Francia
di Carlo Lottieri
In un suo scritto assai noto, Friedrich A. von Hayek distingue due tradizioni del liberalismo (o individualismo, per usare la sua terminologia) al fine di portare un duro attacco a quella linea di pensiero di matrice franco-continentale che egli fa risalire a Cartesio e che avrebbe avuto i suoi esiti più infelici in Jean-Jacques Rousseau. A tale prospettiva «costruttivista», destinata a confluire nel socialismo, Hayek oppone l’autentico individualismo, che a suo giudizio è di carattere empirista e di matrice anglosassone. Quest’ultimo sarebbe per giunta riconducibile a una forma particolare di liberalismo attento alle tradizioni, preoccupato di proteggere le istituzioni emerse storicamente e per questo assai critico nei riguardi del razionalismo [cfr. von Hayek (1945) 1997].
Questa lettura del liberalismo francese ha avuto un notevole successo e poggia certamente su qualche dato di fatto, poiché non c’è dubbio che il contributo della Francia alle ragioni dello statalismo (assolutismo monarchico, giacobinismo rivoluzionario, nazionalismo, e via dicendo) sia stato massiccio. Come ha evidenziato Ralph Raico, questo non deve però portare a ritenere, seguendo alla lettera le tesi hayekiane, che la cultura francese abbia offerto al liberalismo un contributo di scarso rilievo: Hayek ha espresso un giudizio tanto negativo nei riguardi della Francia soprattutto in virtù della sua predilezione per le prospettive «fallibiliste» e per quell’individualismo che, da Hume in poi, ha sviluppato una contestazione molto feroce nei riguardi della ragione umana.
Quando si accosta la Francia e la sua complessa storia delle idee politiche è però possibile individuare due principali ed egualmente rilevanti tradizioni liberali, le quali affondano le radici nel Diciottesimo secolo e ancora oggi mantengono una notevole vitalità: una linea di pensiero in senso lato costituzionale, che può essere fatta risalire a Montesquieu, e una seconda, più radicale negli esiti e maggiormente legata alla teoria economica, che ha forse probabilmente nei fisiocratici e in Turgot i propri padri fondatori.
Un costituzionalismo dai molti volti
Con L’esprit des lois, Montesquieu pone le basi di un filone di studi molto importante per la cultura liberale: si tratta di una ricerca che unisce analisi storica, attenzione alla sociologia e ai costumi, forte interesse per le questioni giuridico-istituzionali. È a partire da una riflessione sulla mentalità, sul clima, sulla storia e sui sistemi legali che lo studioso giunge a sviluppare una teoria della limitazione del potere «attraverso il potere»: ripartito tra legislativo, esecutivo e giudiziario.
Quelle che all’inizio del Diciottesimo secolo sono ancora intuizioni bisognose di approfondimenti, nel pensiero di Benjamin Constant acquistano piena maturità. In vari scritti e in particolar modo nei suoi Principi di politica, nel momento in cui è chiamato a confrontarsi prima con la Rivoluzione e poi con il quindicennio napoleonico lo studioso di origine svizzera sviluppa una riflessione che mira a limitare ogni dominio: sia esso monarchico come repubblicano, arbitrario o legale. Il liberalismo si fa tecnica di contenimento del ricorso alla violenza, dato che le istituzioni trovano la loro unica giustificazione esclusivamente nella protezione dei diritti dei singoli. Significativamente, in Constant la tutela della proprietà privata è molto importante, ma soprattutto quale condizione indispensabile ad avere soggetti politici indipendenti. In qualche modo, essa è strumentale alla creazione di un ordine politico equilibrato e liberale.
Sotto taluni aspetti, qualche elemento di questo liberalismo nutrito di sociologia è presente nei «dottrinari» e soprattutto in François Guizot, nel cui conservatorismo liberale c’è spesso la valorizzazione del lavoro e dell’impresa (è celebre il suo motto: «enrichissez vous!»), ma neppure manca la convinzione che un certo grado di protezionismo sia indispensabile a proteggere l’agricoltura e l’industria francesi.
Un’analoga ispirazione anima larga parte del pensiero di Alexis de Tocqueville, che tanto nel volume sull’America, come in quello sull’ancien régime e sulla Rivoluzione sviluppa una riflessione che enfatizza il ruolo strutturale (costituzionale in senso materiale) delleassociazioni, dei corpi intermedi, delle comunità volontarie. Confrontando il panorama sociale della Francia (dove prima la monarchia e poi il giacobinismo hanno fatto tabula rasa di ogni realtà che si situasse tra lo Stato e il singolo individuo) e quello degli Stati Uniti (ricco invece di ogni formazione comunitaria e associativa), Tocqueville evidenzia come la libertà degli uomini sia assai meglio protetta entro contesti in cui il potere è disperso e la vita associativa è articolata.
Questo filone del liberalismo francese non è venuto meno con il declinare del Diciannovesimo secolo. In opere come Del potere (1945), L’etica della redistribuzione (1952) e La sovranità (1955), un autore come Bertrand de Jouvenel ha in vario modo riattualizzato la riflessione di Constant e Tocqueville, unendo filosofia politica e senso della storia. Ma tracce di questa tradizione liberale e francese si ritrovano in talune opere di Raymond Aron, di Jean Baechler e di Raymond Boudon, oltre che negli scritti di vari intellettuali contemporanei legati alla rivista «Commentaire»: da Philippe Bénéton a Pierre Manent.
Un liberismo radicale
Una tradizione autonoma, anche se non completamente distinta (basti pensare alla significativa influenza che l’economia liberale ha esercitato su Constant e su de Jouvenel), può essere fatta risalire ad Anne Robert Jacques Turgot e, di seguito, a Jean-Baptiste Say. Contro la tesi che assegna ad Adam Smith il ruolo di solitario fondatore della scienza economica, da tempo si va enfatizzando non soltanto l’azione di vari precursori (taluni teologi francescani e scolastici dell’età medievale e della prima modernità, tra gli altri), ma anche l’originalità di chi come Turgot ha elaborato una teoria della moneta, una riflessione sulla soggettività del valore e una comprensione del ruolo dell’imprenditore le quali hanno anticipato analisi che oggi vengono definite «austriache». Come rileva Joseph Aloys Schumpeter, «non è esagerato sostenere che l’analisi economica ha impiegato un secolo per ritrovarsi dove sarebbe potuta essere solo vent’anni dopo la pubblicazione del Traité di Turgot se solo il suo contenuto fosse stato correttamente compreso e assimilato da una professione più accorta» [Schumpeter 1954, p. 325].
Anche se destinato a essere oscurato dal grande successo intellettuale degli economisti britannici, Turgot influenzerà in maniera rilevante Jean-Baptiste Say, un economista la cui fama nei primi decenni del Diciannovesimo secolo non sarà seconda a quello di nessun altro. A tale studioso si deve la «legge degli sbocchi» – detta anche «legge di Say» – secondo cui l’offerta è sostanzialmente in grado di creare la propria domanda, dato che vi è legame molto stretto tra l’estensione del mercato e la dinamica della crescita. La sua idea fondamentale è che «il semplice fatto della realizzazione di un prodotto apre all’istante stesso uno sbocco ad altri prodotti», e questo attesta come il mercato debba essere lasciato libero di esprimersi al meglio: senza interferenze pubbliche [Say 1972, p. 412].
Questo dato è sufficiente per comprendere come anche entro tale tradizione le istituzioni siano cruciali: in fondo la riflessione di questi economisti punta a chiarire più che ogni altra cosa il ruolo cruciale delle regole e del mercato come sistema normativo. Ma qui il «costituzionalismo» è inteso essenzialmente nella sua effettività: più quale insieme di norme riconosciute e praticate che non quale ordine formale. Per giunta, l’antistatalismo di questi studiosi liberali tende a focalizzare l’attenzione soprattutto sul rispetto della proprietà, sulla libertà degli scambi, sulla necessità di limitare regolamentazione e tassazione.
Questo è quanto mai evidente in autori come Charles Comte, Charles Dunoyer, Charles Coquelin e soprattutto Frédéric Bastiat, che negli anni Quaranta dell’Ottocento svolgerà una fondamentale azione di promozione delle idee liberiste. Non soltanto egli si sforzerà di realizzare qualcosa di analogo al gran movimento popolare organizzato in Inghilterra da Richard Cobden con la Anti-Corn Law League, ma scriverà anche testi teorici e metodologici di notevole acume. Di questo gruppo di economisti, riunito attorno al «Journal des Économistes», farà parte pure Gustave de Molinari, l’intellettuale franco-belga che fin dal 1849 offre una prima formulazione della teoria anarcocapitalista.
Da allora a oggi questa tradizione di pensiero non si è mai spenta, dato che a essa possono essere ricondotti tanto Frédéric Passy (che nel 1901 conseguirà il premio Nobel per la pace) quanto Jacques Rueff, ma anche studiosi contemporanei come Pascal Salin, Bertrand Lemennicier e gli autori della «scuola di Aix-Marseille» (Jacques Garello, Jean-Pierre Centi, Gérard Bramoullé).
Questo liberalismo intransigente, la cui ascendenza può essere fatta risalire a Turgot e a Say, ha mantenuto a lungo un solido legame con l’altra tradizione francese: così che per lungo tempo l’influenza degli economisti del laissez faire riesce a svilupparsi in varie direzioni. Ma la connessione si attenua fortemente nel corso della seconda metà dell’Ottocento, quando anche in Francia – si pensi all’opera dell’École Polytecnique e anche alla figura di un liberalsocialista ante litteram come Charles Renouvier – l’orientamento prevalente finisce per accettare politiche dirigiste e redistributive.
Da lì in poi gli eredi della tradizione più orgogliosamente liberale verranno spesso marginalizzati: fino al punto da essere definiti, con un termine che vuole essere spregiativo, ultra-libéraux.
Un’Italia à la française
Per molte ragioni e in primo luogo per la forte connessione tra le due culture, a più riprese il liberalismo italiano è stato fortemente condizionato dalle idee sviluppatesi in Francia.
Quando nel Piemonte degli anni Quaranta e Cinquanta del Diciannovesimo secolo il conte Cavour conduce la sua battaglia, culturale prima ancora che politica, a favore del libero scambio e contro le logiche protezioniste, egli ha al suo fianco studiosi che hanno ben chiara la lezione di Say. Due nomi su tutti: Antonio Scialoja (che nel suo Trattato elementare di economia sociale del 1848 sposa molte tesi del francese) e Francesco Ferrara. Quest’ultimo, nella sua Biblioteca dell’economista, pubblicherà pure varie di Charles Dunoyer, Frédéric Bastiat, Michel Chevalier e altri.
Un altro pensatore in stretto rapporto con il liberismo francese fu Vilfredo Pareto, leggendo gli scritti giovanili del quale si avverte quanto tale studioso (nato a Parigi e per larga parte della sua esistenza calato entro un contesto linguistico e intellettuale italo-francese) abbia subito l’influenza di Bastiat e Molinari. Il libero scambismo esibito negli scritti degli anni Settanta e Ottanta appare sotto il segno di quella lezione. Come ha scritto Philippe Steiner, «le relazioni tra Pareto e gli economisti liberali francesi – Yves Guyot e Molinari per i contemporanei, Jean-Baptiste Say e Frédéric Bastiat per le generazioni precedenti – sono essenziali per comprendere il suo cammino in direzione del liberalismo, che allora egli associa strettamente al pacifismo» [Steiner 2006, p. 396]. Se Walras definirà Pareto «un anarchiste de la chaire» è proprio perché avvertirà negli scritti dell’economista un’eco evidente del radicalismo antistatalista francese.
Più studiosi hanno giustamente rilevato come, nella sua fase più matura, l’autore del Trattato di sociologia generale abbia preso le distanze, almeno in parte, dal liberalismo di mercato e abbia attenuato la propria fiducia in un qualche comporsi armonico dei differenti interessi. È però doveroso rilevare come, anche in questo periodo, l’impronta dei liberali resti significativa in ogni sua analisi del potere e, in particolare, nello studio della spogliazione e della redistribuzione offerto nei suoi testi maggiori di teoria economica.
Il filone più «tocquevilliano» ha invece esercitato un notevole influsso sull’altro padre fondatore dell’elitismo italiano, Gaetano Mosca, persuaso ad esempio che burocrazia e classe media debbano giocare un ruolo equilibratore, collocandosi a difesa di quell’interesse generale che spesso è minacciato dal trionfo dell’aristocrazia e dei ceti popolari. Il modo in cui l’autore degli Elementi di scienza politica connette questioni giuridiche e sociali mostra quanto sia stato forte l’influsso di quella tradizione liberale.
Importanti tracce della cultura francese sono facilmente riconoscibili ugualmente negli scritti di un liberalconservatore come Guglielmo Ferrero, che soprattutto nella fase finale della sua produzione intellettuale presterà grande attenzione al giacobinismo e agli anni del dominio di Napoleone Bonaparte, approfondendo analisi già avviate dal più acuto oppositore intellettuale di quest’ultimo: Constant.
È certo vero che nel Novecento i liberali italiani guarderanno soprattutto verso il mondo anglosassone (come nel caso di Einaudi e Leoni) e verso il mondo tedesco (come fecero Croce e De Ruggiero), ma già tali dati aiutano a riconoscere il permanere di significativi scambi con la cultura francese. Oltre a questo, se nella filosofia politica di Nicola Matteucci è forte la presenza della lezione tocquevilliana, per molti economisti e pensatori sociali delle ultime generazioni (Enrico Colombatto, ad esempio) è stato importante il confronto con gli economisti di Parigi e Aix-Marseille legati alla scuola austriaca.
Bibliografia
Vilfredo Pareto et la révision du libéralisme économique classique, in Histoire du libéralisme en Europe, a cura di P. Nemo, J., Petitot, Puf, Paris 2006.