Diritto pubblico

di Tommaso Edoardo Frosini

«Il faut éclairer l’histoire par les lois et les lois par l’histoire». La celebre frase di Montesquieu esprime l’idea della storicità del diritto e dello stretto rapporto che lega il diritto all’evoluzione storica.

Per comprendere a pieno l’assetto istituzionale di un ordinamento giuridico occorre, in via preliminare, verificare quale sia stato il processo storico che a esso ha condotto e, cioè, ricostruire il ciclo compiuto del suo sviluppo giuridico. Per fare ciò, pare necessario risalire alle origini dell’esperienza giuridica che ha interessato la penisola italiana, non potendosi limitare la ricostruzione all’ultimo secolo e mezzo di storia postunitaria.

L’analisi è circoscritta alla sola evoluzione storica del diritto pubblico, pur nella consapevolezza, da un lato, dell’unità del diritto e, dall’altro, che, soprattutto in determinati periodi storici, i confini tra diritto pubblico e diritto privato sono mobili e difficilmente determinabili.

L’esame storico del diritto, delle istituzioni e della scienza giuridica è condotto congiuntamente, sul rilievo della naturale integrazione tra le tre componenti della storia giuridica.

La ricerca dei mezzi idonei ad assicurare il rigoglioso vivere associato di una collettività costituisce esperienza radicata nelle più antiche civiltà.

In linea di massima, sin dalle origini della civiltà, l’interesse della polis, la ragion pubblica e il fine del governo costituito sono i principi politici che guidano la vita collettiva e, dunque, il diritto pubblico, laddove il diritto privato è fondato essenzialmente su principi etici, di giustizia e di equità.

Benché il diritto romano conoscesse la distinzione tra jus publicum e jus privatum (e, difatti, la distinzione della storia romana in Regno, Repubblica e Impero è significativa per il diritto pubblico, mentre è pressoché irrilevante per il diritto privato), questa non assumeva, in seno a tale civiltà, eccessivo rilievo. Nelle Institutiones di Giustiniano si rinvengono numerosi passi relativi a regole introdotte per perseguire l’utilità pubblica e l’interesse comune. E tra i Glossatori la consapevolezza della connessione tra diritto pubblico e privato era profonda. In epoca successiva, è celebre il passo in cui Baldo degli Ubaldi sostiene che il perseguimento dell’interesse pubblico porta vantaggi non soltanto alla res publica, ma anche ai singoli, che traggono beneficio dal benessere della collettività.

Ma anche in epoca medievale, nel complesso, mancò il senso pieno della distinzione tra pubblico e privato, vale a dire il corpo autonomo di principi e norme regolanti la vita delle istituzioni e dell’azione politica e di governo di un ordinamento.

La caduta dell’Impero romano, che condusse alla crisi dei commerci e alla forzata ed autarchica ricostruzione di microcosmi locali e isolati, fece sì che l’ordinamento feudale si sviluppasse attorno a piccole comunità locali fortificate e, in seno a queste, all’esercizio di funzioni pubbliche essenziali, quali la sicurezza e l’ordine pubblico, garantite dal signore e dalle sue truppe armate.

Una breve ma importante parentesi fu rappresentata dall’età carolingia. Quando, nella notte di Natale dell’800 d.C., Carlo Magno venne incoronato imperatore dal papa Leone III, si rafforzò il potere centrale, trovando legittimazione, al contempo, il potere della Chiesa. Ma non scomparvero le entità locali: anzi, l’Impero ed i regni galleggiarono sul reticolo localistico, limitandosi a formarne il tessuto connettivo, dando vita, in epoca carolingia, ad una sorta di concertazione dell’azione di governo tra autorità centrale e sedi locali. Si trattò di un ordinamento complesso e composito, costruito attorno alla forza dei poteri intermedi: le città-stato, i feudatari, il clero, le corporazioni. Un modello, per così dire, pluralistico, volontaristico, negoziale e consuetudinario, fondato su una articolata rete di rapporti d’indole contrattuale tra re e vassalli, anche per il tramite della concessione di feudi dal re ai suoi seguaci.

La situazione mutò ben presto, poiché il disfacimento dell’Impero carolingio (888 d.C.) ricondusse, nella penisola, al particolarismo giuridico e politico. Ma la forma di relazione istituzionale instauratasi, a livello di prassi, tra re e vassallo e tra questo e i propri dignitari rimase caratteristica dello Stato medievale, seppure in contesti frammentati e in proporzioni ridotte, nell’ambito di un territorio ripartito in circoscrizioni di diversa ampiezza.

Il periodo tra il secolo IX e la metà del secolo XIII fu connotato da due vicende. Da un lato, il dualismo tra Chiesa e Impero, tra potere religioso e civile, tra diritto romano e diritto canonico: un rapporto di forte antagonismo, ma anche di stretta compenetrazione tra l’una e l’altro e di reciproco riconoscimento. Dall’altro, lo sviluppo delle autonomie comunali, che trassero forza proprio dall’indebolimento del potere centrale dell’Impero e dei regni.

E, in effetti, anche in Italia, sia pure nella diversità rappresentata dalla frammentazione in signorie e principati, il periodo tra il XII secolo e il XV secolo fu contrassegnato dal processo di avvicinamento all’assolutismo statale, con il passaggio dal re giudice al re legislatore. Questo processo fu particolarmente accentuato nel Mezzogiorno, dove, con il Regno di Sicilia, nacque uno Stato unitario ed accentrato, dapprima normanno, poi svevo e ancora angioino. Lo Stato normanno-svevo fu connotato da forte autorità centrale e da un rigido controllo dell’unità, sia sotto il severo regno del normanno Ruggero II, sia sotto quello illuminato dello svevo Federico II.

In particolare, la morte, nel 1250, di Federico II di Svevia segnò la fine di un’epoca, venendo meno, con lui, anche il tentativo più assiduo e concreto di ricondurre a Stato unitario la nazione italica. Nel XIII secolo ritornarono ad assumere forza e consistenza le autonomie comunali, gradualmente assorbiti, a partire dal XIV secolo, dapprima, dalle signorie e, poi, dai principati, talvolta di notevole ampiezza.

In tal modo, dalla personalizzazione del potere nelle mani del sovrano si passò a un potere gradualmente spersonalizzato, riconducibile direttamente allo Stato: quest’ultimo da oggetto (ovvero patrimonio del re dominus) divenne sempre più soggetto. Verso la fine del XVI secolo, ciò venne riassunto (Bodin) nella formula per la quale l’autorità del re non è in nome proprio, ma in nome dello Stato, del quale è chiamato a rispettare i principi fondamentali.

Il graduale aumento della complessità di governo dello Stato assoluto si dovette principalmente al fatto che questo si resse sull’economia di guerra, essendo così alla perenne ricerca di entrate e di ricchezze, per il tramite della leva fiscale e dei privilegia fisci, al fine del consolidamento della burocrazia e del rafforzamento dell’esercito statale, impegnato in attività belliche.

Lo Stato assoluto è caratterizzato, dunque, da un’opera di razionalizzazione dei rapporti burocratici e dei rapporti sociali, attraverso il centralismo autoritario e l’indebolimento dei corpi intermedi, con finalità di sviluppo del commercio e dell’industria.

Nel corso del XVII secolo e, soprattutto del XVIII, con il progredire del pensiero filosofico e delle conoscenze scientifiche, si sviluppò il pensiero illuministico. Il monarca perdeva l’aura sacrale e divina e la sovranità non si fondava più su una ragion di Stato autosufficiente. Il soggetto originario del potere politico non era più identificato nel re, ma nel popolo. Alla base dello Stato vi era l’individuo, titolare di diritti e partecipe del contratto sociale. Si affermava il diritto naturale e, cioè, la titolarità di diritti innati, eterni e inalienabili da parte dell’individuo, che lo Stato si impegnava a garantire, assieme al perseguimento di fini di benessere collettivo.

Si aprì un’età di riforme costituzionali e amministrative, nell’ottica di un lento rinnovamento che lo stesso sovrano concedeva al fine di conservare il potere: il re si occupava graziosamente del benessere dei propri sudditi e consentiva a parziali limitazioni del potere, in particolare attraverso l’istituzione di organi rappresentativi (ad esempio, la Congregazione centrale dello Stato a Milano). Con il cosiddetto Stato di polizia si ampliarono notevolmente i compiti pubblici (ad esempio, l’istruzione pubblica) e si attenuò fortemente la divisione per ceti, con la prepotente ascesa della borghesia, che conseguì una crescente forza economica e culturale.

Attraverso la diffusione, nella penisola, dei principi rivoluzionari di libertà, eguaglianza e solidarietà si passò, nel corso dell’Ottocento, tra periodi di più accentuata trasformazione e periodi di restaurazione, dallo Stato di polizia allo Stato liberale o Stato di diritto, fondato non più sulla volontà del sovrano, ma sul primato della legge e del Parlamento eletto.

Il conferimento di garanzie costituzionali, il lento passaggio dalla monarchia costituzionale dualista al governo parlamentare monista, la tendenziale astensione dello Stato dall’intervento in economia furono le principali caratteristiche dello Stato liberale affermatosi anche nella penisola, in particolare con l’entrata in vigore dello Statuto albertino (1848) e con la raggiunta unità (1861): caratteri, peraltro, affermatisi in modo meno pronunciato in Italia rispetto ad altri Paesi europei.

L’Ottocento fu anche il secolo della nascita e dello sviluppo della scienza del diritto pubblico. Diritto costituzionale e diritto amministrativo, dunque, divennero, anche in Italia, materie di studio da parte degli esperti del settore. Già nel corso dei primi tre quarti del XIX secolo vi furono, nella penisola, giuspubblicisti di valore, tra i quali Gian Domenico Romagnosi, Luigi Palma, Giovanni Manna, Giovanni de Gioannis Gianquinto, Giorgio Arcoleo.

Il cosiddetto metodo giuridico permise ai giuspubblicisti (tra i quali, in particolare, occorre ricordare Oreste Ranelletti, Federico Cammeo, Santi Romano, Donato Donati) di progredire velocemente nelle conoscenze giuridiche relative all’amministrazione, ma finì per isolarlo inesorabilmente rispetto alle altre scienze sociali. Ciò costituì la grandezza degli studi giuridici tra fine Ottocento e la prima parte del Novecento, ma rappresentò la principale ragione della decadenza degli studi giuridici in Italia nella restante parte del secolo XX.

Sin dai primi anni del Novecento, le teorizzazioni ottocentesche mostrarono difficoltà di tenuta concettuale di fronte all’avvento di nuove istanze sociali e, cioè, al cospetto della crescente complessità, delle trasformazioni industriali, dell’affermazione del capitalismo monopolistico, della crescita delle masse piccolo borghesi e popolari e delle interdipendenze e dei conflitti di queste con le forze dominanti, dell’emersione di nuovi corpi intermedi e di soggetti portatori di interessi, della nascita di sindacati e di partiti di massa, dell’allargamento del suffragio e dell’ampliamento dell’istruzione.

In Italia, in campo giuridico, la percezione della crisi dello Stato e l’emersione di forze sociali e corporative titolari di interessi contrastanti con quelli dell’ordinamento giuridico statale venne colta, prima e più di altri, da Santi Romano, che, nel 1917, pubblicò il celebre saggio su L’ordinamento giuridico, nel quale elaborò la cosiddetta teoria delle istituzioni. Secondo Romano, prima di essere norma il diritto era «organizzazione, struttura, posizione della stessa nella società». Vi erano tanti ordinamenti giuridici quante istituzioni. Si aveva, dunque, una pluralità di ordinamenti giuridici, affatto riconducibili esclusivamente al diritto statale.

La teoria pluralista romaniana non ebbe seguito, perché, negli anni Venti si affermò il regime fascista.

Alla base dell’affermazione dello Stato autoritario vi fu la mancata tenuta della fragile democrazia a seguito, da un lato, dei costi economici e politici dell’esperienza bellica mondiale e, dall’altro, del caos sociale provocato dalle rivendicazioni dei ceti operai, politicamente organizzati.

Con il fascismo e il cesarismo mussoliniano fu edificato un sistema dittatoriale, attraverso la repressione del dissenso e delle libertà, la soppressione di libere elezioni, l’istituzione di un partito totalitario di massa, la presenza della cappa opprimente della propaganda, l’assunzione di un ruolo monista e totalizzante da parte del Capo del governo.

Anche la scienza del diritto pubblico fu ricondotta alle esigenze strumentali del regime, con la sterilizzazione delle voci dissonanti, la fidelizzazione di quelle collaboranti e la neutralizzazione di quelle maggioritarie, che si concentrarono nello studio di temi tecnici, non connotati da elementi politici.

Il tragico epilogo della Seconda guerra mondiale travolse lo Stato fascista e ricondusse il Paese sulla strada della democrazia, della Repubblica e della Costituzione del 1948. Quest’ultima fu disegnata e ideata essenzialmente in opposizione al modello di Stato totalitario fascista.

Nell’immediato secondo dopoguerra, si affermò e si sviluppò rapidamente, nel nostro ordinamento, lo Stato sociale o del benessere, con un enorme ampliamento dell’intervento statale e delle funzioni pubbliche.

In quegli anni si assistette, inoltre, alla rinascita degli studi di diritto pubblico, con l’emersione di una generazione di studiosi di grande talento, che rinnovarono completamente lo studio del diritto costituzionale e del diritto amministrativo: Massimo Severo Giannini, Costantino Mortati, Feliciano Benvenuti, Carlo Esposito, Vezio Crisafulli, Aldo M. Sandulli, Giovanni Miele, Mario Nigro. In particolare, lo studio del diritto pubblico si aprì nuovamente alle influenze provenienti dalle altre scienze sociali.

Bibliografia

Storia del diritto pubblico in Germania, tr. it., Giuffrè, Milano 2008.