Bonifica integrale
di Cosima Nassisi
La legislazione non ha avuto rilevanti sviluppi almeno sino alla creazione della Cassa del mezzogiorno (legge 10 agosto 1950, n. 646), che nei primi anni si occupò di bonifiche, di infrastrutture, della cosiddetta preindustrializzazione.
A grandi linee, si può dire che è nei primi decenni del XX secolo, e specie negli ultimi anni precedenti la prima guerra mondiale, che il concetto di bonifica acquista un significato più ampio, contrassegnato dall’espressione «bonifica integrale», come oggi è intesa, cioè bonifica agraria ad integrazione di quella idraulica, al fine di adattare il regime fondiario ad un più elevato livello di produzione e di vita. Si va infatti dai vari disegni di legge presentati prima del 1882, che intendono la bonifica nel significato «idraulico» del termine – «per il suo fine economico e la sua lucrosità non poteva essere assunta tra i compiti dello Stato, cioè essere opera pubblica» [ibidem] –, alla legge Baccarini che, ponendo in primo piano non lo scopo economico ma «igienico» (antimalarico) della bonifica, porta lo Stato ad assumere tra i propri compiti una parte del costo totale delle spese delle bonifiche dette di prima categoria (di grande interesse igienico o di miglioramento agricolo associato a vantaggio igienico) e abbandonando le altre all’iniziativa dei privati, isolati o consorziati. Vi sono quindi una serie di nuove particolari disposizioni che devolvono gradualmente agli organi statali nuovi compiti, oltre alla sistemazione idraulica (delle paludi e terreni paludosi), sino a comprendere anche opere stradali, di difesa idraulica, di rimboschimento e rassodamento delle pendici, ecc., sempre però con prevalente interesse igienico, e per i territori idraulicamente dissestati.
Un quadro esauriente dell’analisi storica e storiografica della questione della bonifica dovrebbe a rigore dilatarsi all’intera storia delle disposizioni legislative e non solo a esse, in quanto le forme d’attuazione non sempre furono coincidenti con gli obiettivi sociali che le disposizioni dinanzi sommariamente accennate avrebbero voluto raggiungere. Che con i provvedimenti normativi adottati dall’unificazione in poi si siano accentuati anziché corretti gli squilibri fra le varie regioni e il dislivello del bonificamento fra Nord e Sud, è un problema affrontato da una vastissima letteratura storiografica passata e recente. È altresì comune agli storici che si sono occupati dell’argomento la consapevolezza del ruolo determinante del Testo unico delle leggi sulle bonificazioni delle paludi e dei terreni paludosi del 30dicembre 1923 (n. 3256), che apre la strada al successivo decreto-legge Serpieri, Provvedimenti per le trasformazioni fondiarie di pubblico interesse (r. d. l. 18 maggio, n. 753), che per la prima volta affidò allo Stato non più solo il compito di risanare i terreni paludosi, ma anche «di promuovere e facilitare la trasformazione fondiaria dei comprensori che presentino, ai fini dell’incremento della produzione, un rilevante interesse pubblico, mediante opportuno coordinamento delle opere da eseguirsi e delle relative attività pubbliche o private» [g.u., n. 122 del 23 maggio 1924]. A una visione frammentaria dei singoli problemi (difesa idraulica, bonifica, irrigazione, viabilità, trasporti) fa seguito una visione complessiva che sembrò dover recare una svolta notevole, data anche l’ampiezza del concetto di bonifica integrale, che poteva praticamente trovare applicazione su tutto il territorio agrariamente utilizzato in Italia, in quanto mirava al recupero delle proprietà fondiarie improduttive, con facoltà per le società capitalistiche e per i privati di ottenere concessioni di bonifica e di esproprio dei terreni da bonificare. In realtà per la prima volta – come sarà precisato nella relazione all’Assemblea Costituente – la legge Serpieri «si pose organicamente il problema della trasformazione dei comprensori latifondistici o estensivi del Mezzogiorno, anzi prese le mosse direttamente da questo problema» [Ministero per la Costituente, 1946-1947, pp. 335-351].
Larga parte dei nuovi indirizzi storiografici sul Mezzogiorno – rivolti a verificare la validità delle tesi dei meridionalisti classici e rivoluzionari sulle cause del divario e in particolare dei capisaldi della vulgata meridionalista (il processo alla borghesia, la rivoluzione contadina, il sottosviluppo, ecc.) –, hanno inteso smentire la vecchia immagine del Mezzogiorno «immobile» e la visione «dualistica» della società italiana. Tornando oggi a quel dibattito, debole sul piano politico e fertile su quello storiografico [Giarrizzo 1998], bisogna rilevare che grande attenzione fu dedicata al tema delle «trasformazioni» della società meridionale nell’età moderna e contemporanea, soprattutto negli anni tra le due guerre e nel secondo dopoguerra (in gran parte ignorati dalla letteratura meridionalista e non più raccolti dal dibattito storiografico degli anni successivi). L’interesse degli storici si è concentrato sulle origini della frantumazione del blocco agrario nel Sud – avviata alla fine degli anni Trenta dalla politica economica del fascismo ed esplosa con violenza sotto l’impatto delle lotte contadine nel 1944-1947 – in riferimento alle diverse realtà storico-geografiche del Mezzogiorno (in questa direzione il prodotto più maturo è riconducibile alle storie regionali degli anni ’70 e ’80 della Calabria, Sardegna, Puglia, Campania, Sicilia, Abruzzi, Marche). Il dibattito si è alimentato soprattutto dalla riconsiderazione di figure come Napoleone Colajanni e Francesco Saverio Nitti (anche grazie all’apporto del documentato saggio di Barbagallo del 1984).
Gli storici ritornavano perciò ad esaminare la fase nittiana, valutandone i progressi in ordine alle conoscenze della realtà economico-sociale, nazionale e meridionale, e alla modernizzazione tecnica e amministrativa e, in riscontro, le deboli basi politiche. Si riapriva una rilettura delle cosiddette «leggi speciali» di carattere regionale che vennero emanate per varie zone del Mezzogiorno, le quali, fra l’altro, assegnavano allo Stato l’esecuzione di alcune opere pubbliche (come gli acquedotti o le opere igieniche) in modo da spostare l’impiego della spesa pubblica a favore del Mezzogiorno. Queste leggi prevedevano anche, in alcuni casi, un intervento dello Stato nel settore industriale che poteva anche giungere alla «creazione di una zona industriale», oppure che si limitava ad agevolazioni doganali o fiscali [Castronovo 1975].
Una linea di ricerca molto importante è risultata quella del rapporto istauratosi nel primo quindicennio del XX secolo fra le esigenze di espansione del capitale industriale e creditizio settentrionale, che la guerra aveva notevolmente potenziato, e l’impegno dialcuni funzionari e tecnocrati riformatori influenzati da Nitti (da Eliseo Jandolo ad Angelo Omodeo, da Carlo Petrocchi a Serpieri) a favore del Sud: in questo quadro era indicata anche una soluzione per i problemi del Mezzogiorno. In effetti, si fece strada una moderna linea riformatrice, centrata attorno al legame tra tecnocrazia riformista, industria elettrica e meridionalismo nittiano, specie dopo il 1910, quando lo statista lucano abbandonò le posizioni stataliste per proporsi come alfiere dell’elettrificazione privata. Ancora una volta l’industria elettrica svolse una funzione di «battistrada» nel rinnovamento degli impianti industriali e nella mobilitazione di ingenti flussi di investimento. Furono gli anni del rafforzamento della Edison e della crescita di alcuni gruppi elettrofinanziari, come ad esempio la Sme (Società meridionale di elettricità) – sorta nel 1899 – la cui sezione elettro-agraria s’interessò alla trasformazione fondiaria delle pianure meridionali della Campania (le campagne vesuviane, la piana del Volturno, le campagne intorno a Benevento e Montuoro) e della Puglia (il tavoliere di Foggia, la costa del barese, il Salento).
L’importanza del ruolo dagli intellettuali tecnici durante il fascismo come «problema storiografico» fu opportunamente evidenziato da Giarrizzo in un saggio del 1978. Si rilevò così che, operando all’interno dei Consorzi agrari e dei Consorzi di bonifica, molti tecnici agrari di primo piano elaborarono negli anni Trenta progetti di trasformazione fondiaria, e poi, una volta dissolta «la fiducia nello stato riformatore e la definizione in esso di un loro specifico ruolo» [Giarrizzo 1978] utilizzano nel secondo dopoguerra le nuove opportunità offerte prima dai «nittiani» meridionali (nel Salento Giuseppe Grassi) e, in seguito, negli anni ’50, dalla Dc. A giudicare almeno dagli orientamenti della realtà pugliese, la mobilitazione in questo senso assunse un rilievo tutt’altro che trascurabile. Ma ancora oggi si avverte l’esigenza di studi che abbiano a un tempo angolazioni biografiche e di storia locale e che tengano a loro volta presenti i nessi tra i vari livelli di vita nazionale e tra questi ultimi e quelli locali.
La bonifica nella storia e nella dottrina, Edizioni Agricole, Bologna 1947.Bibliografia