Chiesa-Stato

di Giovanni B. Varnier

L’«eresia liberale» e la ben regolata libertà

libertas Ecclesiae come libertà di cui essa deve godere nell’ambito temporale affinché, senza impedimenti, possa svolgere la propria missione. Qui però incomincia il primo equivoco, perché, sebbene le caratteristiche fondamentali dell’ordinamento canonico siano consolidate e immutabili nella loro essenza (e per questo dovrebbero essere note), oggi si tende ad applicare alla Chiesa i modelli dello Stato democratico, mentre invece occorre sottolineare che essa si muove su di un piano diverso rispetto a quello della società civile e segue un percorso differente e riconducibile, per qualche tratto, all’ormai dimenticato Stato assoluto. La Chiesa agisce attraverso registri diversi rispetto a quelli della società civile e solo il ricorso all’assolutismo del principe può meglio aiutare a capire la suprema auctoritate Romani Pontificis. Quindi, se una persona intende essere fedele al magistero deve accettare il principio di autorità ecclesiastica nella sua struttura assoluta e, pertanto, applicare la norma canonica in sede civile (confrontandosi quindi con i diritti di libertà) vuol dire subordinare tutto al diritto divino, il quale ha valore immutabile nel perseguimento del fine supremo di un bene oltramondano, che consiste nella salus animarum.

Dunque la condanna del cattolicesimo liberale è legata al fatto che la libertà politica è rivoluzionaria e perciò tale da risultare sempre ostacolata dalla Chiesa. Fu la sfiducia nelle risorse dell’individuo (respingendo la concezione dell’autodeterminazione del singolo che superiorem non recognoscens e il primato della volontà della nazione e delle sue capacità di governarsi in modo autonomo) a portare alle condanne dei liberali, per i quali fu vicina l’assimilazione a quelli che la morale cattolica definisce i «liberi pensatori» (nome con i quali vennero indicati tutti coloro, che – rifiutando qualsiasi rivelazione o definizione di verità religiose o morali – rivendicano alle capacità razionali una assoluta emancipazione dalla Rivelazione divina).

Dall’età della Restaurazione al proto Risorgimento cristiano

Seguendo queste linee di pensiero, la prima condanna, espressa in modo netto da parte del magistero nei confronti delle libertà umane fondate sulle nuove ideologie filosofiche e politiche e volta a respingere l’affermazione della libertà religiosa e di coscienza e di culto, si può rinvenire nell’enciclica Mirari vos di Gregorio XVI del 15 agosto 1832. Sciogliendo il nodo dell’equivoco liberale, il pontefice, stigmatizzando con durezza i princìpi del liberalismo religioso e politico, perseguì l’intento di operare una integrale restaurazione delle libertà religiose e civili del papato: libertà e indipendenza da rivendicarsi sia di fronte alle residue sopraffazioni cesaropapiste delle monarchie di diritto divino, come nei riguardi delle insorgenti pretese giurisdizionalistiche del liberalismo illuministico e laicista.

Questo indirizzo non fu privo di risvolti concreti, perché (già dal primo indebolirsi della sovranità temporale) prese corpo il fenomeno del centralismo romano e dell’attaccamento dei fedeli alla figura del pontefice (si pensi a quella capillare, anche se più tarda, operazione finanziaria che fu la raccolta dell’obolo di San Pietro), che costituì una costante della politica curiale romana fino al Concilio Vaticano II.

Il costituzionalismo ottocentesco e le sfide che la democrazia pone alla Chiesa

La storia italiana è così intrecciata con quella della Chiesa e da essa condizionata, da potersi affermare che la storia contemporanea dei rapporti fra società civile e società religiosa costituisca una notevole parte della storia dello Stato italiano e, soprattutto, una parte che non è possibile ignorare senza perdere il senso dell’orientamento. Una storia che non si può capire escludendo le lacerazioni prodotte nel tessuto nazionale dalle vicende attraverso le quali si realizzò il moto unitario, cioè contro il potere del papato ma anche contro la religione degli italiani. Se liberale, inteso come generoso, individuò chi politicamente si contrappose all’autoritarismo napoleonico, con l’affermarsi del Risorgimento l’espressione assunse la connotazione di ostile alla Chiesa e nemico del potere temporale del pontefice, mentre la confusione tra dominio spirituale e dominio terreno fece sì che la maggior parte degli abitanti dello Stato della Chiesa videro nel Papa più il sovrano che la massimaautorità religiosa della cattolicità.

Come è noto gli anni tra il 1846 e il 1848 costituirono un laboratorio critico sia di pensiero che di azione tra sostenitori dell’antico regime e portatori di istanze innovatrici e se lo scontro vide la sconfitta dei tentativi di mediazione tra Chiesa cattolica e mondo moderno, anche ai nostalgici fu chiaro che la Rivoluzione del 1789 non avrebbe cessato di produrre una serie di ripercussioni a cui occorreva fare fronte. Dall’astratto universalismo razionalistico dell’età dei lumi, la predominanza del sentimento, propria dell’età del romanticismo, portò alla elaborazione dell’idea di nazione, con l’estensione delle libertà per gli uomini alla libertà per le nazioni: gli individui non possono essere liberi se la nazione non è libera e tra la libertà degli individui c’è anche quella religiosa sia individuale che collettiva (sebbene l’espansione dei diritti del soggetto vada a discapito della dimensione collettiva). Da ciò consegue che la libertà delle confessioni religiose si può esercitare solo nella sfera privata, questo in base al principio giacobino dello Stato come primo etico e unica realtà in cui la nazione deve identificarsi.Tuttavia tale visione si scontra con le teorie che vedono la Chiesa come ordinamento giuridico primario, ordinamento che pertanto dovrà essere combattuto e ricondotto nel privato.

Sappiamo che, con il superamento del principio cuius regio eius religio (che risale alla pace di Westfalia del 1648 e che si afferma con lo Stato assoluto, prosegue con lo Stato nazionale e arriva allo Stato etico, determinando anche il modello di Stato laico neutro) siamo alla svolta decisiva, per cui lo Stato agisce nella sfera pubblica e le Chiese in quella privata: questa è la sola possibilità per consentire a esse di essere libere all’interno dello Stato nazionale. Pertanto, già dal 1848, la classe dirigente sabauda, grazie alla flessibilità dello Statuto albertino, tentò di costruire un sistema di separazione, tale da relegare il principio confessionista, proclamato nello Statuto, in una posizione essenzialmente simbolica. Dunque, nell’età liberale lo Stato afferma di voler essere laico e di rispondere a un concetto monistico, opposto al dualismo cristiano, disconoscendo le formazioni sociali, tra cui le confessioni religiose. A tale scopo persegue una linea separatista ma in questo modo finisce col compiere una politica anticlericale, abolendo ogni riconoscimento all’ordinamento della Chiesa e alle sue istituzioni.

Venutosi a rovesciare il fondamento del potere sovrano (dalla «grazia di Dio» alla «volontà della Nazione»), contestualmente – poiché il potere religioso non è più necessario al potere civile – si innescò un processo di laicizzazione normativo volto a cancellare i privilegi ecclesiastici e a inquadrare le istituzioni della Chiesa nel diritto comune, mentre a seguito della nascita del concetto di nazione si affermò il principio che tutto le appartiene, compreso la vita dei cittadini e anche i beni ecclesiastici.

Il cattolicesimo liberale e il fondamento cristiano della nazione: costruire lo Stato e riformare la Chiesa

Dunque, se dal secondo Ottocento il sostegno della Chiesa non può più essere di utilità nel governo dello Stato moderno, il cattolicesimo è inquadrato come un culto tutto interiore, che ha cessato di pretendere di animare la società e di essere la forma immanente che deve foggiare il popolo. Il mutamento di prospettiva attribuì al Risorgimento (che fu realizzato rifiutando la tradizione cattolica e costruito attorno al mito della terza Roma e del positivismo della scienza e della religione della Patria) un diverso percorso, il quale determinò la persecuzione religiosa del neoguelfismo, la messa al bando delle istanze federali e la lotta religiosa contro la democrazia liberale.

In quel quadro, di fronte alla crescente discrasia tra società civile e società religiosa, diversi fedeli commisero l’errore di voler riformare la Chiesa, mentre per quest’ultima è il mondo che deve essere riformato alla luce del messaggio cristiano. Infatti, da parte dei neoguelfi la prospettiva unitaria si legava all’ipotesi di un rinnovamento delle strutture ecclesiastiche in senso democratico e di un possibile superamento del dogma.

Come sappiamo, il cattolicesimo liberale, in base al principio: «cattolici con il Papa liberali con lo Statuto», si propose di conciliare fede e religione cattolica con gli esiti di un processo storico reputato irreversibile e di avvicinare la Santa Sede all’Italia per completare, alla luce delle libertà statutarie, l’unità politica con l’unità morale. Questo dopo che, con l’avvento della monarchia costituzionale basata sul liberalismo politico e il separatismo, si intravide la possibilità di esercitare da parte della Chiesa una influenza dal basso, agendo in una società libera dai vincoli imposti dai sistemi politici di antico regime. Così la formula: «libera Chiesa in libero Stato» o quella da altri affermata di: «libera Chiesa e libero Stato», promise alla Chiesa una libertà di cui non aveva mai goduto, assicurando il superamento dello schema illuministico della religione nemica del progresso.

In un contesto in cui i governanti traggono la loro legittimità dal suffragio popolare e non dall’investitura dei prìncipi e questi per essere tali si appellano alla volontà della nazione anziché alla grazia di Dio, assunse valore la nazione cristiana, nel presupposto che l’unità della fede costituisse una garanzia per il conseguimento dell’unità politica. Così per Silvio Pellico la libertà nazionale non fu questione di baionette ma di verità e qualora gli italiani avessero vissuto la verità sarebbero stati intimamente liberi e avrebbero potuto usare delle baionette senza timore di restare servi delle proprie armi. Ricordiamo poi il caso di Antonio Rosmini Serbati, che nella sua opera più nota Delle cinque piaghe della S. Chiesa, denunciò le contrapposizioni dovute a quell’intreccio tra realtà spirituali e potere temporale, che oscurava la missione della Chiesa e rendeva i fedeli laici lontani dalla vita reale della comunità cristiana. La nazione nasce prima dello Stato, la comunità di cultura e di destini si afferma in anticipo rispetto al processo unitario e l’equivoco di Vincenzo Gioberti scaturì dal fatto che mancando lo Stato, egli vide nel cattolicesimo il fondamento per realizzare l’unità. Equivoco di fondo che assume una valenza di ordine generale e risale alle parole del pontefice del 10 febbraio 1848: «Benedite, gran Dio, l’Italia», con la quale non si chiedeva di benedire l’Italia in quanto patria di tutti gli italiani – come l’intesero i neoguelfi – ma perché ospitava il cuore della cristianità.

civitas, che annullerebbe il potere temporale dei papi, la cui perdita sarebbe da considerare una fortuna per la Chiesa, che in tal modo avrebbe potuto tentare una conciliazione con la nuova Italia. Ma l’identità tra religione e nazione si ruppe quando Pio IX si avvide che se il papato si fosse fatto interprete dello spirito nazionale italiano e, assecondando il mito neoguelfo, si fosse posto alla guida del moto risorgimentale avrebbe perduto la propria universalità.

Resta da aggiungere che, riflettendo sulla validità della visione separatista nei rapporti tra Stato e Chiesa nel nostro ordinamento segnato da storiche anomalie, è necessario osservare che nelle opere di autori allora di primo piano nel dibattito politico e culturale come Rosmini e Gioberti, si ebbe in mente la realtà che detti autori conoscevano, piuttosto che il quadro italiano nell’intero complesso. Il nostro Paese fu piuttosto condizionato dal giurisdizionalismo e dal lascito di autori come Pietro Giannone, che lesse le vicende del regno di Napoli sotto il profilo della lotta tra Chiesa e Stato, come lotta tra oscurantismo e progresso, laddove la Chiesa cattolica come istituzione temporale, con i suoi organi e i suoi ministri deve essere sottoposta al potere statuale.

L’anticlericalismo al potere e la duttilità della Chiesa di Roma nel travaglio della modernità

distinzione di non poco conto che permise alla Chiesa di delegittimare la classe dirigente risorgimentale, anche con autentici interventi teorici di contenuto eversivo.

La stessa condanna pontificia del voto politico (non expedit) segnò l’affermarsi di una classe di governo che fece dell’anticlericalismo il proprio agente di coagulo per conservare il potere. Così il laicismo politico, rispetto a quello ideologico, divenne bandiera di governo e spense tutti i filoni religiosi presenti nel Risorgimento, compreso quello intriso di religiosità mazziniana.

Questa fu l’anomalia italiana che vide i cattolici obbedienti non solo combattere l’ideologia e la prassi liberale, ma porsi su posizioni antistatuali e antinazionali di impronta eversiva: un contrasto quello tra Santa Sede e Stato liberale italiano che segnerà quasi mezzo secolo della nostra storia. Tutto fu sottoposto e condizionato al peso della Questione romana e della reale indipendenza del pontefice (presentato come prigioniero della rivoluzione), questione che alimentò l’anticlericalismo, producendo quell’enfasi del Risorgimento che condizionò in Italia la ricerca storica fino agli anni Cinquanta del Novecento. L’anticlericalismo diventò dunque una formula di governo e la Chiesa delegittimò i governi vietando ai cattolici di partecipare alla vita pubblica ponendo questi ultimi contro il mondo uscito dal Risorgimento.

Quanta cura dell’8 dicembre 1864, costituisce la massima espressione del giudizio negativo della Chiesa sulla conformità della civiltà moderna ai valori cristiani (giudizio che sarà rivisto solo con la dichiarazione Dignitatis humanae del Concilio Vaticano II). Il documento, testo dottrinale riguardante la fede e la morale in se stessa e nei rapporti con le opinioni del XIX secolo, esprime il compendio delle tradizionali condanne e consiste in un elenco di 80 proposizioni riguardanti gli errori del tempo, raggruppati in 10 paragrafi, tra cui sono contenuti quelli sulla società civile considerata in se stessa e nei suoi rapporti con la Chiesa (proposizioni nn. 38-55). Tra quanto condannato troviamo anche il liberalismo (proposizioni nn. 77-80), cosa che provocò reazione e disappunto nei settori del liberalismo cattolico. In particolare, a proposito: De independentia potestatis Ecclesiae a civili, alla proposizione 63 si stigmatizza l’affermazione di chi sostiene «Legitimis principibus oboedientiam dectractare, immo et rebellare licet» e, ancora al numero 42: «In conflictu legem utriusque potestatis ius civile praevalet», mentre alla proposizione 80 si condanna l’affermazione: «Romanus Pontifex potest ac debet cum progressu, cum liberalismo et cum recenti civilitate sese reconciliare et componere».

Nella medesima linea si situa la costituzione Pastor aeternus,promulgata dal Concilio Vaticano I il 18 luglio 1870, che contiene la definizione del dogma dell’infallibilità del vicario di Cristo. La definizione dogmatica (dove si afferma tra l’altro: «Se qualcuno avesse la presunzione di contraddire a questa nostra definizione, sia scomunicato») fece rientrare nella sfera dell’infallibilità non soltanto le verità formalmente rivelate (credenda, cioè da credere) ma anche ogni verità che vi sia connessa (perciò tenenda, da ritenere).

Una spia delle ripercussioni di queste condanne si può agevolmente ritrovare anche nei testi dei sinodi diocesani italiani che con la fine del giurisdizionalismo ripresero a essere celebrati a partire dall’Unità d’Italia, proprio utilizzando le libertà statutarie.

Con il pontefice Leone XIII si registra un progressivo passaggio dalle condanne ecclesiastiche a caute aperture, che si manifestano prima nel campo, pur di connotazione intransigente, del cattolicesimo sociale, per poi estendersi in quello politico. In particolare, a partire da quel pontificato le riforme sociali diventano il veicolo per la comprensione della modernità e l’avvicinamento alla società, secondo la direttiva: «in necessaris unitas, in dubiis libertas, in omnibus charita».

Immortale Dei,del 1 novembre 1885 sulla costituzione civile degli Stati può leggersi come un commento non restrittivo del Sillabo.

con avanguardie che si attardano e retroguardie che si affrettano per consentire di ricompattare le truppe.

Dalle «parallele» giolittiane alla conciliazione dei poteri tra Grande guerra e fascismo

Per la Chiesa il trauma del Risorgimento iniziò ad essere sanato solo con la Grande guerra, ma anche con l’attenuarsi delle forme di controllo restrittivo dello Stato sul suo operato e il Novecento segna l’avvicinamento dei cattolici italiani alla vita politica e, attraverso il ralliement, si assiste all’accettazione di ogni forma politica e, quindi, al superamento della pretesa della residua potestas indirecta in temporalibus.

Lo sbocco del cattolicesimo liberale italiano sarà il moderatismo gentiloniano (1913), questo per la incapacità di elaborare una proposta politica originale, idonea ad uscire dagli schemi della tradizione liberal-moderata, affrontando una riflessione di natura religiosa (così come proposto dai modernisti) e attenta a non porre la fede in contrasto con la scienza, il progresso e la cultura moderna. Una linea, perseguita con il patto Gentiloni e volta, attraverso il clero e il laicato più preparato, ad aggregare con finalità religioso-sociali le masse cattoliche e gettare le premesse per una apertura nei confronti della democrazia parlamentare, superando il collegamento verticistico e coinvolgendo i fedeli laici nella salvaguardia dei diritti di libertà religiosa, ai quali si affida, nella duplice veste di fedeli e cittadini, di essere protagonisti come membri attivi della società religiosa e della società civile.

Solo più tardi la minaccia comune del socialismo sovversivo favorì una più estesa convergenza di interessi, portando a forme di modus vivendi che spianarono la strada alla conciliazione. Ultimo esito di quella linea politica fu l’Università Cattolica del S. Cuore di Milano, che fu voluta come cattolica e non pontificia ed esordì come frutto del separatismo liberale, segnando, con l’abbandono dello statualismo, l’inizio di un parziale accoglimento del pluralismo scolastico e la concreta espressione della cultura cattolica, che realizza nel campo dell’alta formazione l’ideale della libertà.

Tra nostalgie dello Stato cattolico e l’opzione della Chiesa per la democrazia degli Stati

Continue anche nel Novecento sono le sfide che la democrazia pone alla Chiesa, la quale non è e non può essere una società democratica e che al proprio interno e nella propria struttura e funzionamento non ne può recepire l’esperienza. In particolare, con le trasformazioni della società civile e la sconfitta del totalitarismo, lo Stato riscopre la dimensione sociale e comunitaria e la Chiesa rende definitiva la propria opzione per la democrazia politica. Fu un processo lento, che taluni fanno risalire addirittura a Pio IX (che di fronte al crollo del potere temporale, rimasti inascoltati i suoi appelli ai sovrani affermò: «Se i monarchi abbandonano il papa, i popoli rimangono a lui fedeli»), ma che si consolida con la difesa della persona umana nel magistero di Pio XI e Pio XII.

Dei due totalitarismi condannati da Pio XI, il successore ebbe a lottare contro la guerra come conseguenza del nazismo e contro la diffusione post-bellica del comunismo. In proposito si ricorda il radiomessaggio di Pio XII in occasione del Natale del 1944, in cui troviamo chiare espressioni contro l’assolutismo di Stato e l’invito ai cittadini a partecipare alla costruzione di ordinamenti veramente democratici.

Continuando a osservare il contesto italiano, fu tra la fine degli anni Quaranta e per tutti gli anni Cinquanta che iniziarono a emergere divergenze tra la dottrina tradizionale della Chiesa cattolica in tema di libertà religiosa e la corrispondente disciplina giuridica sancita al riguardo dallo Stato italiano nel suo nuovo diritto positivo, a seguito dei principi contenuti nella Costituzione. Per molti, nostalgici di modelli confessionali, dovere di uno Stato cattolico sarebbe stato di assicurare condizioni di libertà soltanto alla Chiesa cattolica e ai suoi appartenenti, in quanto unici depositari della vera religione, mantenendo i seguaci delle altre confessioni religiose in un mero regime di tolleranza civile.

Il riposizionamento del magistero ecclesiastico a seguito del Vaticano II

Il Concilio ecumenico Vaticano II (1962-1965) rappresenta il riposizionamento della dottrina cattolica in relazione alla modernità e, attraverso le decisioni conciliari, la Chiesa ha recepito alcuni principi scaturiti dalla società moderna. Tuttavia, secondo molti quello non fu un radicale mutamento di passo, perché il magistero non avrebbe fatto altro che canonizzare norme liberali e riproporle adattate a tutta la società. Indubbiamente con l’assise conciliare si ebbe una evoluzione della tradizionale dottrina canonistica in tema di libertà religiosa, quale si trovava fissata da secoli, sebbene, sempre seguendo una visione restrittiva, c’è chi afferma che il documento sulla libertà religiosa del Vaticano II si limita a estendere il principio della libertà religiosa individuale (da sempre accettata dalla Chiesa) al diritto di manifestare pubblicamente le proprie credenze religiose nell’ambito dello Stato, ovviamente la libertà di non manifestare la fede cattolica non esiste nell’ambito della Chiesa.

Il post ’68 e la contestazione ecclesiale del modello di società borghese

Come sappiamo nella società italiana il decennio ’70-’80 fu pervaso dal clima del ’68, fortemente critico verso ciò che deriva dalla tradizione e avverso al principio di autorità, e nella Democrazia cristiana (dopo l’apertura a sinistra) e nel mondo culturale cattolico si affermò il dominio, tanto imposto da diventare assoluto, della cultura di sinistra e personalità di valore lontane da questi orientamenti furono emarginate. In particolare, la Chiesa visse il delicato periodo post conciliare e i cattolici del dissenso animarono le proteste, con istanze volte a perseguire una falsa povertà ecclesiastica, questo mentre i liberal-democratici sia cattolici che laici erano definiti in modo spregiativo «borghesi» e i sistemi ispirati al marxismo-leninismo vennero ritenuti un modello di governo superiore a ogni altro. Questo mentre sul piano delle opzioni politiche i cattolici, in linea con le direttive della gerarchia, rimasero ancorati all’esperienza unitaria della Democrazia cristiana, che espresse governi in cui erano spente le componenti cattolico-liberali.

Dalla revisione pattizia del 1984 ai nuovi confini e parametri di confronto

Negli anni Settanta l’avanzare delle istanze di libertà civili determinarono un nuovo clima anche nella disciplina concordataria e si fecero concrete le richieste di revisione del testo dell’accordo del 1929. Da parte sua la Chiesa del Vaticano II ritenne superata l’epoca dei concordati che ebbero per oggetto lo scambio di concessioni e privilegi, orientando l’alleanza con la società civile verso accordi definiti di libertà. Nel 1984 si giunse così alla revisione concordataria, in cui prevalse l’impegno dello Stato e della Chiesa per il perseguimento del bene comune e la collaborazione sul terreno sociale, ma anche il consociativismo politico. La Chiesa ormai prende in considerazione come interlocutore lo Stato laico, cioè quel modello in cui la normativa non è improntata alla morale religiosa, ma dove tuttavia si darà rilevanza nell’ordine civile alle attività e insegnamenti religiosi e alle richieste delle confessioni. Tra gli ulteriori elementi dell’accordo c’è il riconoscimento pubblico di un nuovo soggetto: la Conferenza episcopale italiana (Cei), a cui è affidato un ruolo crescente nei rapporti con la società politica. Circa i risvolti del patto, merita di essere segnalato il fatto che all’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi non riuscì, a seguito di quell’evento, l’intento di coagulare attorno al proprio partito il favore della gerarchia ecclesiastica, che rimase impegnata oltre ogni limite a sostenere l’unità partitica dei cattolici italiani.

Oggi il fattore religioso, pur politicamente secondario rispetto all’Ottocento, è oggetto di interesse diffuso con manifestazioni in ambiti differenti da quelli delle religioni tradizionali, pur tuttavia risulta continua la tentazione vaticana di appellarsi alla pars sanior del Paese, ma gli esiti sono sempre negativi sia che si affidi alla mediazione del partito cristiano sia che si ripercorra nuovamente la strada delle garanzie di carta sottoscritte con i governi laici. La società plurale in luogo della società religiosamente omogenea impone di ricomporre in un quadro d’insieme le diverse istanze etico-culturali e trovare le regole comuni tra identità e nuove libertà, evitando il pericolo di creare comunità parallele, che segnino il prevalere della fedeltà al modello di appartenenza particolare a discapito dello Stato.

res finiscono con l’essere miste e sullo stesso oggetto si creano sistemi di valutazione che possono risultare concorrenti e che alimentano il pericolo del venire meno della distinzione tra l’ambito politico e quello religioso. Ovviamente il confessionismo è finito, anche se permangono dei residui, ma il cammino della libertà religiosa in Italia è bloccato da anni e le minoranze religiose, dopo aver rivendicato il diritto all’eguaglianza, rivendicano quello alla diversità, con una situazione di confessioni con intesa che risultano maggiormente garantite, rispetto a tutte le altre.

Cogliendo le prospettive relative al tema dei rapporti tra Chiesa e Stato, in relazione a fattispecie diverse rispetto al passato anche recente e al nuovo protagonismo delle istituzioni religiose in genere e della Chiesa cattolica in particolare, viene in evidenza che gli stessi termini del rapporto non sono più quelli del tempo in cui l’autorità civile e quella religiosa si incontravano per comporre le rispettive competenze e definire gli ambiti di azione in un eguale stato di sovranità e nella medesima condizione di ordinamenti giuridici primari. Se da un lato a livello individuale la religione è essenziale per l’esistenza dell’uomo, non è così necessaria per il vivere sociale, dall’altro la nostra storia rappresenta la più macroscopica delle irrisolte commistioni tra lo spirituale e il temporale e la realtà serenamente considerata mostra la sconfitta delle visioni statualiste sia di destra che di sinistra e la necessità di una cultura autenticamente liberale, necessaria per ricostruire sulle macerie del materialismo e per riformare le istituzioni. È però da vedere quanto questa esigenza sia condivisa da un clero, connotato da linee più terzomondiali che occidentali, e, in particolare, dalla Conferenza episcopale, organismo nei fatti scarsamente collegiale, ma che ha oggi la maggiore responsabilità nella conduzione dei rapporti politici ed economici (finanziamenti pubblici) con la società civile.

Bibliografia

ocietà religiosa,in Dizionario delle idee politiche,diretto da Berti E., Campanini G., Ave, Roma 1993.