Bonifica
di Zeffiro Ciuffoletti e Antonio de Ruggiero
Negli ultimi anni l’analisi delle bonifiche in Italia si è arricchita di studi locali e generali ben documentati e innovativi dal punto di vista interpretativo. La questione, intesa come intervento sia pubblico che privato, è un fenomeno storico di lunga durata, ma nel quadro specifico del nostro bilancio ci concentriamo sulle bonifiche avviate nel periodo risorgimentale e in quello immediatamente successivo allo Stato unitario.
Le bonifiche rappresentarono tra Settecento e Ottocento il campo classico di intervento pubblico nell’ambito della sistemazione degli assetti territoriali delle aree umide in Italia. Nella visione politica che si manifestò a cavallo tra i due secoli dominarono due concezioni incardinate sulla teoria del popolamento da un lato e la teoria liberista dall’altro. Per questo motivo l’intervento pubblico è stato considerato fondamentale, ma sempre in costante associazione con l’iniziativa privata, interessata allo sviluppo dell’agricoltura e alla commercializzazione dei prodotti agricoli. Tutto ciò in relazione alle teorie fisiocratiche che nella seconda metà del XVIII secolo, puntavano all’aumento della produttività agricola come base per la ricchezza delle nazioni.
Naturalmente la bonifica, che prevedeva un ampio impiego di manodopera e l’uso di accorgimenti di ingegneria idraulica, così come di tecniche di canalizzazione, si basava su una visione di lungo periodo che alla fase della colmata o della separazione delle acque doveva, poi, far seguire un’opera infrastrutturale e, quindi, di messa a coltura delle terre risanate. Per quest’ultimo aspetto risultò fondamentale il coinvolgimento dell’iniziativa privata attraverso l’intervento dei grandi proprietari terrieri o con la formazione di nuclei consistenti di media e piccola proprietà diretto-coltivatrice. Nel caso della Toscana, ad esempio, il capitale di antiche famiglie nobili fiorentine e senesi, insieme all’abilità tecnica dei contadini, concorsero a un profondo riassetto territoriale che consentì la creazione di nuovi spazi al paesaggio mezzadrile della coltura promiscua. Per non parlare del caso maremmano, dove alla ostinata volontà di recupero delle zone paludose da parte dei sovrani lorenesi, si accompagnò la tenacia di singoli imprenditori terrieri. Lo stesso avvenne nella fase preunitaria nelle zone umide del Veneto e dell’Emilia dove i proprietari, attraverso l’utilizzo di strumenti e macchinari più moderni, intrapresero opere ardimentose. La bonifica era considerata fra ’700 e ’800 anche l’unico rimedio alla malaria, che veniva collegata strettamente ai «miasmi mefitici» delle aree paludose. Per cui l’intervento umano era indispensabile per il risanamento e il «risorgimento» delle aree umide che, bonificate, si trasformavano da fonte di miseria, morte e spopolamento in luoghi di rinascita economica e sociale.
Solo nel 1882 si arrivò alla famosa legge Baccarini attraverso la quale lo Stato assumeva sotto di sé opere di bonifica per fini idraulici e sanitari. Tale provvedimento, ancora incompleto poiché attribuiva alla bonifica una funzione esclusivamente idraulica, divenne la pietra miliare di un crescente e più accurato impegno legislativo. A questa seguirono, infatti, negli anni successivi, nuove leggi che portarono gradualmente a risultati positivi e al recupero di terre abbandonate o sfruttate secondo gli usi antichi parassitari di sfruttamento per pesca, caccia o pascolo. Tali provvedimenti dimostrarono un maggiore coinvolgimento dello Stato e servirono da stimolo anche all’intervento privato. Ne trassero beneficio soprattutto alcune zone dell’Italia settentrionale, ma anche l’Agro Romano e la Sardegna. Lo slancio dinamico della bonifica, alimentato dalla crescita continua dei prezzi dei prodotti agricoli e da una congiuntura economica favorevole, può essere considerato la spinta principale che condusse negli anni Venti, attraverso la collaborazione di abili tecnici e ingegneri, all’elaborazione di quei progetti di bonifica integrale concretizzatisi in più leggi successive.
La legge Serpieri del 1924, la legge sulla bonifica integrale del 1928 e infine il Testo unico del 1933 regolarono la vasta materia della bonifica e sancirono un intervento più ampio dello Stato nella sistemazione idraulica e nella trasformazione fondiaria di pubblico interesse. Anche l’Italia repubblicana trasse beneficio dal lavoro svolto nei secoli precedenti, che non poteva certo dirsi esaurito, ma che lasciava un patrimonio significativo di trasformazioni e opere infrastrutturali.
Negli ultimi anni il concetto di bonifica è cambiato radicalmente. Gli ecosistemi palustri sono oggi visti in un’ottica diversa rispetto al passato: non più lande da prosciugare e bonificare totalmente, ma aree vitali ed ecologicamente assai produttive, in grado di conservare un gran numero di specie vegetali e animali, che non riuscirebbero a sopravvivere al di fuori di certi ambienti. Si è messo anche in rilievo il fatto che le paludi possono assumere la funzione di bacini di regolazione idraulica. La stessa parola «palude» ha perso dal punto di vista semantico la propria valenza negativa. Una nuova «cultura ecologica contemporanea» molto sviluppata nei Paesi più avanzati, poco attenta al problema del sostentamento alimentare della popolazione mondiale in crescita, è fortemente critica nei confronti di quei processi che nell’arco di più secoli hanno portato alla scomparsa di tre quarti delle aree umide nella penisola. Sarebbe mancata una valutazione prudente per stabilire quanto e in quali casi sarebbe stato meglio effettuare semplicemente interventi di controllo e regimazione idraulica, in modo che le zone umide mantenessero la consistenza necessaria a garantire depositi di acqua, stabilità climatica, regimazione delle piene, possibilità di vita per una gran quantità di specie animali viventi. Una seria analisi storica, però, non dovrebbe dimenticare che la malaria, minaccia terribile per la popolazione, rimase per lungo tempo un morbo sconosciuto, ma legato al paludismo e alle esalazioni sprigionate per la mescolanza di acque dolci con quelle salate nelle aree umide. Solo le nuove scoperte scientifiche, alla fine del secolo XIX, aprirono spiragli fondamentali per debellarla. Fino ad allora, in assenza di un effettivo responsabile della malaria, come poi si scoprirà (zanzara anophele), l’unico modo per estirpare il «male invisibile», era quello di risanare le aree paludose.
Bibliografia
Storia dell’agricoltura italiana in Età contemporanea,vol. I, Marsilio, Venezia 1989-1991.