Politica estera (età liberale)
di Ennio Di Nolfo
Cavour, il primo ministro degli Esteri del Regno d’Italia, lasciò nel 1861 ai suoi successori un’eredità difficile e contraddittoria: questioni territoriali non risolte, spinte alla sovversione dei risultati raggiunti, nuove ambizioni e inappagate. Su tutto dominava l’alternativa: completamento della formazione del Regno o fiducia nell’attivismo che spingeva l’Italia a cercare, benché incompiuta, nuove vie nella politica internazionale? Ciascuna di queste voci era direttamente collegata a un contesto internazionale che faticava ad accettare le novità accadute nella Penisola. La mancata annessione del Veneto e la questione romana avevano conseguenze dirette sulla condotta della politica estera italiana. Per Bettino Ricasoli e per i suoi successori, sino ad Alfonso La Marmora, ministro degli Esteri nel 1864-66 in un governo da lui stesso presieduto, i passi che l’Italia doveva compiere erano direttamente collegati con i vincoli così stretti che la legavano alla Francia di Napoleone III e, in secondo luogo, alla Gran Bretagna. Le due questioni aperte proponevano però scelte internazionali divergenti. Dopo il 1861 e, più ancora, dopo che nel 1862 il principe Otto von Bismarck era stato nominato capo del governo degli Stati tedeschi del Nord, la questione tedesca era al centro della politica europea. La potenziale rivalità fra Germania del Nord e Impero austriaco indicava i termini di un conflitto per la supremazia, rispetto alla quale anche i Francesi e, in subordine, gli Italiani, erano chiamati a prendere posizione. Napoleone III tendeva ad appoggiare una soluzione basata sull’alleanza tra la Germania e l’Italia, grazie alla quale, il Regno sabaudo avrebbe potuto ridimensionare l’Impero degli Asburgo. Su questa base, l’Italia avrebbe confermato la propria subordinazione ai progetti continentali dell’Imperatore francese, il quale non valutava in modo adeguato i rischi di una crescita troppo vasta della potenza germanica e immaginava un continente ancora dominato dalla Francia e dai suoi satelliti. La guerra austro-prussiana del 1866 e la severa sconfitta subita a Sadowa dalle forze imperiali sancirono la fine in Europa della supremazia militare austriaca (già umiliata nel 1859) e resero possibile che Napoleone III, da arbitro neutrale, ottenesse dagli Austriaci, benché in modo non diretto, la cessione del Veneto all’Italia. Così, mentre in Germania si ponevano le basi dell’egemonia continentale, gli Italiani restavano legati alla Francia e, al tempo stesso, vedevano sorgere il tema delle loro relazioni con la Germania. Con la Francia, essi avevano inoltre dovuto subire l’oneroso compromesso della Convenzione di settembre del 1864, con la quale la capitale del Regno veniva spostata da Torino a Firenze. Era un altro segno del vincolo che impediva all’Italia di affrontare in modo risolutivo la questione romana senza porsi contro Napoleone III. Soltanto la fine della supremazia continentale francese avrebbe aperto nuove vie.
Frattanto, in questa linea di continuità, gli uomini della Destra, dal Ricasoli a Emilio Visconti Venosta (capofila della politica estera moderata), a Costantino Nigra, a Edoardo de Launay, a Alberto Blanc, a Carlo di Robilant, avevano superato, non senza difficoltà, il problema del riconoscimento del Regno d’Italia. Furono la Gran Bretagna e la Confederazione Elvetica a concederlo per prime, il 30 marzo 1861, seguite dagli Stati Uniti il 13 aprile. Più stentato fu il riconoscimento francese, collegato alla richiesta di garanzie circa la volontà italiana di rispettare l’indipendenza di ciò che restava degli Stati Pontifici e concesso il 15 giugno, seguito poi da quello degli altri Stati europei, eccezion fatta per l’Impero austriaco e la Santa Sede che, sino al 1866 e al 1929 sarebbero rimasti irrisolti. Ma questa lentezza nell’attuazione di un gesto formale che avrebbe dovuto essere quasi automatico rivelava già il punto debole della politica estera italiana, cioè la subordinazione alle decisioni delle maggiori potenze europee. Fu per questo che nel 1867, in occasione della discussione sulla crisi del Lussemburgo, provocata dal voluto dissenso tra il Bismarck e Napoleone III sul destino del Ducato, la diplomazia italiana sviluppò una risoluta azione affinché il Regno fosse ammesso al ristretto gruppo delle «grandi potenze». Era un riconoscimento che non ebbe solo quella valenza formale che si è tentati spesso di attribuirgli ma fu il primo passo di un lungo cammino che avrebbe caratterizzato a lungo la politica estera italiana. Lungo perché il riconoscimento formale doveva essere confermato, mediante azioni concrete, dalla capacità di esercitare tale ruolo.
La bruciante sconfitta francese (Sedan, 2 settembre 1870) in un certo senso tolse il governo italiano dall’imbarazzo ma, in senso opposto, lo spinse nella direzione che esso non era ancora maturo per scegliere. Lasciata Roma nel 1866 grazie alla Convenzione del settembre 1864, i Francesi non erano più in grado, nel 1870, di soccorrere il potere papale. Per converso, gli Italiani si videro offrire un’occasione insperata, benché in definitiva discutibile: trarre profitto dalla sconfitta di chi tuttavia aveva dato la spinta iniziale alla nascita del Regno d’Italia, per prendere Roma con un colpo di forza (20 settembre 1870). Furono favoriti dalle circostanze: la caduta di Napoleone III e il delinearsi della minaccia rivoluzionaria a Parigi. Per quanto discutibile sul piano diplomatico, l’azione italiana non faceva che cogliere un frutto maturo, senza che nessuno potesse in quel momento ostacolarla. Ma in quel modo la Destra, guidata da Giovanni Lanza e da Emilio Visconti Venosta, capovolgeva i presupposti della posizione europea dell’Italia. Se la massima del ministro degli Esteri era «indipendenti sempre, isolati mai», da quel momento forse l’indipendenza era raggiunta ma al prezzo di una durevole tradizione di ostilità da parte austriaca e da una fresca ma cocente volontà di rivalsa dei Francesi. Restava in quel momento, ma solo come un’ipotesi da verificare, la possibilità di un accordo con l’Impero germanico: troppo sicuro di sé e troppo proiettato nell’impegno di consolidare le intese fra i tre imperatori conservatori, per avere interesse a una collaborazione con l’Italia. La sconfitta subita dai Francesi aveva avuto una portata tale da por fine per un lungo periodo di tempo alla minaccia di una ripresa revisionistica da parte del governo della Terza Repubblica.
La decisione di occupare Roma con la forza, se completava (con l’eccezione del Trentino e di Trieste) l’unificazione del Regno d’Italia, apriva, con il trasferimento sulle rive del Tevere della capitale del Regno d’Italia, un contenzioso assai aspro con il Papato ed esponeva l’Italia, per un certo tempo (cioè sino alla stipulazione della Triplice alleanza del 1882) alla minaccia che una coalizione di paesi nemici mettesse in discussione ciò che era stato compiuto dal 1859 in poi. Sul piano internazionale questo pericolo aveva un valore circoscritto ma su quello della politica interna esso acquistava una valenza singolare per i rapporti tra le forze politiche. Dal 1870 gli schieramenti tradizionali incominciarono a sfumare le loro posizioni in una sorta di anticipata politica di «trasformismo». La Destra si sentiva gradualmente attratta dalla potenza germanica mentre per la Sinistra la Francia repubblicana e democratica acquistava il valore di un modello. Del resto, a spingere verso questa direzione vi era anche la stessa politica tedesca (e austriaca). Il Bismarck non aveva voluto imporre agli Asburgo una pace troppo severa mentre aveva strappato alla Francia l’Alsazia-Lorena, creando le fondamenta del revanscismo francese. Ciò prospettava una spinta austriaca verso la penisola Balcanica, rispetto alla quale l’Italia aveva interessi fondamentali che la Francia sconfitta non avrebbe in alcun modo potuto condividere e spiega perché gli ultimi anni della supremazia della Destra fossero caratterizzati da un evidente impegno a stabilire un clima di intima pacificazione con l’Austria e un più stretto avvicinamento alla Germania. I viaggi di Vittorio Emanuele II a Vienna e a Berlino, nel 1873, benché fossero suggeriti dal desiderio di garantirsi Roma lasciando che solo la Francia dirigesse le sue recriminazioni contro l’Italia [cfr. Volpe 1991]. Non fu irrilevante, in tal senso, l’atteggiamento italiano, prima e dopo l’avvento della Sinistra al potere, rispetto alle questioni balcaniche. La guerra russo-turca del 1875-76, le avvisaglie dell’interesse austriaco verso la Bosnia-Erzegovina, la sconfitta turca e poi l’intervento diplomatico del Bismarck, con la convocazione della Conferenza di Berlino del 1878 coincisero con la svolta nella politica interna italiana. Ma l’atteggiamento che il ministro degli Esteri del primo governo di Benedetto Cairoli, Luigi Corti, tenne a Berlino, la cosiddetta politica delle «mani nette», cioè la rinuncia a far valere qualsiasi interesse italiano, se poteva essere argomentata come l’espressione della volontà del Regno d’Italia di essere un elemento di pace e di equilibrio in Europa, era anche, e invece, l’espressione delle esitazioni che la debole struttura del paese potesse avanzare proprie rivendicazioni senza avere in effetti la forza sufficiente a sostenerle. Del resto, la Sinistra aveva raccolto un’eredità quanto mai ricca dalla politica estera della Destra e le scelte da compiere in quel contesto dovevano essere soppesate con cura. La ambizioni dovevano essere commisurate alla capacità di farle valere. Esistevano alternative diverse da quelle che già prima del 1876 erano state delineate?
révanche francese, volessero, ciascuno secondo i propri interessi, stringere vincoli più stretti.
La svolta ebbe luogo dopo l’azione francese a Tunisi. Questa incideva su ambizioni e interessi italiani. Dalla Penisola la penetrazione in Tunisia era stata quanto mai attiva, basata sulla speranza di una presenza diretta sul territorio africano più vicino all’Italia. Inoltre essa spingeva una parte dalla Sinistra (Mancini e Nicotera) a premere perché la politica estera italiana fosse collegata a un riavvicinamento delle posizioni di politica interna. Non a caso, i mesi successivi al maggio 1881 furono anche quelli del più rapido processo «trasformistico». Nel gennaio 1882, Minghetti e Depretis suggellarono un accordo il cui obiettivo era di combattere contro «i pericoli che minacciano le nostre istituzioni».
La politica internazionale fu uno dei passaggi chiave del dissolversi delle divisioni tradizionali [Lowe, Marzari 1975, pp. 21-27]. Sebbene nell’ambito diplomatico si giudicasse prematura ogni iniziativa, ebbe la meglio il parere di Alberto Blanc, segretario generale del ministero degli Esteri. Un ruolo importante lo ebbe anche la volontà di re Umberto I di recarsi a Vienna per incontrare l’imperatore Francesco Giuseppe, a suggello della pacificazione avvenuta. Nel gennaio 1882, Mancini, ministro degli Esteri nel quarto governo Depretis, diede istruzioni al di Robilant e al de Launay (ambasciatori rispettivamente a Vienna e a Berlino) di scandagliare il terreno per un avvicinamento sebbene non ancora per un’alleanza formale. Le deludenti reazioni dei due governi (il Bismarck declamò allora un parere poi divenuto ben noto, cioè che la via per Berlino passava per Vienna) non fermarono la diplomazia italiana. Nel febbraio Mancini propose un trattato di garanzia reciproca del territorio delle tre potenze. Per l’Italia ciò presupponeva la disponibilità austriaca a riconoscere il Quirinale contro il Vaticano. Era una formula che fu aggirata mediante un faticoso negoziato diplomatico che portò, il 22 maggio 1882 alla firma della Triplice alleanza, che, da allora e sino al 1914, divenne il caposaldo della collocazione internazionale dell’Italia. Era un trattato in sé poco rilevante, se non per il fatto del mutuo riconoscimento che, senza affermarlo in modo aperto, aggirava la questione della garanzia per il possesso italiano di Roma. Le clausole militari (un aiuto italiano alla Germania nel caso di aggressione francese e un aiuto tedesco per il caso di un attacco francese all’Italia) erano in quel momento di scarso o nessun rilievo. Eppure l’alleanza, frutto della convergenza tra le idee della Destra e quelle della Sinistra italiane dava all’Italia maggiore sicurezza e legava l’Italia alla stabilità europea, secondo i desideri di Bismarck [Salvatorelli 1939, pp. 11-39] e nell’ambito del sistema conservatore europeo.
Non si trattava però di una scelta il cui significato politico fosse definito e durevole. Nel 1882 l’Italia aveva bisogno di uscire dall’isolamento e in tal senso, per quanto criticata, la Triplice svolse la sua funzione. Negli anni successivi la situazione mutò così rapidamente da rendere possibile l’affiorare di nuovi scenari. Mancini aveva curato che il trattato del 1882 fosse accompagnato da una dichiarazione unilaterale italiana (fatta propria poco dopo anche dagli altri due alleati) nella quale si affermava che «in nessun caso» il trattato appena sottoscritto conteneva clausole che potessero apparire come dirette contro l’Inghilterra. Si trattava della riaffermazione di uno dei canoni fondamentali della politica mediterranea dell’Italia, che l’occupazione britannica dell’Egitto, poco dopo la firma della Triplice, avrebbe arricchito di significato. Rispetto ai dominatori del Mediterraneo, la diplomazia italiana avvertiva la necessità di un pieno allineamento. Il valore di questo allineamento non affiorò subito. Fu necessario che trascorresse un triennio perché nuovi allarmi relativi ai Balcani e alla politica mediterranea della Francia aprissero la via a una svolta che offriva all’Italia la possibilità di dare alla Triplice quel carattere dinamico che le pressioni (prima) e poi l’azione di Francesco Crispi divenuto poco dopo presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, auspicavano come premessa in tale direzione.
Infatti l’azione militare francese verso il Marocco, nel 1884, in un senso e, nel 1885 la crisi dell’Alleanza dei Tre Imperatori del 1873, quella austro-germanica del 1879, seguite da un breve conflitto tra Serbia e Bulgaria costrinsero il Cancelliere tedesco a non considerare più il fronte balcanico come un territorio marginale anche per la Germania e lo indussero a considerare la Triplice con maggiore interesse. Il trattato del 1882 aveva una durata di cinque anni, tacitamente rinnovabili. Sino al 1885 il suo rinnovo fu oggetto di dubbio ma dopo tale data si comprese che la diplomazia italiana aveva acquistato nuovi argomenti per fare valere le proprie tesi rispetto ai Balcani e al Mediterraneo. Nel febbraio 1887 tra Gran Bretagna e Italia venne raggiunto un accordo per il mantenimento dello status quo nel Mediterraneo orientale. Era, questa, un’iniziativa cautelare rispetto a qualsiasi iniziativa francese o russa. Tuttavia essa dimostrò al Bismarck e agli Austriaci che il ruolo dell’Italia meritava una maggior considerazione. Il primo rinnovo della Triplice, sottoscritto il 29 febbraio 1887, cioè poche settimane dopo l’intesa italo-britannica, mostrava la portata del cambiamento. Questo era indicato dall’aggiunta al testo tripartito di due accordi separati dell’Italia con la Germania (relativo all’ipotesi di una guerra separata fra l’Italia e la Francia e, soprattutto, al riconoscimento da parte tedesca di un interesse speciale dell’Italia verso Tripoli o verso il Marocco) e con l’Austria che impegnava le due parti al mantenimento dello status quo nei Balcani oppure alla concessione di «compensi reciproci» per ogni vantaggio territoriale che uno dei due paesi potesse ottenere in caso di mutamenti di tale status quo (una clausola che nel 1891 sarebbe stata inserita come articolo 7 nell’ulteriore rinnovo della Triplice e come tale, estesa anche alla Germania). Con l’arrivo, nell’ottobre 1885, del di Robilant al ministero degli Esteri si deve però rilevare che gli orientamenti tradizionali della Destra si ritrovavano integralmente nell’azione internazionale dell’Italia. Come Cavour e come Visconti Venosta, il di Robilant era un misurato realista, pronto a cogliere le occasioni opportune e, al tempo stesso, a evitare scontri non necessari. Nel 1882 aveva svolto con riluttanza il compito di stipulare, come ambasciatore a Vienna, la prima Triplice. Nel 1887 conosceva però tutte le incognite della situazione e comprendeva che ora il Bismarck avvertiva l’utilità di un vincolo più stretto con l’Italia ai fini della situazione balcanica e tenendo conto della ripresa nazionalista francese, messa in evidenza dalla nomina del generale Boulanger a ministro della guerra francese e dall’intensa eccitazione nazionalistica che la accompagnò.
Non toccò al di Robilant il compito di attuare il dinamismo implicito nel secondo trattato della Triplice, ma al Crispi, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri dal luglio 1887 al marzo 1889. Le radici repubblicane e rivoluzionarie del Crispi non gli impedirono di evolvere verso una sorta di nazionalismo dinamico. Crispi, per quanto facesse in politica interna, operò sul piano internazionale come il tramite della trasformazione da quella che gli appariva «timidezza» in «volontarismo» attivo, capace di sfruttare le occasioni per attuare le ambizioni delle quali egli si sentiva il portavoce. Del resto sin dal 1880 egli aveva dato notizia del suo intento di abbandonare le posizioni della Sinistra. Nel 1887 giudicava che il punto di forza di tale svolta sarebbe dovuto essere una collaborazione sempre più stretta con l’Austria non più nemica ma alleato necessario per l’Italia, e con il Bismarck, del quale egli era un ammiratore, e con il quale sperava di poter condurre l’Italia a un conflitto, combattuto dall’alleanza italo-tedesca contro la Francia, per recuperare Nizza e acquistare la Corsica. La convenzione militare del gennaio 1888, con la quale prevedeva l’invio di 200.000 militari italiani sul confine del Reno, qualora il conflitto si fosse concentrato lungo quella frontiera, esprimeva la durezza dell’impegno antifrancese e la volontà di fare in modo che in Europa e nel Mediterraneo il prestigio francese subisse ulteriori limitazioni. Queste mosse avevano un carattere nettamente antifrancese, e furono precedute dalla denuncia (dicembre 1886) del trattato di commercio italo-francese del 1881, seguita da una vera e propria guerra doganale che dal 1887 al 1889 caratterizzò i rapporti economici tra l’Italia e la Francia, mentre ebbe inizio un negoziato durante il quale Crispi cercò vanamente di ottenere profonde modificazioni, ma che invece, visto il declino drammatico delle esportazioni italiane nel successivo biennio, costrinse il ministro italiano a cambiare tattica, accettando un modus vivendi,durato sino al 1891. Tuttavia il presupposto di questa gallofobia, cioè l’ipotesi di uno show down in Europa, non era fondato. Ciò accentuò di conseguenza la determinazione crispina di agire in Africa per dare all’Italia quel carattere di «potenza coloniale» allora intrinseco alla definizione di «grande potenza». Una base italiana esisteva già in Africa dal 1873, quando la compagnia Rubattino aveva stabilito ad Assab (in Eritrea) un porto franco. Nel 1882, con il consenso britannico, il porto venne ceduto al governo di Roma. Esso divenne così il primo caposaldo italiano nell’Africa orientale. Nel febbraio 1885 forze italiane occuparono la città di Massaua. Crispi partì da questo circoscritto dominio per ampliare il controllo territoriale italiano in Eritrea e per avviare una penetrazione politico-militare in Etiopia. I limitati successi iniziali vennero poi ridimensionati da piccoli incidenti dalle enormi ripercussioni in Italia. Il culmine venne raggiunto tra il 2 maggio 1887, con la firma del trattato di Ucialli, buon esempio delle ambiguità del lessico diplomatico quando i testi vengono redatti in due lingue diverse. Per gli Italiani, Ucialli significava, in cambio di un prestito all’aspirante imperatore Menelik, la concessione all’Italia del protettorato sulla politica estera etiopica. Ma questa era una lettura che gli Etiopici avrebbero contraddetto alla prima buona occasione. La persuasione di godere di un completo appoggio britannico in quell’area spinse Crispi a accrescere le sue ambizioni. Tra il 1893 e il 1896 Crispi (quando ritornò al governo dopo una parentesi iniziata nel febbraio 1891) cercò di imporre al riluttante Menelik l’interpretazione italiana del trattato di Ucialli. Fallita la diplomazia, passò all’uso della forza andando incontro a un disastro militare, con la sconfitta subita dagli Italiani il 28 febbraio 1896 ad Adua, per opera delle forze etiopiche (un evento dalle impensate ripercussioni in tutto il mondo coloniale) ma soprattutto naufragando in un disastro psicologico per le ripercussioni interne dell’umiliante sconfitta.
Adua segnò una svolta per la politica interna e per la politica internazionale dell’Italia. La carriera politica di Crispi fu bruscamente interrotta. Mentre la società italiana ribolliva dei sommovimenti che avrebbero portato alla crisi di fine secolo, il caposaldo della politica internazionale mostrò la fragilità dell’assunto sul quale esso era costruito. L’idea che l’appoggio delle potenze centrali e l’amicizia britannica potessero rafforzare la posizione dell’Italia si rivelò infondata. I critici della Triplice, i francofili che avevano colto la portata della trasformazione della Francia da repubblica reazionaria in repubblica democratica ebbero nuovi argomenti per far rinascere le loro proposte.
Dopo una breve parentesi, ritornò agli Esteri Emilio Visconti Venosta, quasi il simbolo della tradizione di continuità della politica estera della Destra italiana. A lui, a Giulio Prinetti, a Tommaso Tittoni, a Francesco Guicciardini, ad Antonino Paternò-Castello di San Giuliano toccò il compito di innovare senza sradicare l’alleanza grazie alla quale l’Italia era riuscita a consolidarsi in Europa. Innovare non significava certo abbandonare la Triplice ma significava riprendere relazioni amichevoli con la Francia, avviando un difficile percorso di equilibrio fra due estremi [cfr. Decleva 1971]. Alla politica di schieramento unilaterale teneva dietro ora una politica di oscillazioni, così consona alla tradizione italiana: dei «giri di valzer», avrebbe detto von Bülow. Le relazioni con la Francia vennero rapidamente normalizzate e, anzi, spinte sino all’estremo di essere quasi contraddittorie rispetto agli impegni inseriti nel trattato della Triplice. Nel settembre 1896 venne stipulata la convenzione relativa allo statuto degli italiani residenti in Tunisia, uno dei temi che avevano provocato più momenti di frizione. Era poi necessario evitare che la Francia, nel nuovo clima stabilitosi nel Mediterraneo e con il rovesciamento delle posizioni dell’Impero ottomano, sempre più vicine a quelle tedesche che a quelle britanniche, tentasse qualche colpo di mano verso il Marocco e l’Africa settentrionale. Se la Francia avesse occupato il Marocco, quale sarebbe stata la sorte degli impegni già inseriti nella Triplice? Il riavvicinamento alla Francia attutì, pur senza cancellarli, questi timori. Grazie all’opera di diplomatici francesi come Paul Cambon e Camille Barrère e all’attento lavorio del Visconti Venosta si giunse il 14-16 dicembre 1900 al primo accordo italo-francese, con il quale il governo di Roma riconosceva gli interessi francesi sul Marocco e quello di Parigi dichiarava il proprio disinteresse rispetto alla Tripolitania. Era tuttavia un accordo diseguale che doveva essere completato nel luglio 1902 dal nuovo e più esplicito trattato italo-francese che non solo ribadiva il carattere bilaterale dell’impegno assunto due anni prima ma aggiungeva che Francia ed Italia si promettevano «stretta neutralità» nel caso di aggressione ingiustificata. E, anzi, per la Francia si diceva qualcosa di più, poiché l’Italia prometteva la propria neutralità anche nel caso di una guerra presa per iniziativa francese «in seguito a una provocazione diretta». Non vi era contraddizione rispetto alla lettera della Triplice ma certo qualcosa strideva rispetto all’impegno italiano di restare neutrale nel caso di una guerra non difensiva ma provocata, a sua volta, da una «minaccia alla sicurezza». L’ambiguità era nelle cose e affiorò soprattutto durante la conferenza di Algesiras del 1905 relativa al futuro del Marocco. Una certa misura di aggressività tedesca apparve in modo evidente ma il Visconti Venosta, pur essendo solo il presidente della Conferenza senza ricoprire cariche governative, ebbe successo nell’affermare un ruolo autonomo dell’Italia.
Mentre da parte italiana si assumevano queste iniziative, il sistema europeo era profondamente cambiato. Alla fine dell’Ottocento, l’accordo franco-russo metteva fine all’isolamento francese. Nell’aprile 1904, superate le diatribe coloniali, Francia e Gran Bretagna stipulavano gli accordi che mettevano le basi alla cosiddetta Entente e nel 1907 anche il radicato dissidio anglo-russo trovava una tregua con gli accordi che definivano i limiti delle rispettive aree di influenza. A quel punto l’alleanza austro-tedesca del 1879, che aveva resistito a tutti gli urti diplomatici e che non poteva più considerarsi come il fondamento interno della Triplice, si trovava dinanzi a una poderosa forza capace di circondarla in tutto il mondo. L’Italia restava formalmente legata alla Triplice ma aveva così profondamente mutato le proprie inclinazioni da sottoscrivere, nell’ottobre 1909, il trattato di Racconigi, con la Russia imperiale: un trattato chiaramente inteso a delimitare l’azione austriaca nei Balcani, al quale da parte italiana si fece aggiungere anche la disponibilità russa a un’azione in Tripolitania. In altri termini, da parte italiana, normalizzata e irrobustita da nuovi accordi commerciali la relazione con la Francia, si ritornava alla tradizione di oscillazioni risolutive tra due blocchi sempre più coesi. La spinta dinamica alla situazione venne data dalla decisione austriaca di trasformare il diritto d’amministrazione sulla Bosnia-Erzegovina, ottenuto alla conferenza di Berlino del 1878, in piena annessione. Si trattava di una mossa che non modificava lo stato di fatto ma alterava il contesto giuridico dell’assetto balcanico. In tal senso essa poneva il problema dei compensi che gli italiani potevano chiedere, sulla base di quanto disponeva il trattato della Triplice, dopo il rinnovo del 1887. Era, questo, un nuovo motivo di dissenso che preannunciava la crisi finale dell’Impero ottomano e che, per quanto riguardava i rapporti italo-austriaci, accresceva l’influenza dell’irredentismo, cioè della propaganda per costringere l’Austria a cedere all’Italia Trento e Trieste, le «terre irredente». Dal 1909 la situazione europea continuò a deteriorarsi. I nazionalisti italiani premevano per una svolta radicale in senso antiaustriaco. Frattanto i Balcani furono investiti da un’ondata di guerra fra i piccoli stati nati sulle rovine dell’Impero ottomano. Da parte italiana si guardava all’Albania ma si preparava anche un’azione in Tripolitania. Questa venne resa più urgente nel 1911, dopo che i Francesi ebbero esteso il loro protettorato sul Marocco. Il nuovo ministro degli Esteri nel quarto governo Giolitti, marchese di San Giuliano propugnò una spedizione in Tripolitania che ebbe inizio il 29 settembre 1911 e fu rapidamente conclusa dopo una simbolica resistenza ottomana. Non era ancora una vera e propria annessione, che sarebbe stata possibile solo dopo il 1919, ma essa era un altro colpo al vacillante prestigio del Sultano di Costantinopoli, costretto alla pace nell’ottobre 1912 con la concessione all’Italia del diritto di occupare il Dodecanneso come pegno per l’adempimento completo del trattato del 1912.
Lo scoppio della Prima guerra mondiale, nel giugno 1914 mise l’Italia nella condizione di scegliere tra la coerenza con la Triplice o l’alleanza con l’Occidente. In realtà non esistevano obbligazioni giuridiche che vincolassero l’Italia agli Imperi centrali, dato che la guerra non era iniziata per aggressione francese. Si trattava dunque di scegliere secondo il criterio del maggior vantaggio. È ben noto che gli Italiani esitarono per quasi un anno tra le proposte austriache a Giolitti e la spinta nazionalistica per un intervento accanto alle potenze occidentali. Il patto di Londra del 26 aprile 1915 aprì la strada alla guerra contro l’Austria e, un anno dopo, contro la Germania. Ultima delle grandi potenze, l’Italia dovette compiere uno sforzo oneroso per affrontare le difficoltà di un conflitto dal quale rischiò di uscire sconfitta. In quei mesi le diatribe fra gli schieramenti politici furono assorbite dall’idea nazionale. Nemmeno il Partito socialista riuscì a frenare gli entusiasmi bellicistici. Anzi, dopo la sconfitta di Caporetto (ottobre 1917) tutte le forze politiche e culturali del paese si ritrovarono nell’ideale di difesa della patria, componendosi, forse per la prima volta, in una visione unitaria che superava le distinzioni postrisorgimerntali ma che sarebbe durata ben poco: solo fino all’inizio della Conferenza della pace di Parigi, nel febbraio 1919.
Bibliografia
L’Italia in cammino. L’ultimo cinquantennio, Laterza, Roma-Bari 1991.