellettuale […] Nei suoi princìpi fondamentali [il diritto] vive nella comune coscienza del popolo, mentre il più speciale perfezionamento e l’applicazione nei particolari forma il compito della classe dei giuristi».
Ma l’emisfero di libertà continua ad essere un potente fattore di attrazione politica, anche al di là della sua struttura costituzionale. Basta pensare ai nomi di grandi europei come Alexander Herzen o Giuseppe Mazzini. L’America resta anche un sogno di palingenesi sociale, con la consapevolezza, come ha scritto uno storico dei rapporti transatlantici, Vann Woodward, che nel vecchio mondo «la lotteria era terminata da un pezzo e i premi erano stati assegnati». Per molti europei e per molti decenni, nell’Europa dell’Ottocento – scrive ancora lo storico – l’idea di America «ha unito in se tutte le cose che mancavano in patria». Nonostante qualche risentimento letterario (come, per esempio, in Charles Dickens), l’America fino ai primi decenni del Novecento, resta più un mito sociale, che un riferimento politico e costituzionale. Persino nell’Inghilterra vittoriana, quando nel 1888 esce il libro di James Bryce The American Commonwealth,anche per le classi dirigenti britanniche la scoperta di un sistema politico e costituzionale complesso e sofisticato come quello statunitense par quasi una sorpresa. Nel continente la crisi della democrazia liberale, dopo la Prima guerra mondiale, cambia anche il clima culturale. Lentamente l’immagine dell’America cambia e si insinua il mito antiamericano, snobistico, oligarchico e nella sostanza plebeo, che rappresenta il Nuovo mondo come la terra in cui «Vulcano ha ucciso Apollo». «Americanizzazione» diventa un termine spregiativo. In realtà l’antiamericanismo, altro non era che l’estrema ribellione contro la modernità e la democrazia di massa. E non a caso di antiamericanismo si sostanziano anche i fascismi degli anni Venti e Trenta.
Tutto questo è il passato, perché oggi non solo la comunità atlantica è ricostruita, ma anche perché l’ordine economico globale avrà bisogno di un ordine giuridico nuovo, che non potrà che partire dai principi che i Padri fondatori formularono alla metà del Settecento.
Bibliografia
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