Emigrazione (Istituzioni della)
di Emanuela Primiceri
In età giolittiana la più importante legge sull’emigrazione, la n. 23 del 1901, destinata sostanzialmente a durare fino all’avvento del fascismo, aveva alla sua origine il superamento del contrasto tra due politiche liberali, fra un «liberalismo conservatore» da una parte e un «liberalismo sociale», che risultò alla fine preminente, dall’altra. Al contrario della legge crispina del 1888, quella del 1901 era profondamente intrisa di potere statale, per questo il concetto della «tutela» dell’emigrante sostituiva quello di «polizia» della precedente legislazione. Uno degli elementi di innovazione contenuto nella legge giolittiana, fu la creazione di un ufficio speciale per la tutela dell’emigrazione, ovvero il Commissariato generale dell’emigrazione (Cge). Questo ente era destinato a riunire in un’unica struttura tutta una serie di competenze e di servizi che fino a quel momento erano stati slegati tra loro e affidati a diversi organismi.
La formula prospettata per questi enti dai legislatori rifletteva, come ha autorevolmente messo in luce Fabio Grassi, «quella tendenza verso una nuova organizzazione dello Stato che doveva far perno, nel campo economico e sociale – non tanto sui ministeri – ma su nuove istituzioni più snelle e capaci di fronteggiare le nuove esigenze dell’amministrazione moderna». In questo senso è possibile notare una continuità nella visione dello «Stato amministrativo giolittiano» e quello che si affermò con l’economia di guerra e nel dopoguerra.
Certamente l’aspetto peculiare della legge del 1901 era rappresentato dall’istituzione del Cse composto da alcuni membri del Parlamento, dai rappresentanti della Lega Nazionale delle Cooperative e dalle Società di mutuo soccorso: una riforma di grande importanza se si pensa che esso costituì in seguito un modello per il Consiglio superiore del lavoro. Ciò stava a sottolineare l’importanza che veniva data all’integrazione del movimento operaio nei processi formativi della legislazione «speciale» dell’emigrazione.
summa di tutte le leggi precedenti in materia.
Il r.d. del 26 maggio 1912 aveva ampliato la composizione del Consiglio dell’emigrazione in base a quanto prescritto dalla riforma legislativa del 1910 e questa innovazione perdurò fino al termine della guerra. Durante questo periodo e con il nuovo rinnovo del Consiglio si accentuò la componente tecnocratica, nel senso che si verificò un significativo ricambio di essa, ma anche un ampliamento della stessa. Notevole fu inoltre la presenza di figure tecniche, un esempio di ciò fu la presidenza di Luigi Bodio. Altre personalità di rilievo nella composizione del 1912 sono da rintracciare in figure storiche del Consiglio, come Pantano e Cabrini, che sarebbero andati a rafforzare le correnti politiche di cui facevano parte. Il periodo del dopoguerra (1920-1922) segnò alcuni interessanti cambiamenti in seno alla composizione del Consiglio, con l’aumento della vecchia componente burocratica e delle rappresentanze ministeriali, ma anche con il ritorno di elementi significativi, come quello di Turati per i socialisti e Jacini per i cattolici.
La guerra segnò una svolta nella storia del Consiglio, in sostanza essa può considerarsi come uno spartiacque tra la politica emigratoria che il Consiglio aveva sostenuto durante l’età giolittiana e i sopravvenuti impegni del periodo della guerra, compreso il nuovo ruolo che l’organo dell’emigrazione avrebbe occupato da quel momento e fino alla sua soppressione da parte del fascismo. I problemi che dovette affrontare il Consiglio riguardarono prevalentemente le iniziative da intraprendere per tutelare l’emigrante, e a questo proposito fu De Michelis, in qualità di commissario dell’emigrazione (poteva intervenire durante le sedute), a proporre l’istituzione di uffici per la protezione degli emigranti nei Paesi d’arrivo. In questo modo veniva rivendicata la funzione dello Stato come «padre protettore» tanto cara ai rappresentanti delle leghe operaie e del Partito socialista, oltre che allo stesso De Michelis.
Un cambiamento nella politica del Cse si realizzò nel dopoguerra e lo attuò proprio De Michelis, emblematiche a questo proposito furono le teorizzazioni espresse in alcune pubblicazioni del Commissariato. Le possibili soluzioni avanzate al Consiglio dalle formazioni sindacali e socialiste e in alcuni casi cattoliche, dinanzi ai problemi del dopoguerra, si scontravano con le posizioni autocratiche e nazionaliste di De Michelis. In questo senso, l’emigrazione nella crisi dello Stato liberale fu interpretata in modo diverso, a seconda degli schieramenti politici.
Franzina ha osservato come il dibattito politico all’interno del Cse e in Parlamento, seguito al periodo della guerra, sul tema dell’emigrazione, mettesse in evidenza solo un’«apparente» posizione «antiemigratoria». De Michelis, infatti, mediante la condotta inaugurata al suo arrivo al Cge e supportata dal parere favorevole ottenuto dal Cse, portò avanti una strategia che affiancava la collocazione della manodopera italiana all’estero con il raggiungimento di importanti risultati nella stipula di trattati internazionali. Certamente, però, il Cge dovette affrontare non poche critiche provenienti sia dai protezionisti che dai liberisti, in particolare riguardo alla gestione degli accordi internazionali di emigrazione e lavoro e quindi alla collocazione di lavoratori italiani sui mercati esteri. I contrasti con il Partito socialista e con quello cattolico emersero in tutta la loro ampiezza nei dibattiti al Consiglio del dopoguerra. I socialisti, in quel particolare periodo di lotte sindacali, per sostenere la pressione operaia sui poteri pubblici auspicavano che i contratti di lavoro per l’impiego di operai italiani all’estero dovessero essere sottoposti all’autorizzazione dei sindacati. Queste istanze di controllo da parte dei sindacati non piacevano agli esponenti del Cge, secondo i quali questo organo doveva essere considerato l’unico tecnico, vicario dello Stato, a esercitare la funzione del collocamento. Ma furono i cattolici a creare maggiori problemi: all’indomani della marcia su Roma infatti premevano verso il neonato governo fascista per un «ridimensionamento del Cge». Ciò era determinato dal fatto che la competizione scoppiata tra il Cge e il nuovo ruolo svolto da patronati e società che si occupavano di emigranti come la Società Umanitaria e l’Opera Bonomelli (che sempre maggiormente svolgevano il loro compito di aiuto e sostegno agli emigranti attraverso un fondamentale taglio politico) sembrava diventato insanabile.
Il processo contro il Commissariato e contro la sua eccessiva autonomia era quindi cominciato già nel periodo liberale. È possibile in effetti riscontrare una certa continuità tra la politica migratoria prefascista e quella fascista, perlomeno fino alla soppressione nel 1927 del Cge e degli altri organi consultivi a esso legati. Nella prima fase della politica migratoria fascista, quella che va dal 1922 al 1926, si verificava una parziale prosecuzione dell’impostazione istituzionale dei precedenti governi liberali. In questo periodo l’esecutivo fascista continuerà ad avvalersi di tutti gli organi relativi all’emigrazione, primo fra tutti il Commissariato. A partire dal 1927 si verificherà una inversione di tendenza con la soppressione del Commissariato e del Consiglio Superiore dell’emigrazione. Questa nuova posizione, darà inizio a una svolta epocale nella politica migratoria italiana. Il cambiamento direttivo della politica migratoria fascista si ebbe il 28 aprile 1927 con la creazione di una Direzione generale degli italiani all’estero e la soppressione del Cge, mentre la stessa sorte toccò al Cse il 23 ottobre dello stesso anno. Il passaggio non sarebbe stato indolore. Quella che era stata la struttura istituzionale dell’emigrazione, creata dallo stato liberale e introdotta con la legge del 1901, veniva man mano smembrata a favore di un nuovo ordinamento fascista.
Bibliografia
La febbre d’America. Il socialismo italiano e l’emigrazione (1898-1915), Lacaita, Manduria-Bari-Roma 2001.