Senato – Regolamenti (1848-1947)
di Fabrizio Rossi
Nel maggio 1848 le Camere subalpine non elaborano autonomamente i propri regolamenti come prescrive lo Statuto, ma si limitano ad approvare nella prima seduta i «regolamenti provvisori» redatti dal governo Balbo (soluzione adottata innanzitutto per evitare che la discussione sui regolamenti ostacoli le importanti decisioni politiche e militari che attendono il Parlamento mentre il paese è in guerra con l’Austria). I regolamenti compilati in fretta dal governo nei due mesi che intercorrono tra la pubblicazione dello Statuto e la prima riunione delle Camere ricalcano i regolamenti parlamentari francesi e belgi. Questa scelta è dettata dalla loro più ampia diffusione rispetto ai regolamenti inglesi (raccolti per la prima volta in forma organica da Erskine May solo nel 1844) e dalla maggiore conoscenza del francese (anche lo Statuto è redatto in quella lingua, comunemente parlata a Corte e nelle regioni di Nizza e Savoia, e solo da ultimo tradotto in italiano). Le «pressanti necessità» del tempo impongono dunque a Balbo (grande ammiratore, come del resto Cavour, della tradizione parlamentare inglese) di adottare «un regolamento provvisorio tolto di botto dal franco-continentale» [Balbo 1857, p. 331].
Il regolamento del 1848 è una sorta di «mosaico» di norme derivanti dai regolamenti parlamentari della Monarchia di Luglio e del neonato Stato belga. All’interno di questo «mosaico» la presenza fondamentale spetta comunque al regolamento della Camera dei deputati francese del 1839 da cui provengono la maggior parte delle norme sull’organizzazione in «Uffici», sulla procedura di esame delle leggi, sulla discussione e votazione, mentre le norme sull’Ufficio di Presidenza, sulle deputazioni e sugli indirizzi, sulla polizia dell’Assemblea e delle tribune, si ritrovano più o meno nella stessa misura nei regolamenti francesi e belgi. Le poche norme sulle Commissioni permanenti Finanze e Agricoltura derivano dal Regolamento della Camera belga del 1831. Infine la gran parte delle norme sull’amministrazione interna, che fino al 1929 continueranno a fare parte del regolamento generale e non di un apposito regolamento speciale, provengono dai regolamenti belgi.
La caratteristica fondamentale del regolamento del Senato (come del resto quello della Camera) è la strutturazione in «Uffici», «scelti mediante sorteggiotra tutti i senatori» all’inizio di ogni sessione, di «durata temporanea» (un mese), e «competenti su ogni progetto di legge». I cinque Uffici del Senato esaminano il progetto di legge e nominano ciascuno un commissario. I cinque commissari formano un Ufficio centrale che esamina nuovamente il progetto nominando a sua volta un relatore per riferire all’Assemblea. Gli Uffici caratterizzeranno il Parlamento sub-alpino e poi anche quello del Regno d’Italia (diventeranno sette nel 1920) in modo specularmente «opposto» al Parlamento dell’Italia repubblicana, che è invece organizzato in «Commissioni designate su base politica» dai Gruppi parlamentari, «di durata permanente e competenti solo su determinate materie».Tuttavia anche nel regime statutario si svolge sin dall’inizio un intenso dibattito su quale sia il modello migliore per la funzionalità del Parlamento. Se appunto il sistema francese degli Uffici, quello britannico delle tre letture (con l’Assemblea che in seconda lettura si trasforma nel Comitato generale privato, una sorta di «Commissione speciale che si recluta da se stessa fra i competenti») oppure quello americano delle Commissioni permanenti, competenti per materia [Racioppi, Brunelli 1909, III, pp. 94-98].
La differenza tra il modello francese e quello anglosassone investe la concezione stessa del Parlamento. Quest’ultimo deve cioè funzionare sulla base di una rappresentanza «atomistica e indifferenziata» (la «classe dei migliori» selezionata dal Paese) che concorre nella sua globalità alla formazione delle leggi e dell’indirizzo politico secondo la concezione della rappresentanza come «funzione dello Stato» [cfr. Orlando 1886]. Oppure deve funzionare sulla base di una rappresentanza «divisa» in partiti che assume decisioni legislative e politiche tendenzialmente a maggioranza secondo una concezione della rappresentanza come «delega di potere da parte della società»? Il metodo del sorteggio degli Uffici sembra rispondere alla prima concezione, il metodo della scelta del Comitato generale privato (o delle Commissioni) alla seconda.
Ma il raffronto fra gli Uffici e il Comitato (o le Commissioni) mette in luce anche un’altra differenza. I sostenitori del metodo del sorteggio degli Uffici (che garantisce la partecipazione di tutti i parlamentari alla discussione di tutte le leggi) sottolineano il suo carattere «democratico», più adatto ad un’Assemblea politica. I fautori del metodo della scelta del Comitato o delle Commissioni (che consente l’esame delle leggi da parte dei più competenti) mettono in luce la sua capacità di valorizzare le qualità dei parlamentari, attribuendo al Parlamento una connotazione più «tecnica». La questione rimanda al tema più ampio della funzione del parlamentare: egli deve cioè essere un «politico di professione» che si occupa a tempo pieno di ogni aspetto della politica (magari, come vuole la Sinistra, anche retribuito, sebbene lo Statuto vieti qualsiasi indennità) oppure deve conservare uno stabile legame con la società, rappresentando quelle competenze e quelle esperienze che emergono da quest’ultima e che devono rifluire, arricchendola, nella politica? Nella critica al sistema degli Uffici il Senato (nominato all’interno di «categorie» statutarie che esprimono i ceti eminenti della società) tenderà a valorizzare il tema della competenza, la Camera (eletta sulla base di scelte politiche) tenderà a mettere in risalto l’esigenza della distinzione in «partiti».
Il regolamento del ’48 tuttavia, accanto agli Uffici, non esclude, come si è detto, la presenza di due Commissioni permanenti competenti per materia, elette dall’Assemblea, le Commissioni Agricoltura e Finanze (dal 1861 rimarrà solo quest’ultima). Inoltre prevede la possibilità di istituire Commissioni speciali per l’esame di determinati progetti di legge (di solito quelli di maggior mole o più «tecnici» come i codici). Il ricorso al sistema degli Uffici rimarrà comunque, per tutta l’età statutaria, di gran lunga prevalente. La procedura d’esame è infine diversa per i progetti di legge governativi (subito assegnati agli Uffici o alle Commissioni permanenti o speciali) e per le proposte di iniziativa dei senatori (sottoposte a un «doppio» vaglio: prima l’autorizzazione alla pubblica lettura da parte degli Uffici e il voto di «presa in considerazione» da parte dell’Assemblea, poi l’esame di merito vero e proprio). Per quanto riguarda l’altra importante funzione del Parlamento, quella del «controllo» politico sull’attività di governo, il regolamento del 1848 non prevede (come peraltro i coevi regolamenti francesi e belgi) l’istituto delle «interpellanze»che tuttavia nella prassi sono largamente discusse, concludendosi spesso con la votazione di un ordine del giorno di approvazione o di censura dell’operato del governo. Il regolamento non disciplina neppure le «petizioni», anch’esse molto frequenti, funzionando come una sorta di «surrogato e correttivo» di un corpo elettorale ristretto (essendo diritto garantito dallo Statuto a tutti i cittadini maggiorenni che possono esporre problemi e chiedere provvedimenti al governo e al Parlamento). La discussione sui progetti di legge, interpellanze, petizioni e ogni altro argomento è del tutto «inarticolata». Se l’Assemblea acconsente, è previsto che si possa parlare, senza limiti di tempo, più di due volte nella stessa discussione ma soprattutto, mediante la richiesta di parola per fatto personale, in qualunque momento. Anche il relatore e il rappresentante del governo possono intervenire più volte nella discussione che resta dunque assai libera risentendo del clima di entusiasmo che circonda le nuove istituzioni rappresentative. L’unica norma di «freno» è quella sulla «chiusura» che può essere avanzata da otto senatori. Infine il modo di votazione ordinario è quello per «alzata e seduta»,ma otto senatori possono chiedere lo «scrutinio segreto» (obbligatorio per il voto finale dei progetti di legge secondo quanto previsto dallo Statuto) e il «voto nominale ad alta voce».
Il regolamento del 1850, il primo adottato «autonomamente» dal Senato, «codifica» soprattutto la prassi dei due anni precedenti. Sono infatti disciplinate le interpellanze e le petizioni ed è regolamentato il «fatto personale» (circoscritto ora alla mera rettifica di fatti o parole erroneamente attribuiti al senatore e non più riferito genericamente alle opinioni espresse). Una modifica importante, che durerà fino al 1900, è l’abolizione del voto nominale ad alta voce, dettata principalmente dall’esigenza dei senatori di non essere apertamente «individuati» nel caso di un voto contrario all’esecutivo. Essi infatti, per circa 2/3 provenienti dall’alta burocrazia statale, dipendono dal governo non solo per la nomina ma anche per il prosieguo della «carriera». L’approccio «pragmatico» di «codificazione» della prassi e di innovazioni dettate dall’esperienza (ma forse anche la maggiore sensibilità di un’Assemblea altamente qualificata nei confronti della «normazione») consente al Senato di adottare il suo regolamento «definitivo» già nel 1850. La Camera invece, alle prese con una riforma «organica» del regolamento, dividendosi tra favorevoli e contrari al sistema degli Uffici fallisce nel suo intento nel 1850 e nel 1856, approvando il suo primo regolamento solo dopo l’Unità, nel 1863.
Il regolamento del 1861 è in sostanza una riscrittura più accurata del regolamento del 1850, anche per consentire che le norme regolamentari siano approvate dal nuovo Senato «nazionale» dopo le massicce «infornate» di senatori del ’60 e del ’61 che «allargano» l’Assemblea vitalizia prima ai rappresentanti della Lombardia, Emilia e Toscana e poi a quelli delle province centro-meridionali.
La modifica regolamentare del 1872 introduce la Commissione per la verifica dei titoli di ammissione dei senatori che sostituisce la procedura di convalida attraverso gli Uffici, causa di due inconvenienti: la partecipazione di pochissimi senatori (tre erano sufficienti per la decisione del singolo Ufficio) e la mancanza di una giurisprudenza uniforme. La relazione della Commissione sulla convalida del senatore, se favorevole, è approvata dall’Assemblea in seduta pubblica, se contraria è votata in Comitato segreto a scrutinio segreto (norma che tutela il neo-senatore ma che garantisce anche l’«indipendenza» del voto del Senato sulla nomina governativa).
Il regolamento del 1883 è importante soprattutto per il nuovo articolo 10 che cerca di affidare alla collaborazione tra il Consiglio di Presidenza e il governo la soluzione dell’annoso problema del riequilibrio dell’attività legislativa tra i due rami del Parlamento tutta orientata, come diremo più avanti, a favore della Camera. Il regolamento attraverso la nuova norma mira fra l’altro a far iniziare le leggi di spesa anche al Senato. L’Assemblea vitalizia, in quanto non elettiva e quindi svincolata dai rapporti clientelari e localistici del trasformismo, si ritiene infatti più adatta a controllare la legislazione di spesa che, adottata negli ultimi anni dalla Camera spesso senza un’adeguata copertura finanziaria, ha fatto riemergere il disavanzo. L’articolo 10 tuttavia rimarrà inapplicato. Il regolamento prevede poi uno snellimento delle procedure elettorali relative agli Uffici, agli Uffici centrali e alle Commissioni permanenti per evitare le lungaggini che può comportare l’elezione a maggioranza dei votanti. Per l’elezione del Presidente, Vicepresidente e segretario degli Uffici è ora prevista la sola maggioranza relativa. Per la nomina e la costituzione degli uffici di Presidenza, degli Uffici centrali e delle Commissioni permanenti, in mancanza della maggioranza dei votanti nella prima votazione si procede subito al ballottaggio tra i candidati più votati nel primo scrutinio. Infine, vengono ampliati i compiti della Commissione Finanze a cui è affidato anche l’esame dei decreti registrati con riserva dalla Corte dei Conti (segnale dell’importanza assunta dalla Commissione che, guidata da Saracco, ha condotto la lunga opposizione del 1879-’80 alla legge sull’abolizione dell’imposta sul macinato).
Il regolamento della Camera del luglio 1900 prevede norme antiostruzionistiche (sebbene in misura minore rispetto a quelle proposte dalla precedente maggioranza di governo nell’aprile dello stesso anno) risentendo della battaglia parlamentare di fine secolo condotta dall’Estrema che utilizza tutti gli strumenti regolamentari per contrastare i provvedimenti liberticidi del governo Pelloux.
Il regolamento adottato nel 1900 dal Senato, che non conosce l’esperienza dell’ostruzionismo, non prevede invece alcuna norma anti-ostruzionistica (le differenze fra i regolamenti delle due Camere del 1900 si riverberano ancora oggi nel Parlamento repubblicano: ad esempio al Senato si può chiedere la verifica del numero legale prima dell’approvazione del processo verbale, alla Camera no). Sono invece introdotte norme che tendono a rafforzare l’autorità «politica» dell’Assemblea. Dopo 50 anni è di nuovo previsto l’appello nominale palese, voto politico per eccellenza (usato alla Camera nelle votazioni di fiducia) ma da sempre ritenuto non adatto al Senato, di nomina governativa e vitalizio (senza quindi la necessità di rispondere dei suoi voti agli elettori) e Assemblea che per consuetudine non può «fare crisi» (senza quindi il compito di dover indicare «nominalmente» alla Corona eventuali maggioranze di governo). Ma nel 1900, in un Senato composto ormai per più del 40 per cento di exdeputati e di fronte a un’opinione pubblica più ampia e matura, il voto palese nominale non può più essere rifiutato (nel dopoguerra sarà usato in due eccezionali «voti di fiducia» al governo Bonomi nell’agosto ’21 e al governo Mussolini nel giugno ’24, quest’ultimo di grande importanza perché consente al re di confermare un «traballante» Presidente del Consiglio dopo la crisi provocata dal delitto Matteotti). Viene inoltre finalmente sancito il divieto della prassi di prestare giuramento (di solito nella seduta inaugurale congiunta della sessione) prima della convalida da parte dell’Assemblea, prassi che di fatto privilegiava la «nomina regia» (del governo) rispetto alla «convalida» del Senato. Si introduce infine, come facoltativo, il sistema delle Tre letture già previsto alla Camera nel 1888. Questo vecchio cavallo di battaglia di Crispi (ma da sempre sostenuto trasversalmente da esponenti di destra e di sinistra), come si è detto, avrebbe dovuto far emergere la distinzione fra maggioranza e minoranza, valorizzando anche la competenza, ma nella prassi, anche dopo il 1900, il sistema degli Uffici rimane predominante. Per quanto riguarda il sindacato ispettivo va segnalato il timido tentativo di disciplinarne l’uso come era stato fatto alla Camera nel 1887-’90. Le riforme Bonghi infatti «razionalizzano» nell’altro ramo del Parlamento lo svolgimento delle interpellanze (il lunedì di ogni settimana) e delle interrogazioni (i primi 40 minuti di ogni seduta), limitando così il largo ricorso agli strumenti «di controllo» sull’attività di governo che tendevano a occupare gran parte dei lavori a scapito della funzione legislativa, mettendo anche a repentaglio la stabilità dell’esecutivo nel caso in cui l’interpellanza si concludesse con un voto. Al Senato una proposta analoga non va invece in porto perché nell’Assemblea vitalizia si registra piuttosto il fenomeno opposto. Se la Camera, con lo svolgimento delle interpellanze «a data fissa», intende assicurare la «continuità» del lavoro legislativo evitando le frequenti interruzioni provocate dal sindacato ispettivo, in Senato, al contrario, è proprio la mancanza di «continuità» dell’attività legislativa (per lo squilibrio che si è detto nella distribuzione delle leggi tra i due rami del Parlamento) che impedisce, con l’interruzione dei lavori, il regolare svolgimento delle interpellanze.
In età giolittiana, la progressiva «politicizzazione» del Senato si avverte in una serie di modifiche regolamentari, adottate soprattutto su impulso del giurista ed ex-deputato Arcoleo. Su sua proposta nel 1906 è istituita la Commissione permanente per il regolamento (composta da sette membri, compreso il Presidente del Senato che la presiede), per dare coerenza e uniformità all’esame delle proposte di modifica regolamentare fino ad allora soggette a procedure disparate (esame istruttorio affidato a Commissioni ad hoc, al Consiglio di Presidenza, a Commissioni permanenti). Nel 1910 viene introdotto, a garanzia delle minoranze, il voto limitato (cioè la designazione di un numero minore di candidati rispetto ai posti da coprire) per l’elezione delle Commissioni permanenti e dei segretari della Presidenza, segnale che anche in Senato, se non proprio «partiti», sono ormai presenti tendenze politiche che si sente il bisogno di tutelare. Il voto palese nominale, superando la vecchia soggezione nei confronti del governo (le nomine «burocratiche» sono peraltro ormai ridotte a poco più di 1/3 del totale) diventa addirittura prevalente nel concorso con la richiesta del voto per divisione o segreto. Ciò – come osserva Arcoleo – a sottolineare la «qualità di chi vota contrapponendo il valore al numero» e assumendo la responsabilità del voto non sotto «il vincolo degli elettori» ma «dinanzi al Paese» [Commissione per il regolamento interno 1910, p. 2]. Tuttavia sulle proposte di urgenza avanzate dal governo (salvo sui bilanci e sulle scadenze di termini), si ricorre al voto segreto obbligatorio, considerato ancora l’arma più efficace nei confronti dell’esecutivo, che continua a mandare alla Camera i suoi progetti di legge, trasmessi poi al Senato spesso solo poco prima della pausa estiva o invernale, con la pretesa (sotto la pressione appunto dell’urgenza) di un’immediata approvazione. Durante il conflitto e nel primo dopoguerra la tendenza alla «politicizzazione» del Senato si avverte anche nell’ampliamento degli strumenti di controllo e indirizzo. Nel 1917 sono introdotte le interrogazioni orali e scritte e nel 1920 le mozioni. Nel 1919 un’altra importante conquista «politica» è il voto dell’Assemblea per la «designazione» alla nomina regia del Presidente e dei Vicepresidenti (di fatto un’elezione, chiamata rispettosamente «designazione» solo per non contraddire apertamente lo Statuto).
Com’è noto, la riforma elettorale proporzionale con scrutinio di lista del 1919 (che segna la definitiva affermazione dei partiti organizzati) influenza profondamente il regolamento della Camera del 1920 che abolisce il sistema degli Uffici istituendo i Gruppi parlamentari (gruppi politici di almeno venti deputati) e le Commissioni permanenti, competenti per materia, composte da membri designati dai Gruppi in ragione proporzionale alla loro consistenza numerica (tale innovazione è destinata peraltro a durare solo pochi anni perché nel 1924 il regime fascista, contrario alla strutturazione «partitica» della Camera, ripristina gli Uffici). Il Senato, di nomina regia e vitalizio, non subisce i contraccolpi della riforma elettorale e conserva il sistema degli Uffici. Tuttavia nel 1920 viene istituita una nuova commissione permanente per la politica estera, anche a seguito delle polemiche degli anni di guerra sulla diplomazia «segreta» del governo. Sempre nel 1920, altro esempio della «politicizzazione» in corso, è introdotta l’indennità parlamentare (per la Camera si era provveduto con legge già nel 1912 e nel 1925 una nuova legge fisserà l’indennità per entrambe le Camere comportando l’abrogazione della norma regolamentare del Senato). Infine, nel 1922 va segnalata la modifica che attribuisce alla Commissione Finanze (composta ora da trenta membri) una funzione «filtro», prevedendo il suo parere obbligatorio per gli emendamenti che comportano aumento di spesa o diminuzione di entrate, riprova della tradizionale attenzione del Senato agli equilibri di bilancio.
Questa, in sintesi (tralasciando modifiche minori e quelle riguardanti l’amministrazione interna) è l’evoluzione dei regolamenti del Senato dell’Italia liberale. Ma per capire il concreto funzionamento dell’Assemblea vitalizia non è sufficiente affidarsi alle sole norme regolamentari. Basti pensare, per citare i due esempi più importanti, che il numero legale e l’organizzazione dei lavori sono disciplinati nella prassi, peraltro in contrasto con la lettera delle disposizioni statutarie. Il Senato, per il tradizionale ossequio nei confronti dello Statuto (che stabilisce il numero legale nella maggioranza dei componenti delle Camere) non disciplinerà mai nel regolamento (come farà invece l’altro ramo del Parlamento) il numero legale più «basso» che viene subito adottato nella prassi. Infatti, per fronteggiare l’assenteismo, dovuto «alle ragioni dell’età» ma soprattutto agli impegni lavorativi dei senatori-pubblici funzionari che all’inizio costituiscono più del 60 per cento dell’Assemblea vitalizia, dal calcolo della maggioranza dei componenti sono scomputati gli «assenti giustificati» (fino a tre giorni), gli assenti che hanno ottenuto «congedo» dal Senato (fino a tre mesi), gli assenti «per malattia» o «per ragioni di pubblico servizio». Per quanto riguarda invece l’organizzazione dei lavori, nonostante il tentativo del regolamento del 1883 di sanare lo squilibrio dell’attività legislativa tra le due Camere, il Senato continuerà ad avere lunghi periodi di inattività per la cronica mancanza di progetti di legge presentati dal governo o trasmessi dall’altro ramo del Parlamento. Ciò è dovuto all’interpretazione estensiva data dal governo all’articolo 10 dello Statuto secondo cui devono essere presentate «prima»alla Camera non solo le leggi di bilancio e di imposta ma anche tutte quelle che comportano spese, il che significa la stragrande maggioranza delle leggi.
quasi permanente, composto di un nucleo di 60-70 membri che si recluta precipuamente tra i senatori residenti in Roma ai quali appartengono quasi di diritto le funzioni di membri delle varie Commissioni. E il «gran Senato», cioè la dieta delle grandi occorrenze che accorre in Roma una o due volte l’anno quando una legge di alta importanza o qualche grande contingenza politica li chiama là» [Guarneri 1886, pp. 24-25.]. Questo dato, per il periodo dal 1870 al 1900, è peraltro confermato anche dallo spoglio dei registri delle presenze dei senatori [Grassi Orsini, Campochiaro (a cura di) 2009, I, pp. DLVIII-DLXV]. Ma lo stesso fenomeno si verifica anche in precedenza, nelle altre due capitali del Regno d’Italia, Torino (dove anzi è amplificato per la grandi distanze che separano la Sicilia e il resto del Mezzogiorno dal Piemonte, costringendo spesso i senatori meridionali anche a lunghi viaggi in nave) e Firenze.
Con l’avvento del fascismo, che non abroga ma altera profondamente lo Statuto, il Senato dell’Italia liberale sopravvive solo per qualche anno. Le modifiche che tengono conto della concezione autoritaria del regime sono infatti introdotte con il regolamento del 1929. Esso, richiamando espressamente la legge del dicembre ’25 sulle attribuzioni del Capo del governo, prevede che «senza l’adesione» di quest’ultimo non si possa stabilire l’ordine del giorno. Il Capo del governo inoltre può chiedere che un disegno di legge respinto sia iscritto, dopo tre mesi, all’ordine del giorno dell’Assemblea e votato, senza discussione, a scrutinio segreto, evitando l’esame preliminare degli Uffici o delle Commissioni. L’istituzione della Commissione per i decreti-legge risponde invece alla necessità di avere una sede particolare e una procedura rapida per l’esame della grande mole dei decreti-legge disciplinati dalla legge del gennaio ’26 sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche. Viene soppresso il sistema delle tre letture (che, seppure poco usato, comportava una potenziale distinzione tra maggioranza e opposizione) e viene abolita la Commissione permanente più «politica», quella per la politica estera, ricondotta entro i confini meramente «tecnici» di una Commissione per i trattati di commercio e le tariffe doganali. Inoltre viene soppresso, per l’elezione delle Commissioni permanenti, il voto limitato a tutela delle minoranze che, presupponendo «l’organizzazione dei partiti», non risponde più alla «concezione totalitaria dell’ordinamento dello Stato» [Commissione permanente per il regolamento interno 1929, p. 6]. Nel 1933 è infine abolita anche la «designazione» da parte dell’Assembla del Presidente e dei Vicepresidenti, la cui nomina torna quindi interamente nelle mani del re (cioè del governo).
La definitiva «fascistizzazione» del Senato avviene con il regolamento del 1938 (ridotto ormai a soli 58 articoli). Il Presidente, in linea con il principio «autoritario» del regime, diventa il vero dominus dell’Assemblea vitalizia (nomina infatti i questori e i segretari, tutte le Commissioni e i relativi uffici di Presidenza). La funzione legislativa è fortemente limitata (gli emendamenti non accettati dal governo si intendono ritirati a meno che non siano appoggiati da 30 membri e le proposte di legge dei senatori devono essere «autorizzate» dal Capo del governo) e così pure quella ispettiva (sono soppresse le interpellanze e le mozioni, le interrogazioni orali non sono più poste automaticamente all’ordine del giorno della seconda seduta successiva alla loro presentazione ma della seduta indicata dal governo). Peraltro tali «limitazioni» non sono neanche più avvertite come tali in un’Assemblea in cui quasi tutti i senatori hanno ormai aderito al fascismo (nel 1939 su un totale di 527, 459 appartengono all’Unione nazionale fascista del Senato) [cfr. Gentile 2002, p. 106].
La grande innovazione regolamentare del 1938 è l’abbandono del sistema degli Uffici e l’adozione delle Commissioni permanenti. La legge del 19 gennaio 1939, che istituisce la Camera dei Fasci e delle Corporazioni ma detta norme anche per il Senato, prevede infatti per entrambe le Camere l’istituzione di «Commissioni legislative» competenti per materia (che corrisponderanno grosso modo alle attività dei vari ministeri). Esse, però, oltre alla funzione referente, hanno anche quella deliberante, possono cioè approvare definitivamente le leggi (salvo i disegni di legge in materia costituzionale, le deleghe legislative, i bilanci e i consuntivi).
Con il regolamento del 1938 si assiste quindi a un doppio paradosso, di metodo e di merito. Sotto il profilo del metodo il regolamento del Senato è approvato il 21 dicembre 1938, cioè «prima» della definitiva approvazione della legge del 19 gennaio 1939 che pure detta le «nuove» norme sulla organizzazione regolamentare delle Camere (a riprova della mancanza di qualsiasi scrupolo procedurale da parte del regime). Sotto il profilo del merito le Commissioni permanenti competenti per materia, invocate in età liberale come uno dei possibili rimedi di fronte al malfunzionamento del Parlamento, sono istituite invece, in tutt’altro contesto politico, quello autoritario e tecnocratico del fascismo, con la legge che sancisce la formale soppressione della Camera elettiva (peraltro, come è noto, per un altro paradosso della storia, l’«invenzione» procedurale della loro funzione deliberante è ripresa dalla Costituzione democratica dell’Italia repubblicana).
Il Senato regio, che dopo la caduta di Mussolini viene colpito dalla «epurazione» prevista dalla legge sulle sanzioni contro il fascismo, cessa dalla sue funzioni in base al decreto presidenziale del 24 giugno 1946 e viene definitivamente soppresso dall’Assemblea costituente con la legge costituzionale del 3 novembre 1947.
Bibliografia
I regolamenti del Senato regio (1848-1900). Storia, norme e prassi (in corso di pubblicazione presso l’editore Rubbettino).