Partito liberale italiano – La fine
di Franco Chiarenza
Nel 1985, malgrado l’indiscussa popolarità di cui godeva nel partito, Valerio Zanone si dimise dalla segreteria del partito e un’eterogenea maggioranza portò al suo posto un avvocato penalista genovese, da sempre esponente della destra liberale, Alfredo Biondi. La linea politica di Biondi peraltro non si discostò molto, almeno nei fatti, da quella portata avanti da Zanone prima di lui, se non per una maggiore attenzione alle trasformazioni che cominciavano a interessare anche l’estrema destra (in parallelo a quelle che, negli stessi anni, si registravano nell’estrema sinistra).
Purtroppo Altissimo e Zanone (che manteneva la presidenza del partito) non compresero a pieno che sul sistema politico italiano, e in particolare sui partiti di governo, stava abbattendosi una tempesta provocata indirettamente dal mutamento della situazione internazionale dopo il crollo del muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica nel 1991. Le dinamiche politiche ed economiche compresse da un cinquantennio di condizionamenti internazionali non avevano infatti consentito ricambi significativi nelle maggioranze di governo, ma non si considerò che la crisi del comunismo avrebbe provocato un’ondata di riflusso la quale, paradossalmente, invece di colpire il Pci, avrebbe travolto gli equilibri politici fondati su quello che Alberto Ronchey aveva definito il «fattore K», cioè la necessaria esclusione dal governo di un partito che aveva come proprio punto di riferimento ideologico un paese nemico delle alleanze su cui il governo italiano fondava la sua credibilità interna e internazionale. Il partito comunista dovette rapidamente porre all’ordine del giorno una propria trasformazione radicale, ma gli altri partiti «costituzionali» restarono travolti prima ancora di rendersi conto di ciò che stava avvenendo.
Venuto meno il centrismo (sia pure nella versione del centro sinistra) negli equilibri parlamentari e di governo e subentrando un sistema tendenzialmente bipolare – come quello che di fatto ha caratterizzato la seconda repubblica – il partito liberale non poteva evitare una spaccatura che ne avrebbe comunque determinato la fine.
Di fatto, sia pure con molte convulsioni, è quello che è accaduto.
Nessuna di queste opzioni ha consentito la sopravvivenza di un forte punto di riferimento liberale.
Erano anni, quelli del crollo quasi contemporaneo degli equilibri postbellici in Italia e nel mondo, in cui il venir meno delle ideologie socialiste (non soltanto nella versione estrema del comunismo) e dei variopinti progetti di «terze vie» tra economia di mercato e pianificazione dirigistica, imponevano una rivisitazione del liberalismo anche a coloro che ne erano stati fieri avversari.
In questo contesto un gruppo di intellettuali provenienti dai centri culturali più prestigiosi del liberalismo (come il Centro Einaudi di Torino), si fecero promotori di un progetto di fondazione della seconda repubblica incentrato sul rilancio della dottrina liberale nella sua versione più ortodossa e «liberista» («Buongoverno») che, dopo varie incertezze e percorsi non sempre coerenti, rappresentò la base programmatica del «partito liberale di massa» portato avanti da Silvio Berlusconi dal 1994 in poi: tra loro Antonio Martino, Giuliano Urbani, Marcello Pera, Carlo Scognamiglio, Angelo Petroni, i quali fornirono la prima intelaiatura intellettuale al nascente movimento di «Forza Italia». Si trattava di un progetto ambizioso che si proponeva una vera e propria «rivoluzione culturale» in cui i liberali avrebbero dovuto giocare un ruolo essenziale nel rilancio dell’economia di mercato e nel ridimensionamento del ruolo dello Stato, fondando il suo consenso sull’appoggio dei ceti medi e dell’imprenditorialità, soprattutto piccola e media, sempre più rappresentativa del tessuto produttivo del Paese e in cerca di nuovi punti di riferimento dopo la scomparsa della Democrazia cristiana dall’orizzonte politico.
Fu questo il progetto che inizialmente Berlusconi pose a fondamento della sua discesa in politica, facendosi garante della sua realizzazione a fronte di alleati che non offrivano – in quel momento – credibili garanzie liberali (il Movimento sociale di Fini e la Lega di Umberto Bossi).
Sull’altro versante, quello di centro-sinistra, si collocava un progetto alternativo, impersonato soprattutto da Valerio Zanone, che aveva come obiettivo la rimozione di ogni pregiudiziale anti-liberale da parte della sinistra, ormai obbligata a giocare nel campo definito dalla cultura liberale occidentale, e la creazione di un grande schieramento in grado di rinnovare, anche dal punto di vista morale, la politica e l’economia di mercato, offrendo alla coalizione di centro sinistra come piattaforma di convergenza la tradizione liberale più sensibile ai problemi sociali.
Ma a sinistra è andata peggio. Non soltanto i «consiglieri» liberali sono stati messi da parte, ma sono riemerse alleanze con gruppi estremisti di tradizione dirigistica, non abbastanza forti da imporre scelte di governo a Romano Prodi dopo la vittoria elettorale della coalizione di centro-sinistra nel 2006, ma sufficienti per esercitare un sostanziale diritto di veto, che ha fatto arretrare, anche come immagine culturale, quella che avrebbe dovuto essere un’alternativa liberal democratica di sinistra.
La mia Roma. Diario 1943-1944, a cura di C. Cassani, con un saggio introduttivo di F. Grassi Orsini, Piero Lacaita Editore, Manduria-Roma 2011.Bibliografia