Cattolicesimo liberale
di Dario Antiseri
È stato Sergio Cotta a porre in evidenza il fatto che esiste un legame interiore tra cristianesimo e pensiero liberale consistente nell’idea stessa di libertà [Cotta in Aa. Vv. 2000, p. 71]. Ed è su tale legame che vertono le indagini dei cattolici liberali italiani del XIX e del XX secolo. I primi hanno operato in una situazione in cui preminente era il problema dell’unificazione dell’Italia con la connessa, e scottante soprattutto per il mondo cattolico, «questione romana» che Gioberti, Rosmini, Ventura e Lambruschini pensavano potesse essere risolto attraverso una federazione con a capo il Papa.
Ancor più difficili sono state le condizioni politiche e sociali in cui vissero, pensarono e operarono i secondi: la Prima guerra mondiale, l’avvento del fascismo, il secondo conflitto mondiale, una sostanziale egemonia della cultura marxista negli anni della Guerra fredda. E se non vanno dimenticati, per i primi anni del XIX secolo, né il movimento di Romolo Murri né la dura condanna del modernismo da parte della Chiesa, va tenuta presente una più lunga e diffusa ostilità di gran parte del mondo cattolico nei confronti di un liberalismo anticlericale e in odore di massoneria e, in nome di una spesso malintesa concezione della «solidarietà», nei confronti di una economia di mercato vista come sinonimo di egoismo quando non di rapina e di sfruttamento.
Quella che va innanzitutto notata è la diversità delle prospettive filosofiche del liberalismo cattolico italiano. È nel Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto,del 1840-1843 – sul fatto, e cioè sulla natura e la coscienza dell’uomo –, che Luigi Taparelli d’Azeglio (1793-1862) elabora la sua prospettiva tomista. Tomista convinto e insieme ammiratore del pensiero di de Bonald è Gioacchino Ventura (1792-1861), autore de Il potere pubblico. Le leggi naturali dell’ordine sociale, del 1860, e deciso avversario del razionalismo illuminista. Contrario, invece, alle «misere disputazioni delle scuole» è Raffaello Lambruschini (1788-1873). Avverso a quel razionalismo che riduce tutta l’esperienza al «fatto fisico» e che troverebbe la sua scaturigine in Cartesio, Lambruschini non ha fiducia alcuna nella metafisica [Lambruschini 1939]. Per lui, infatti, con i più sofisticati e sottili argomenti metafisici «non si è mai convertito un incredulo». Si tratta di una concezione filosofica che la «Civiltà Cattolica» definì eterodossa e che altri considerarono sostanzialmente luterana: «Luterino» venne definito il Lambruschini dal Guerrazzi.
In uno «spiritualismo oggettivo» consiste, d’altro canto, l’influente prospettiva filosofica di Antonio Rosmini (1797-1855), con la sua attenzione a scrutare i tratti del divino nell’uomo. Evidente nelle opere letterarie e in quelle di carattere storiografico o morale di Alessandro Manzoni (1785-1873) è l’influsso di Rosmini. Per Manzoni, «l’idea […] della moralità, quale l’ha rivelata il Vangelo, è tale che nessun sistema di morale venuto dopo […] non ha potuto lasciar di prenderne qualcosa» [cfr. Manzoni (1819) 1976]. E, a suo avviso, e stato osservato che «è sempre il dictamen interiore della coscienza che deve portare il credente ad accettare la legge cristiana che, d’altra parte, si inserisce nell’ordine della grazia e della carità» [cfr. Passerin d’Entrèves in Aa.Vv. 1976, p. 100].
Da parte sua, Ventura, difensore di quella «società naturale» che è la famiglia, e convinto della funzione primaria della proprietà (una donazione «consacrata» dal Vangelo, ma «a titolo oneroso»), attribuisce allo Stato solo il potere militare e giudiziario ma insiste sui limiti di quello legislativo poiché lo Stato non ha il diritto di intervenire su quelle società naturali, a cominciare dalla famiglia, che sono i «corpi intermedi»: «famiglie sviluppate». Contrario al razionalismo illuminista ignaro della funzione e della forza delle tradizioni, e avverso alla politica centralista della Francia postrivoluzionaria, Ventura vede un nesso inscindibile tra libertà e autonomia dei poteri decentrati e la considera come «la sola rivoluzione giusta, la sola legittima, la sola cristiana e la sola potente per terminare l’era funesta delle rivoluzioni» [Ventura di Raulica (1859) 1860, p. 465]. Da qui anche la sua difesa della libertà di insegnamento e la proposta di una confederazione di Stati italiani sotto la presidenza del Sommo Pontefice.
Considerato come l’iniziatore del liberalismo cattolico italiano – ma anche, come scriverà nel 1843 a Rosmini, «laico in tutti i sensi» – sia nelle opere letterarie, sia in quelle storiografiche e morali, Manzoni assume come unico criterio per interpretare e valutare eventi storici e istituzioni politiche le sofferenze, le gioie e le scelte di coscienza dei singoli individui. Interpretazioni deterministiche della storia e dei comportamenti umani, difesa della ragione di Stato, l’esaltazione dei «geni politici» e della guerra, la sostituzione del prìncipe con princìpi dogmatici dalle conseguenze tragiche, l’idolatria del potere, la giustificazione utopistica di sacrifici certi della generazione presente in nome di ipotetici paradisi per le generazioni future, sono tutte idee respinte dal Manzoni. Rifiutate esattamente in nome di una concezione della persona umana responsabile, illuminata e fortificata dalla fede della Provvidenza [Manzoni (1819) 1976, cap. VII].
ivi, p. 1478]. È questa una limpida formulazione di quel principio di sussidiarietà che sta a fondamento della concezione liberale e che è costantemente sottolineato in documenti ufficiali della Chiesa cattolica come la Quadragesimo Anno, del 1931, la Pacem in terris,del 1963, la Centesimus Annus,del 1991, e la Caritas in veritate, del 2009.
utopisti comporta – come Rosmini scrive nel Saggio sul comunismo e socialismo,del 1849 – l’immediata e «totale distruzione della umana libertà» e, con la promessa di «felicitare la terra», «recide la radice di tutti i doveri, e perciò anche di tutti i diritti dell’uomo, e asciuga la fonte di tutti i suoi beni individuali e sociali: la libertà» [Rosmini 1975, IV, pp. 295 e ss.].
Su questo argomento, come anche su altri, Rosmini troverà un convinto seguace in Gustavo di Cavour (1806-1864), fratello di Camillo, il quale in Des idées communistes et des moyens d’en combattre le développement, del 1846, sosteneva che il comunismo non doveva venir represso ma combattuto sul piano ideale, morale e culturale, attraverso la diffusione di sani princìpi, di ordine metafisico ed economico, tra le classi dirigenti e quelle popolari.
Ma anche se critica il «perfettismo» perché non riesce a capire che la realtà sociale, istituzioni e avvenimenti non sono e non saranno mai totalmente nelle nostre mani e poiché non riconosce quell’«eterno principio ontologico» stando al quale «l’esistenza di un bene impedisce talora di necessità quella di un altro maggiore», Rosmini ribadisce che non intende «negare la perfettibilità dell’uomo e della società. Che l’uomo sia continuamente perfettibile fin che dimora nella presente vita, egli è un vero prezioso, è un dogma del Cristianesimo». Antiperfettista anche perché fallibilista, Rosmini si affida a quella che egli chiama «lunga, pubblica, libera discussione» [Rosmini 1975, II, p. 746].
Critico dell’astrattismo antistorico di quei «razionalisti» che, sotto il segno dello Stato onnipotente e perfettamente razionale, avrebbero voluto negare la tradizione, secoli di storia, e cancellare istituzioni e «corpi intermedi» frutto di una lunga e non sempre intenzionale evoluzione, Rosmini, sempre preoccupato della libertà e della dignità della persona umana (come quando critica gli effetti liberticidi del monopolio statale dell’istruzione e denuncia i danni prodotti dall’assistenzialismo statale) propone così una filosofia attenta alle concrete situazioni umane e sociali.
Tale posizione è, ad avviso di Einaudi, del tutto inconsistente in quanto una società senza economia di mercato sarebbe oppressa da «una forza unica – dicasi burocrazia comunista od oligarchia capitalistica – capace di sovrapporsi alle altre forze sociali», con la conseguenza «ad uniformizzare e conformizzare le azioni, le deliberazioni, il pensiero degli uomini». Qui Einaudi confessa di aver provato «un vero restringimento al cuore» davanti a «un tanto pensatore» il quale sostiene che protezionismo, comunismo, regolamentarismo e razionalizzamento economico possono, a seconda delle circostanze storiche, diventare mezzi «di elevamento morale e di libera spontanea creatività umana». E tutto ciò quando è constatabile che ipertrofia dello Stato e dei monopoli sono storicamente nemici della libertà. La realtà è che monopolismo e collettivismo sono «ambedue fatali alla libertà» [ivi, p. 135], in quanto eseguono la centralizzazione dei mezzi di produzione ed è chiaro – come sintetizzerà Hayek – che chi possiede tutti i mezzi stabilisce tutti i fini. Di conseguenza, tra i principali compiti dello Stato liberale vi è la lotta ai monopoli, a cominciare dal monopolio dell’istruzione. Solo all’interno di precisi limiti, cioè all’interno delle regole dello Stato di diritto, economia di mercato e libera concorrenza possono funzionare da fattori di progresso. Lo Stato di diritto equivale alla Rule of Law, e l’impero della legge è condizione per un’anarchia degli spiriti in cui il cittadino deve prestare obbidienza alla legge e a nient’altro che ad essa.
ivi, p. 217].
Principi di economia politica del Liberatore, che erano stati pubblicati l’anno avanti, e sin da allora egli aveva abbracciato l’idea per cui senza capitali cesserebbe quasi del tutto ogni produzione di ricchezza e i popoli continuerebbero a rimanere schiavi della miseria.
Persuaso della bontà del movimento di Romolo Murri, nel 1902 Sturzo inizia l’attività politica guidando i cattolici di Caltagirone nelle elezioni amministrative. Nel 1906 pubblica Sintesi sociali, un insieme di saggi che si rifanno alle concezioni di Giuseppe Toniolo. Favorevole alla guerra di Libia, nel 1915 viene eletto vicepresidente dell’Associazione nazionale dei comuni italiani e nel 1919 diffonde l’appello A tutti i liberi e forti, con il quale nasceva il Partito popolare italiano.
A Londra Gaetano Salvemini incontra Sturzo, la cui amicizia egli considererà come «uno dei più begli acquisti» della sua vita. E nel libro Dei ricordi di un fuoriuscito 1922-1923 scriverà che don Sturzo «è un liberale. Il clericale domanda la libertà per sé in nome del principio liberale, salvo a sopprimerla negli altri, non appena gli sia possibile, in nome del principio clericale. Don Sturzo non è un clericale. Ha fede nella libertà per tutti e sempre». E se Antonio Rosmini è il riferimento maggiormente consistente del cattolicesimo liberale italiano dell’Ottocento, don Luigi Sturzo lo è per il Novecento.
Vangelo e ricchezza. Nuove prospettive esegetiche, del 2002. Tosato si è spento in Roma il 30 aprile del 1999.
Nel primo capitolo della seconda parte di questo volume, Tosato rievoca la lettura ingenua, acritica, astorica e ascientifica dei testi sacri, nella quale si perpetua l’opinione circa la condanna evangelica della ricchezza e dei detentori della ricchezza, e circa l’esaltazione dei poveri e l’esortazione ad abbracciare lo stato di povertà. E proprio dinanzi al quadro che viene fuori dalla versione vulgata sull’insegnamento evangelico relativo alla ricchezza, Tosato reagisce affermando che si tratta di una prospettiva dannosa e inattendibile.
sta invece tra il «servire» (douléuein) a Dio e il «servire» (douléuein) alla Ricchezza. Soltanto in questo secondo caso sussiste l’incompatibilità, e per questo «appare del tutto arbitrario leggere il detto in esame come una condanna radicale del perseguimento della ricchezza, quasi che la ricchezza sia di per sé demoniaca. Quel che il detto condanna è che il fedele proceda, lui, a modificare la natura della ricchezza, trasformandola in anti-Dio, rendendola demoniaca, Demonio» [ivi, pp. 340-341].
La critica nei riguardi dell’interpretazione ingenua, falsa, dannosa e diffusa dei testi sacri relativi alla problematica della ricchezza e il denaro rappresenta un contributo di fondamentale importanza delle ricerche esegetiche di Tosato. Gli esiti da lui ottenuti lo hanno avvicinato al pensiero di Michael Novak. Presentandone l’opera Lo spirito del capitalismo democratico e il cristianesimo, Tosatoscrive che «dal confronto tra i socialismi reali (anche i più “liberalizzati”) e i capitalismi reali (anche i meno “socializzati”) emerge un’indicazione univoca: la strada che più e meglio conduce i popoli al benessere, elevandone maggiormente il tenore di vita, non è il sistema economico socialistico, ma quello capitalistico». E aggiungeva: «l’anticapitalismo e il filosocialismo, che fino a ieri potevano venire ostentati come distintivi di elevatezza di mente e di nobiltà d’anima, appaiono oggi non di rado come indizio di arretratezza culturale e di asservimento a interessi di parte» [ivi, pp. 460-461]. Certo, Tosato non ritiene che il sistema capitalistico riproduca l’Eden né tanto meno che rappresenti il Regno di Dio, ma, come Novak, egli sostiene che, in ogni caso, esso «è quanto di meno peggio si sia riusciti finora ad attuare» [ivi, p. 426].
ivi, p. 347].