Amministrazione
di Antonella Meniconi
Nel 1861 l’amministrazione del nuovo Stato italiano appariva impiantata su un solido assetto gerarchico, limitata com’era a un ventaglio assai esiguo di funzioni, ridotte al minimo secondo i principi della dottrina liberale che mal tolleravano l’invasione del potere pubblico nella sfera dei privati. Essa tuttavia, fin dalle origini, presentò almeno due paradossi.
Il primo fu rappresentato dalla struttura gerarchica e autoritaria («piramidale») che lo Stato costituzionale si vide costretto a dare all’amministrazione, e ciò proprio per rispettare l’articolo 67 dello Statuto albertino del 1848, che aveva introdotto il concetto di «responsabilità ministeriale» [«I Ministri sono risponsabili. Le Leggi e gli Atti del Governo non hanno vigore, se non sono muniti della firma di un Ministro»]. La riforma Cavour del 1853 nel Regno di Sardegna (presupposto immediato di quello che fu poi il nuovo assetto dopo l’unità) fu essenzialmente una risposta a questa disposizione costituzionale, introducendo un modello di amministrazione per ministeri, alla francese, in luogo di quel sistema «misto» per aziende (essenzialmente organi semiautonomi di gestione economica) e segreteria di Stato che era stato a lungo in vigore nel Piemonte pre-costituzionale. La legge 23 marzo 1853, n. 1483 e il regolamento per la sua attuazione, il regio decreto 23 ottobre 1853, n. 1611, fissarono un’articolazione uniforme all’interno di ciascun ministero, basata su una rigida gerarchia, in cui tutti gli impiegati, dal vertice (il segretario generale e i direttori generali, seguiti dai capidivisione) alla base (segretari e applicati delle varie classi, supportati dai volontari), dovevano rispondere del proprio operato ognuno al rispettivo superiore gerarchico, e infine al ministro, senza il riconoscimento di alcuno spazio di autonomia ai singoli livelli amministrativi.
Il primo elemento di dissonanza fu rappresentato dal rapporto di stretta «osmosi» che venne subito a crearsi tra politica e amministrazione. Una ristretta élite di uomini, in un’Italia caratterizzata dal suffragio elettorale assai ristretto (votava nel 1861 solo l’1,9 per cento della popolazione), si alternò alla guida politica del Paese e, allo stesso tempo, ai vertici delle varie amministrazioni, concorde nel compito, anche, di costruire l’identità nazionale in un Paese sino ad allora diviso e in larghe parti economicamente e culturalmente arretrato. Nell’età della Destra governò un limitato gruppo aristocratico-borghese (di una borghesia legata alla rendita terriera) composto sia di generali e alti ufficiali dell’Esercito e della Marina (il continuum con la monarchia), sia di alti magistrati (per dire due nomi di magistrati-ministri Michele Pironti, Paolo Vigliani), sia di nobili (come il marchese Antonio Di Rudinì) o di alti funzionari del Ministero dell’interno o di quello dei Lavori pubblici (come Giuseppe Gadda, prefetto a Roma al momento del trasferimento in quella città della capitale). Questa élite (specie i prefetti detti anche «dell’unificazione») rappresentarono spesso al meglio in periferia il nuovo volto dello Stato italiano, rafforzandone le istituzioni anche attraverso accorte politiche nei confronti degli amministrati (per esempio riproducendo talvolta, per rendere comprensibile il nuovo assetto in regioni lontane od ostili, i simboli e le manifestazione del potere dell’ancienrégime: come fece il prefetto di Palermo Luigi Torelli nel 1866 quando riprese la prassi di ricevere la popolazione seduto sul trono e con gli stessi rituali che erano stati propri del viceré borbonico).
I ministeri furono, subito dopo l’unificazione, nove: Agricoltura, Finanze, Grazia e Giustizia, Guerra, Esteri, Istruzione pubblica, Interno, Lavori pubblici e Marina. I dipendenti circa cinquantamila. Le funzioni furono soprattutto concentrate sul mantenimento dell’ordine pubblico, sul prelievo fiscale (l’amministrazione del fisco fu riformata nel 1870 dal Sella) e su compiti di occhiuta vigilanza, in particolare in relazione alle amministrazioni locali.
Un nuovo cambiamento si ebbe poi quando, in coincidenza con i prodromi dell’industrializzazione, le funzioni dello Stato divennero più numerose e impegnative. Dai primi anni del Novecento, infatti, una nuova serie di organi (uffici speciali, commissioni, comitati) venne istituita, nell’ambito dei ministeri, per fronteggiare, in particolare, i problemi del Mezzogiorno. Leggi speciali per la Basilicata, la Sardegna e per il terremoto che colpì Reggio Calabria e Messina nel 1908 contribuirono a delineare strumenti di intervento, che, pur ponendosi ancora all’interno dell’amministrazione tradizionale, concentravano in sé compiti di coordinamento dell’iniziativa pubblica (ad esempio nel caso in Sardegna) prima appartenuti essenzialmente all’istituto prefettizio. Da qui il passo verso la creazione di una struttura «esterna» all’amministrazione tradizionale, su cui incentrare il motore dell’intervento pubblico: nella legge del 1904 (l. n. 351), elaborata in prima persona da Francesco Saverio Nitti, compariva l’istituzione dell’azienda autonoma, denominata poi Ente Volturno, come perno dell’industrializzazione di Napoli che sarebbe dovuta partire dallo sfruttamento a fini industriali delle acque del fiume omonimo. Fu questo il primo esempio di ente autonomo, modello di quelle «amministrazioni parallele» che avrebbero rotto l’uniformità amministrativa dell’ordinamento Cavour e avviata un’esperienza di gestione destinata a durare a lungo. Nel 1912 nacque infatti il primo ente pubblico economico nazionale: l’Ina (Istituto nazionale per le assicurazioni), opera, oltre che di Nitti e Giolitti, di due funzionari del Ministero dell’Agricoltura e commercio, Alberto Beneduce e Vincenzo Giuffrida.
In Italia, la crescita dell’amministrazione a livelli simili degli altri Paesi europei non si era verificata in coincidenza con l’unificazione amministrativa, ma dovette attendere il primo quindicennio del ’900, quando la prima industrializzazione condusse a quello che è stato definito il «decollo amministrativo». L’apparato pubblico, dovendo rispondere alla nuova domanda di servizi, crebbe enormemente in termini di addetti (da 90 mila di fine ’800 a 300 mila circa nel 1914) e in termini di funzioni (e, quindi, di strutture amministrative). Ai compiti tradizionali – quali l’ordine pubblico, l’istruzione, la giustizia, la rappresentanza all’estero, il fisco – si affiancarono funzioni nuove di gestione (dalla costruzione e gestione delle opere pubbliche, all’esercizio delle ferrovie, nazionalizzate nel 1905, alle poste e telegrafi in grande sviluppo) e spesso basate su una logica industriale e parametri di efficienza diversi da quelli finora utilizzati. L’amministrazione divenne sempre più luogo della mediazione sociale, sia che essa fosse rappresentata dal prefetto (non a caso in quel periodo si assiste a una certa stabilità di sede per alcuni funzionari, come ad esempio il prefetto Garroni per 14 anni a Genova o Vittorelli a Torino, per 8 anni), sia che fosse svolta nelle amministrazioni per collegi (ad esempio il Consiglio superiore del lavoro) in cui poterono trovare espressione interessi economici tipici di una società urbana sempre più industrializzata.
Cambiava anche la composizione geografica dell’amministrazione che, fino alla fine del secolo XIX era stata, specie nella sua élite, soprattutto di origini settentrionali e perlopiù piemontese, e che col Novecento si «meridionalizzò». Mentre nel cosiddetto triangolo industriale (Torino, Milano, Genova) cresceva l’industria privata, assorbendo la maggior parte dei laureati nei Politecnici di Milano e Torino, al Sud la principale fonte di lavoro per la media e piccola borghesia (spesso formata dai laureati in giurisprudenza dell’Università di Napoli) restò l’impiego negli uffici pubblici. Ciò che col tempo avrebbe contribuito a determinare una profonda difformità di linguaggi e di culture tra gli apparati della burocrazia (meridionalizzati) e il mondo produttivo.
Altro conseguente e rilevante mutamento fu, infine, rappresentato dalla frattura tra corpo politico e corpo amministrativo. Nascevano in quegli anni i primi sindacati degli impiegati, anche sulla spinta delle categorie del lavoro più industriale come le Ferrovie, avanzando una serie di rivendicazioni sia economiche che relative alle condizioni di lavoro. Lo statuto del pubblico impiego del 1908 (legge n. 290 del 25 giugno 1908) rappresentò, da un lato, la conquista del riconoscimento per legge dello status di impiegato, ma dall’altro avrebbe consacrato i tratti di un ordinamento gerarchico e di fondo autoritario, che in pratica rimase per molti versi (ad esempio l’aspetto disciplinare) identico al decreto Cavour del 1853.
Sistema politico e società civile) avrebbe attribuito a Giolitti di aver realizzato un vero e proprio «progetto burocratico di governo» [Farneti, 1971].
Le nuove strutture rappresentarono la sede dove si attuò il vero spoil system del fascismo, con una nuova e inedita commistione tra la politica e la burocrazia: prese corpo la grande famiglia degli enti senza aggettivi, che gravarono fortemente sul bilancio statale (ad esempio gli enti previdenziali, come il più grande di tutti, l’Istituto nazionale della previdenza sociale, nato nel 1933 dalla vecchia Cassa assicurazioni sociali, che nel 1941 avrebbe impiegato da solo circa 8.000 dipendenti).
Alla caduta del fascismo, nel 1943, anche l’amministrazione avrebbe subìto la frattura del Paese tra il Nord sotto occupazione nazifascista e il Sud progressivamente liberato dalla avanzata degli Alleati. Ma solo pochi impiegati pubblici avrebbero seguito il duce nell’ultima avventura totalitaria. Il ritorno alla democrazia avrebbe trovato un’amministrazione italiana molto diversa da quella prefigurata nel 1853 da Cavour: una pluralità di strutture e di formule organizzative contraddistinguevano ormai gli apparati pubblici, mentre il rapporto con la politica (anche dopo la non breve parentesi dell’epurazione) appariva profondamente trasfigurato.
Bibliografia
Storia del Ministero dell’Interno. Dall’Unità alla regionalizzazione, il Mulino, Bologna 2009.