Concorrenza

di Alberto Mingardi

La concorrenza è un processo di scoperta che avviene in condizione di rivalità: la sintetica definizione è proposta da Stephen L. Littlechild [2009], sulla scorta dell’insegnamento soprattutto di Friedrich A. von Hayek (1899-1992), forse l’autore che più di ogni altro ha contribuito a porre le condizioni per una revisione in senso liberale delle teorie della concorrenza.

In passato, l’enfasi era stata perlopiù sulla condizione di rivalità – ovvero sul pluralismo sul versante dell’offerta. Nell’ambito della teoria emersa come dominante dall’economia neoclassica, si era giunti a definire le condizioni di «concorrenza perfetta» sulla base di taluni assunti:

Le due condizioni cruciali, perché vi sia concorrenza perfetta, sono allora l’esclusione della strategia del prezzo dall’ambito del decision making imprenditoriale, e quella che è nota come la «legge d’indifferenza» di Jevons: in un qualsiasi istante, in un mercato perfetto, a causa dell’uniforme distribuzione dell’informazione non può esistere più di un prezzo per una merce omogenea.

Anche per questo motivo, la critica dell’assunto della perfetta distribuzione dell’informazione ha avuto fortuna oltre i ristretti confini della scuola austriaca dell’economia, incrociando l’analisi di autori (Ronald H. Coase e Oliver Williamson su tutti) che hanno fatto oggetto di studio «la natura dell’impresa», e non solo la sua teoria.

In queste innovazioni, la centralità della lezione hayekiana è innegabile. Fulcro ne è la riflessione sulla natura non solo asimmetrica, ma distribuita e dispersa, dell’informazione in una società. Il primo punto è strettamente legato al cosiddetto «dibattito sul calcolo economico» in un sistema socialista [von Mises (1922) 1989], affrontato da Ludwig von Mises (1881-1973) e da Hayek stesso. Il loro seminale lavoro mette in dubbio non solo la razionalità di un’economia pianificata ma, su più larga scala, l’opportunità di qualsiasi intervento esterno in un mercato.

Attraverso il sistema dei prezzi, pertanto, vengono canalizzate informazioni che non soltanto sono disperse, ma in una qualche misura sono inconoscibili ad altri che a coloro che sono effettivamente impegnati in una transazione.

Hayek fa riferimento alle concrete circostanze della produzione, evocando quello che l’epistemologo Michael Polanyi (1891-1976) definì «conoscenza personale». Per Polanyi, parte delle conoscenze degli individui sono assimilabili al modo in cui «ciascuno inventa un metodo per nuotare senza sapere che esso consiste nel regolare il respiro in un modo particolare». Anche negli aspetti apparentemente più umili e marginali, ciò che si verifica è «la scoperta pratica di un ampio spettro di regole, non conosciute consciamente, di talenti e di conoscenze che comprendono importanti processi tecnici che possono raramente venire completamente spiegati [a posteriori], ed anche allora solo dopo un’estensiva ricerca scientifica» [Polanyi (1958) 1962, p. 62].

Un’analisi di questo tipo converge con la riflessione di chi, come Schumpeter, rileva che «la vita economica di una società non socialista consiste di milioni di relazioni o flussi tra singole imprese e singole economie domestiche. Possiamo stabilire alcuni teoremi su tali relazioni, ma non possiamo mai osservarle tutte» [Schumpeter, cit., p. 291].

Questa visione «epistemologicamente umile» porta Hayek e gli austriaci a «mettere da parte» «le ipotesi artificiali che sottostanno alla teoria della concorrenza perfetta» [von Hayek (1946) 1988, p. 301], fino a capovolgere del tutto la visione neoclassica della concorrenza. Per Hayek

il vero problema non è quello di appurare se sia possibile ottenere date merci e dati servizi a costi marginali dati, ma quello di individuare quali merci e servizi sono in grado di soddisfare i bisogni della gente nella maniera più economica possibile. Da questo punto di vista, la soluzione del problema economico della società è sempre un viaggio esplorativo nell’ignoto, un tentativo di scoprire nuovi modi di fare le cose in maniera migliore di quella in cui sono state fatte in precedenza. E sarà sempre così, fino a quando ci saranno problemi economici da risolvere, perché tutti i problemi economici sorgono a causa di cambiamenti imprevisti che richiedono qualche adattamento [ivi, p. 303].

I termini della teoria della concorrenza perfetta sono pertanto del tutto abbandonati – tant’è che si passa da un’analisi del mercato a tecnologia e struttura dei costi costanti, a una visione del ruolo stesso del mercato come «economizzatore» della struttura dei costi. La teoria austriaca ha dunque il grande vantaggio di non avere bisogno di «adattarsi» per contemplare l’evoluzione tecnologica.

Questo approccio ha aperto nuovi orizzonti non solo nello studio dei mercati, ma anche nella interpretazione politica del valore della concorrenza. Ha portato a enfatizzare i benefici dinamici anziché quelli statici della concorrenza, e quindi ha condotto a vedere nei sistemi di libero mercato istituzioni in grado di stimolare l’innovazione e consentire il miglior utilizzo possibile della conoscenza dispersa nella società. I benefici della concorrenza non sono più compresi solamente in virtù dei prezzi inferiori che la gara competitiva fra diversi produttori provoca, ma sono associati alla possibilità che nuovi servizi e nuovi beni, o nuove modalità di produzione, siano sviluppati. Ciò porta a guardare con occhi nuovi le normative antitrust. Se scongiurare situazioni nelle quali era presente un solo produttore privato sembrava sempre auspicabile, anche a costo di ricorrere a interventi coercitivi da parte dello Stato, per avvicinarsi a una situazione di «concorrenza perfetta» emergono ora diverse problematiche. Si comprende come la presenza di un solo produttore può essere conseguenza del fatto che egli è pervenuto per primo a una qualche innovazione. Il primo arrivato, è per forza meglio servito.

Colpire un monopolista che è tale solo in ragione del fatto di aver precorso i tempi potrà avere benefici (lo stimolo di concorrenti me too, che portano ad abbassare i prezzi «replicando» ciò che altri hanno sperimentato e introdotto sul mercato), ma presenta anche taluni costi. In particolare, aumenta i costi dell’innovazione e ne diminuisce i benefici attesi. Distorce artificialmente gli incentivi con cui un imprenditore si confronta. Pare in questa prospettiva davvero importante non confondere «la promozione della concorrenza con l’attacco al monopolio», come notato da Sergio Ricossa [2004, p. 7], a meno che un monopolio non sia tale in quanto protetto da norme. Per Bruno Leoni, è solo «il monopolio imposto dal sovrano» a essere pericoloso [Leoni (1965) 2004]. Dal momento che trae forza dalla «mano pubblica», esso finisce per rendere impossibile al consumatore cambiare le proprie preferenze, che sarebbe la prima strategia di «emancipazione» da un monopolio privato che fosse percepito come pernicioso.

La scuola di Leoni e Ricossa è tuttavia minoritaria, anche su questi temi. In Italia, infatti, la tradizione liberale degli ultimi cinquant’anni è tipicamente associata alla promozione di robuste normative antitrust. Ciò viene ricondotto alla predicazione del suo più illustre campione, Luigi Einaudi (1874-1961). Come ha avuto modo di ricordare Mario Draghi

Nel 1947, come membro dell’Assemblea Costituente della Repubblica di cui sarebbe poi divenuto il primo Presidente a pieno titolo, Einaudi propose di inserire nella Costituzione una clausola anti-monopolio:

La clausola proposta da Einaudi era, si vede facilmente, logicalmente scomponibile in due parti. Da una parte, Einaudi ambiva a rendere illegale il «monopolio imposto dal sovrano»: l’uso della coercizione contro la libertà economica. Dall’altra, egli riteneva che l’eventuale «monopolio privato» stesse meglio in mani pubbliche – assumendo cioè che un monopolio spontaneamente emerso, quand’anche la sua sopravvenienza fosse meno probabile, non fosse destinato a essere inevitabilmente incalzato dalla concorrenza, e anzi fosse altrettanto pericoloso di un monopolio sorto per iniziativa del legislatore.

Va sottolineato come l’oggetto di sanzione, da parte dello Stato, consisteva nei monopoli pubblici e privati, assieme con accordi di cartello e intese. «Pratiche che riteniamo nocive allo svolgimento dell’economia e della vita sociale italiana» erano «pratiche restrittive della concorrenza, da parte di uno o più operatori, ditte od enti pubblici o privati, nonché di accordi e intese fra due o più operatori, ditte od enti pubblici o privati, diretti agli stessi scopi» [Malagodi, Bozzi 1955].

Mentre può sorprendere la sostanziale equiparazione dell’attività di imprese private ed enti pubblici, che sembrerebbe implicare l’obbligo per lo Stato imprenditore di soggiacere anch’esso alla legislazione antitrust, va notato come ciò costituisca il contenuto più genuinamente liberale della proposta. Così come la scelta dell’istituzione di una commissione indipendente, con carattere semigiudiziario, per l’enforcement della normativa proconcorrenziale.

È noto come le reiterate proposte di Malagodi, in merito, non abbiano avuto grande fortuna. Esse però avevano proprio nell’ostilità anche al monopolio di marca pubblica il tratto che le distingueva da quelle avanzate in tempi diversi da Ugo La Malfa (per il quale le norme antitrust erano parte di «una politica estremamente diretta e guidata dallo Stato, e affidata nella sua esecuzione all’iniziativa privata» [La Malfa 1957]), con Bruno Villabruna o Riccardo Lombardi, o addirittura dal Partito Comunista (per cui l’obiettivo naturalmente era «imporre ai monopoli – sia pure per gradi – un suo controllo ed una sua programmazione fondata sulle esigenze di politica economica nazionale» [Amendola, Failla et al. 1960]).

Se in Italia divenne vieppiù comune l’opinione di Guido Carli (1914-1993) per cui «una legislazione a tutela della libera concorrenza sarebbe stata forse il solo argine efficace contro le invasioni di campo dell’industria pubblica» [Carli (1977) 2008, p. 119], non era impossibile a un osservatore acuto comprendere ciò che Leoni spiegò con insuperata chiarezza in una replica ad Eugenio Scalfari,

Questa aporia non ha impedito – in Italia come altrove nel mondo – l’introduzione di una normativa antitrust, avvenuta da noi grazie ad un percorso legislativo avviato da Valerio Zanone e concluso da Augusto Battaglia, entrambi ministri dell’Industria. Non troppo curiosamente, una qualche variante della disputa fra le due visioni del monopolio si ebbe anche fra gli ideatori di quella legge. Alcuni, fra cui Franco Romani (1935-2002) che ebbe in quella vicenda un ruolo chiave, volevano evitare che all’Antitrust spettasse anche la disciplina delle intese, quindi degli accordi fra operatori di mercato, limitandosi a recepire quelle che sino ad allora erano le norme comunitarie. Tuttavia, come ricorda Alberto Pera, in Parlamento era condivisa l’idea che «il controllo delle concentrazioni dovesse essere un ingrediente essenziale di una nuova normativa della concorrenza» [Pera 2008]. Il fatto che anche la Comunità europea andasse muovendosi in quella direzione, procedendo verso l’adozione di un regolamento sulla merger regulation, contribuì alla sconfitta dell’impostazione di Romani.

Bibliografia

Capitalismo, socialismo e democrazia, (1954), Etas, Milano 2001.