Politica estera (1915-1921)
di Fabio Grassi Orsini
Durante la guerra, e soprattutto dopo Caporetto, non mancarono i contrasti tra l’Italia e gli alleati, che si manifestarono drammaticamente alla conferenza di Peschiera, quando grazie all’intervento di Vittorio Emanuele III, gli alleati si convinsero a sostenere il fronte italiano e ad appoggiare il riarmo dell’esercito e dell’aeronautica duramente colpiti nella ritirata. Benché l’Italia avesse saputo dare una grande prova di tenuta sotto la guida di V.E. Orlando e lo sfondamento del fronte austriaco fu determinante per la vittoria finale, uscendo fortemente indebolita dalla guerra, si deve rilevare che gli alleati non vollero riconoscere il prezzo pagato dall’Italia in termini di uomini e di risorse, comportandosi in modo sprezzante nei confronti della delegazione italiana a Versailles. Non si può dire, tuttavia, che l’Italia abbia perduto al tavolo verde di Versailles ciò che aveva conquistato sul terreno di battaglia. Gli italiani, che avevano creduto nel wilsonismo tanto da farne un mito, trovarono nel presidente americano il maggiore ostacolo dinanzi alle richieste di un riaggiustamento della linea di frontiera che includesse Fiume. Si è sostenuto che la sconfitta diplomatica del governo Orlando-Sonnino fu dovuta alla «linea imperialistica» del ministro degli Esteri italiano e all’imperizia dimostrata nel negoziato dal «presidente della vittoria», presentato come un leguleio provinciale piagnucoloso, irresoluto, che essendo privo di esperienza internazionale e di conoscenza delle lingue, faceva ricorso a inefficaci artifici retorici. Non si sa se le richieste di Sonnino potessero essere contrassegnate da uno spirito più imperialista di quelle imposte con il diktat alla Germania da Clemenceau e non è certo possibile affermare che l’assetto europeo e quello mediorientale rispondessero ai canoni del principio di nazionalità e dell’autodeterminazione dei popoli. La sistemazione balcanica e la creazione della «grande Jugoslavia», così come l’umiliazione della Germania non furono, poi, così lungimiranti, come del resto aveva previsto Nitti, cui toccò di firmare il trattato di pace con la Germania, il quale fu sempre critico dell’assetto europeo uscito da Versailles.
Forse la condotta diplomatica italiana non tenne in dovuto conto il nuovo equilibrio di potere uscito dalla guerra. Orlando, molto più flessibile del suo ministro degli Esteri e che parlava un buon francese, non era così sprovvisto di doti di negoziatore, come affermato dagli storici inglesi e francesi. Alla luce dei documenti diplomatici italiani e del diario di Imperiali, recentemente pubblicato, si può ricostruire quanto, invece, le incomprensioni dipesero dall’atteggiamento pregiudizialmente favorevole agli jugoslavi di Wilson, dal malvolere del presidente del consiglio francese e dallo scarso appoggio di Lloyd George alle tesi italiane, che determinarono l’impasse sulla frontiera orientale. Si deve ritenere, tuttavia, un azzardo quello di lasciare il tavolo delle trattative e un suicidio politico da parte di Orlando porre la questione di fiducia.
Gli accordi di S. Giovanni di Moriana. Storia diplomatica dell’intervento italiano, Giuffrè, Milano 1936.Bibliografia