Liberismo
di Antonio Martino e Nicola Iannello
La parola è forse il contributo più originale dell’Italia al liberalismo. Si tratta di stabilire se si tratta anche di qualcosa di cui menar vanto. Solo la nostra lingua, infatti, annovera questo particolare derivato di libertà. Siamo in presenza di un privilegio, di una maggior chiarezza lessicale e quindi concettuale oppure la lingua e il liberalismo italiani hanno confezionato un equivoco non poco nocivo per le idee di libertà?
Come registra nel 1900 il linguista Costantino Arlia [Arlia (1900) 1977, p. 172] a entrare per primo in uso nella nostra lingua è piuttosto il sostantivo che si riferisce alla persona, «liberista», che quello che si riferisce al sistema di idee, «liberismo». Il «liberismo» delle origini ha significato opposto di «vincolismo» e «protezionismo»: i liberisti sono coloro che si oppongono alle tariffe doganali. In sostanza, il liberismo dell’etimo è equivalente a liberoscambismo e indica la posizione di coloro che non ritengono necessaria la protezione delle cosiddette «industrie nascenti».
La parola però allarga progressivamente il suo campo semantico – come registrano enciclopedie e dizionari del Novecento –, arrivando a comprendere prima una politica economica favorevole all’iniziativa privata, al mercato e quindi contraria all’ingerenza dello Stato nelle cose economiche e poi una dottrina economica vera e propria, in pratica la traduzione economica del liberalismo, ovvero il liberalismo economico.
«naturali» dell’economia, va contro il terzo presupposto del liberismo, togliendo scientificità a tutta la dottrina [Coletti 1893b, pp. 140-143].
ivi, p. 162n]. Questa spoliticizzazione del liberismo può avvenire in modo favorevole alla borghesia nel caso di avversione all’intervento dello Stato nella vita economica, in modo favorevole al proletariato nel caso di rifiuto di misure come i dazi doganali e la repressione degli scioperi.
ivi, pp. 23-24].
La visione di Gobetti è così personale da non lasciarsi ricondurre interamente ai canoni tradizionali. Servendosi proprio della categoria del liberismo egli ripercorre in modo originale le vicende dell’Italia post-unitaria. Le sue critiche si appuntano sia sulle forze sociali sia sugli intellettuali: «le avanguardie del Nord erano tratte dall’immaturità della lotta politica e dei costumi nazionali a rinnegare il loro programma naturale di individualismo e di liberismo. Tra industria e liberalismo veniva a scavarsi un abisso che pretesero di trasportare addirittura nel campo della teoria e della sociologia. Invece il liberalismo non si esaurisce evidentemente nel liberismo, ma tuttavia lo comprende e lo presuppone» [ivi, p. 42]. Contro i filosofi sedicenti liberali, come Croce, Gentile e Silvio Spaventa, Gobetti canta le lodi degli scrittori di economia, come Francesco Papafava ed Einaudi, che divennero i predicatori inascoltati della dottrina di cui erano rimasti depositari: «l’equivoco da essi aiutato della confusione tra liberismo e liberalismo resta tuttavia il meno pericoloso e il meno assurdo di quelli sin qui analizzati. La chiusa setta dei liberisti può ben dire di aver salvato per parecchi decenni la purezza dell’idea e preparata in sede economica la formazione di condizioni psicologiche favorevoli a una rinascita liberale» [ivi, p. 50].
Gobetti individua e critica una duplice scissione dal liberismo, quella delle avanguardie industriali e quella della filosofia politica. Le prime avevano abbracciato una politica economica di protezione e intervento dello Stato a favore di settori strategici dell’economia nazionale che era finita nel parassitismo, la seconda era approdata al conservatorismo (Croce) o si era lasciata sedurre dal mito dello «Stato etico» (Gentile e Spaventa). Pur non rinunciando a far valere la distinzione tra liberalismo e liberismo, Gobetti assume un atteggiamento tutto sommato positivo nei confronti del secondo, ritenuto elemento importante della travagliata storia del liberalismo italiano. Solo che il liberismo deve rinnovarsi e fondersi con le istanze rivoluzionarie del proletariato in cerca di emancipazione: «il nuovo liberismo deve coincidere in Italia con la rivoluzione operaia» [ivi, p. 34].
ibidem]..
Sembra qui esserci un corto circuito tra economia e politica: se il liberismo è categoria economica e il liberalismo politica, come fanno a esserci economisti liberali? Esistono economisti liberali ed economisti liberisti? Se il liberismo è una categoria economica e il liberalismo no, allora non possono darsi economisti liberali altrimenti si avrebbe all’interno dell’economia un’ulteriore divisione tra ciò che è liberale e ciò che è liberista.
ivi, p. 103]. Per Croce, pertanto, il liberalismo non si oppone in principio alla «socializzazione di questi o quelli mezzi di produzione» [ivi, p. 40].
L’economista piemontese rimprovera a Croce la «quasi indifferenza» [ivi, p. 157] di fronte a liberismo e comunismo: «un liberalismo il quale accettasse l’abolizione della proprietà privata e l’instaurazione del comunismo in ragione di una sua ipotetica maggiore produttività di beni materiali, sarebbe ancora liberalismo?» [ivi, p. 126]. Secondo Einaudi – per il quale il liberismo è una soluzione concreta, non un principio – «non pare accettabile senza qualche riserva la tesi che la libertà possa affermarsi qualunque sia l’ordinamento economico» [ivi, p. 137]. Il rapporto tra politica ed economia, di conseguenza, non sta nei termini dei «distinti» crociani: «la libertà economica è la condizione necessaria della libertà politica» [ivi, p. 198].
Sul dibattito, val la pena riportare il pensiero di Hayek, il quale in un articolo scritto per l’italiana Enciclopedia del Novecento, sente il bisogno, forse per educazione nei confronti degli ospiti, di spendere qualche parola sulla questione, formulando «il rifiuto della distinzione – fatta spesso nell’Europa continentale, ma non applicabile al tipo inglese – tra liberalismo politico e liberalismo economico (elaborata in particolare da Croce come distinzione tra «liberalismo» e «liberismo»). Per la tradizione inglese i due liberalismi sono inseparabili» [Hayek (1973) 1978, p. 132]. Da notare che Hayek scrive «liberalismo» e «liberismo» in italiano, stante l’intraducibilità dei termini del dibattito di casa nostra.
liberals, nella vacua convinzione che esista un liberalismo emancipato da premesse economiche precise.
Aldilà delle origini storiche del termine resta il fatto che la sua introduzione non ha giovato né al liberalismo italiano, né alla chiarezza del dibattito, e non cesserà mai di stupire il connotato negativo da cui è circondato il termine specie se messo a confronto con l’aureola che corona l’anglosassone liberal che non gode certo di buona stampa negli Stati Uniti d’America. Specie se si tiene conto della indistinguibilità della libertà economica da quella politica, sarebbe di gran lunga preferibile rinunziare del tutto a questo vocabolo nato soprattutto dalla generalizzata e soddisfatta ignoranza di economia che da tempo immemorabile caratterizza il dibattito politico nel nostro Paese.
Bibliografia
Liberismo, in Dizionario delle idee politiche, diretto da E. Berti, G. Campanini, Ave, Roma 1993.