Idealismo
di Girolamo Cotroneo
In uno dei suoi lavori più importanti, Il liberalismo in un mondo in trasformazione, Nicola Matteucci ha scritto che quando parliamo di «classici del liberalismo», il pensiero corre subito «a Locke e a Montesquieu, al Federalist, a Humboldt e a Constant, a Tocqueville e a John Stuart Mill, i quali hanno ricercato una libertà concreta a misura dei problemi del loro tempo, contribuendo così a instaurare un nuovo ordine liberale», e nelle cui opere «sono presenti, in stretto accordo, l’elemento empirico e realistico (l’attenzione a quella realtà che si vuole modificare) e l’elemento critico, che quella realtà contesta partendo dall’ideale della libertà, di una libertà che quasi mai è intesa in termini utilitaristici». Aggiungeva poi di avere omesso «i nomi di Kant e di Croce, non perché non siano liberali, ma perché ci sono maestri solo nel campo della filosofia pratica, non nella progettazione dell’ordine liberale».
Tutto ciò rende necessario un chiarimento preliminare. In senso, diciamo, «teoretico», l’idealismo ha una lunga storia che attraversa tutto il pensiero occidentale: basta pensare che nasce con il «mito della caverna» di Platone – ingiustificato bersaglio di uno dei maggiori filosofi liberali europei del Novecento, Karl R. Popper – dove il processo della conoscenza viene descritto come un progressivo allontanarsi dall’«empirico», dal dato sensibile, seguendo un percorso che va dall’«essere» al «pensiero». Questo lungo cammino, che passa per Cartesio e per Kant, giungerà al suo culmine con la definitiva svalutazione dell’«empirico» da parte dell’idealismo «storico» nel secolo XIX.
Benedetto Croce, in polemica contro l’interpretazione «utilitaristica» – quella che attribuiva a Stuart Mill – del liberalismo, ha scritto una volta che «a questi poveri e fallaci teorizzamenti si deve l’origine dell’erronea credenza che il liberalismo sia individualismo utilitario (o, come lo si definisce riecheggiando Hegel, «atomismo») e che abbassi lo Stato a strumento dell’edonismo dei singoli». Questa breve considerazione ci avvicina a quella che è l’immagine del liberalismo proposta da Croce, il quale lo ha separato, per così dire, da tutte le istanze «pratiche» che pure contiene. Ad essa si può aggiungere quella, ancora più nota, in cui Croce prendeva le distanze dalla visione hegeliana dello «Stato Etico», osservando che lo Stato altro non è che quella «formazione» che Hegel «aveva battezzato mera “società civile”», della quale non comprese l’importanza, preferendo vederla «superata» in «quel che definì “Eticità” o”Stato”». Dopo aver detto che «il secolo seguito allo Hegel» aveva dimostrato «che non solo col liberalismo si vive, ma che solo con esso si prospera», Croce concludeva che questa è «non tanto una sconfitta del politico Hegel, quanto dello Hegel filosofo, ancora avvinto alle concezioni di una forma alta e perfetta della vita politica, e di uno stato finale e terminale della storia: concezioni contraddittorie a quella storicistica, che, per un altro verso, egli vigorosamente contribuì a piantare nella moderna cultura europea».
verità, ma non l’errore», replicava «che è assolutamente impossibile comunicare la verità, quando non è insieme permesso diffondere gli errori».
Sollen, del dovere, non già sull’esperienza storica la quale ci può dire soltanto «ciò che è stato, non ciò che deve essere».
Ancora una volta siamo qui di fronte a un liberalismo impregnato, per così dire, di «filosofia speculativa», quindi poco adatto alla costruzione di un «ordine liberale»: ma non certo alla fondazione di una «cultura» liberale, peraltro affatto indispensabile alla costruzione di quell’«ordine». A questo proposito occorre fare un passo indietro, e chiamare in causa un filosofo che ebbe parte decisiva nella nascita e lo sviluppo dell’idealismo tedesco, e che, pur professando un radicale monismo – nemico per natura e posizione di una visione liberale della società e dello stato – non può non essere collocato tra i pensatori liberali. Ci riferiamo a Baruch Spinoza, autore della celebre tesi secondo cui le dispute religiose e politiche non si convertirebbero in conflitti se «in base al diritto dello Stato fossero perseguibili soltanto le azioni, e le parole rimanessero impunite». Non certo senza ragione il XX capitolo del suo Trattato teologico-politico, pubblicato nel 1670, dove Si dimostra che in una libera Repubblica è lecito a chiunque di pensare quello che vuole e di dire quello che pensa, vieneindicato come una sorta di manifesto del nascente liberalismo. Ma non di un liberalismo politico-istituzionale come quello che circa trent’anni dopo, nel 1699, proporrà l’«empirista» John Locke nel Secondo trattato sul governo, ma un liberalismo «filosofico» dove vengono enunciati i princìpi-guida di una cultura della libertà, attraverso una forte rivendicazione della libertà di pensiero e di parola: «Per quanto», scriveva, «le supreme autorità abbiano il diritto ad ogni cosa, e benché siano ritenute interpreti del diritto e della pietà, esse non potranno mai far sì che gli uomini rinuncino a esprimere il loro giudizio secondo il proprio punto di vista intorno alle varie cose e che non si lascino trasportare nell’esprimerlo da questa o quella passione».
Appare qui il primo tentativo di conciliare autorità e libertà, riconoscendo i diritti dell’una e dell’altra, in vista della fondazione di quella società che oggi chiamiamo «liberale». Ma di là di questa e di altre enunciazioni di principio, nel testo di Spinoza si incontra pure un’indicazione, si potrebbe dire, pratico-politica, quella su cui si fondano tutti i regimi liberali: «Poiché è impossibile», si legge verso la fine del Trattato, «che tutti professino ugualmente le stesse opinioni, gli uomini convennero che avesse vigore di legge quella che avesse raccolto la maggioranza dei suffragi, conservando tuttavia l’autorità di abrogarla, qualora ne riconoscessero altre migliori».
Se l’«idealismo» nei suoi aspetti più radicali non ha dato molto al liberalismo, lo «storicismo assoluto» di Benedetto Croce, pur se teoreticamente lontano da Locke e Montesquieu, da Popper e da Hayek, ha fornito con la sua «teoria della distinzione» un apporto non secondario – si pensi alla distinzione tra liberalismo politico e liberismo economico – alla costruzione di un «ordine liberale» e non soltanto a un – anch’esso tuttavia indispensabile alla formazione di quest’ultimo – liberalismo come filosofia.
Bibliografia
Trattato teologico-politico, Einaudi, Torino 1972-1980.