Statalismo
di Luigi Marco Bassani
Lo statalismo è un sistema di governo nel quale il controllo dell’economia è, direttamente o indirettamente, affidato allo Stato. Esso può sfociare in una sorta di «capitalismo di Stato», quando l’economia è controllata e pianificata, oppure, nella sua versione estrema, nel socialismo, quando la nazionalizzazione dei mezzi di produzione diventa totale o prevalente. Lo statalismo si riferisce anche alle preferenze di coloro i quali reputano le decisioni collettive dei funzionari pubblici aprioristicamente migliori di quelle dei singoli individui sul mercato.
Seppur tipicamente utilizzato in relazione all’intervento dei pubblici poteri nella libera economia, il termine statalismo può intendersi in maniera assai estesa e non confinato alla sola sfera economica. Tutti coloro i quali invocano l’intervento pubblico per regolamentare, dirigere, incanalare qualunque settore della vita associata sono, a rigor di termini, statalisti. Così vi possono essere molti casi limite o paradossi «ideologici»: se da un lato non è raro, soprattutto in Italia incontrare statalisti in economia che si professano liberali nella vita sociale, in America si incontrano anche molti conservatori sociali, favorevoli cioè ad un forte impiego dell’apparato coercitivo statale per punire comportamenti socialmente eterodossi, i quali sono però liberali nelle loro preferenze di politica economica.
Sturzo, che si definiva «liberista temperato», era convinto che «la soppressione della libertà economica importa[sse] presto o tardi la perdita delle altre libertà […] [giacché] la libertà è totale o non è libertà» [Sturzo 1954b]. In ultima analisi, «l’errore fondamentale dello statalismo è quello di affidare allo Stato attività a scopo produttivo, connesse a un vincolismo che soffoca la libertà dell’iniziativa privata» [Sturzo 1955]. La polemica del fondatore del Partito popolare era volta a mettere in guardia i suoi amici dalla «degenerazione dello Stato», che sembrava essere un sottoprodotto quasi inevitabile della riacquistata libertà. Occorre, infatti, distinguere nettamente «statalismo» da «statualismo», due termini che non vanno neanche considerati affini. Mentre lo statualismo – ossia la convinzione che il modello dello Stato di diritto, così come si è consolidato nell’area euro-atlantica, sia la migliore forma possibile di governo delle convivenze umane – si accompagna non di rado a una visione politica liberale classica, lo statalismo, in quanto preferenza aprioristica per l’intervento dei pubblici poteri, è in netta contraddizione con la dottrina liberale. La battaglia liberista dei primi anni del Novecento in Italia, per esempio, si svolgeva fra «statualisti» e «statalisti». Economisti liberali quali Antonio De Viti De Marco e Vilfredo Pareto chiedevano, in sostanza, allo Stato di essere fedele alle proprie premesse teoriche, promulgando solo leggi generali e astratte, non rivolte a favorire un gruppo di imprese o di individui. Se essi combattevano le dottrine economiche imperanti, con pari forza conducevano una battaglia contro i privilegi e per il rispetto dello Stato di diritto.
ivi, pp. 369-371]
Questa dicotomia si palesa come uno dei «marchi di fabbrica» del pensiero liberale italiano, sia precedente sia posteriore a Croce, che non fece che fornire una sistemazione teorica a ciò che già circolava. In fondo, parte della Destra storica (si pensi a Spaventa) declinò la propria versione del liberalismo muovendo da Hegel e anche coloro che, come Minghetti, erano molto più aperti alle influenze della cultura politica anglosassone, non si mostravano meno inclini a riconoscere nello Stato il vero e unico motore del progresso economico e politico. Lo stesso discorso vale per Giolitti, che peraltro secondo Einaudi restava «quel primo ministro che, forse unico tra i presidenti italiani del Consiglio dal 1848 in poi, ha saputo mantenere immacolata la verginità del suo spirito da ogni contatto con la scienza scritta sui libri», soprattutto con la scienza economica [Junius (L. Einaudi) (1917) 1920, p. 15]. Proprio Luigi Einaudi avrebbe cercato di estirpare dal seno del liberalismo italiano la pregiudiziale statalista. In una nota replica a Croce egli affermava:
La libertà del pensare è dunque connessa necessariamente con una certa dose di liberismo economico. […] La concezione storica del liberismo economico dice che la libertà non è capace di vivere in una società economica nella quale non esista una varia e ricca fioritura di vite umane vive per virtù propria, indipendenti le une dalle altre, non serve di un’unica volontà. In altri termini, e per non lasciare aperta alcuna via al rimprovero di far dipendere la vita dello spirito dall’economia, lo spirito libero crea un’economia a se medesimo consona e non può creare perciò un’economia asservita ad un’idea, qualunque essa sia, imposta da una volontà, per definizione e per ragion di vita, intollerante di qualsiasi volontà diversa [Einaudi (1931) 1973, vol. I, p. 228]
Croce, dal canto suo, giungeva ad affermare che «il liberalismo non coincide con il cosiddetto liberismo economico, con il quale ha avuto bensì concomitanze e forse ne ha ancora, ma sempre in guisa provvisoria e contingente» e che «né esso può rifiutare in principio la socializzazione […] né l’ha poi sempre rifiutata nel fatto […] e solamente esso la riprova e la contrasta in casi e dati particolari, quando è da ritenere che arresti o deprima la produzione della ricchezza» oppure, ben più importante, quando sia veicolo «non di un accrescimento di libertà nel mondo, ma di una diminuzione e di un’oppressione che è imbarbarimento o decadenza: giacché solo nella capacità o meno di promuovere libertà e vita è il criterio di giudizio per qualsiasi riforma» (Croce [1932] 1993, pp. 48-49]. Ancora una volta lo Stato viene posto a fondamento di questa ben bizzarra forma di «liberalismo».
La posizione di Croce risultava tuttavia vincente all’interno della storia italiana, com’è agevole notare leggendo gli scritti dei suoi allievi diretti e indiretti quali De Ruggiero e Omodeo, Gobetti e Calogero. In realtà né Gobetti, né De Ruggiero sottovalutavano l’importanza della libertà economica, ma le rispettive declinazioni tradivano una preponderante influenza del paradigma statalistico. Per il giovane torinese il vero nemico, più dell’interventismo in sé, appariva il protezionismo e soprattutto il paternalismo riformista dei socialisti turatiani, che Gobetti incolpava di aver abbandonato «il materialismo storico e la teoria della lotta di classe, […] strumenti acquisiti per sempre alla scienza sociale» [Gobetti (1924) 1995, p. 63].
De Ruggiero, da parte sua, nell’imponente Storia del liberalismo poneva sì la libertà economica tra i concetti seminali del liberalismo, ma in consonanza con la propria matrice hegeliana precisava subito:
[1925] 1995, pp. 380-81].
Una notevole eccezione in questo panorama fu rappresentata da Carlo Antoni, secondo il quale «il liberalismo riguarda l’uomo in tutti i suoi aspetti, mirando a una società in cui siano rispettate tutte le sue attività positive» e per tale ragione occorre respingere la soluzione statalista procedendo anzi alla «difesa dell’economia di mercato», che deve essere considerata «momento vitale di ognuno» [Antoni (1955) 1967, pp. 231-232]. D’altro canto anche Ernesto Rossi, uno dei migliori discepoli di Einaudi, ebbe modo di chiarire che «l’economia di mercato è una condizione necessaria per la vita di quelle istituzioni democratiche che sole possono consentire il controllo dei cittadini sulla classe governante e per la difesa di quelle libertà che costituiscono il bene più prezioso della civiltà moderna» [Rossi 1954, p. 202].
Con l’elezione, nel 1954, di Malagodi a segretario del Pli qualcosa sembra cambiare. Proviene dalle organizzazioni internazionali, è un esperto di problemi finanziari e incline a concedere ben poco alle tentazioni stataliste della Dc e dei suoi alleati. Ma è soprattutto con l’avvento del centro-sinistra e della programmazione economica che si scatena la polemica liberale contro il soffocante statalismo: Leoni, Vinciguerra e Gentile si lanciano all’attacco del connubio democristiano-socialista in difesa dell’economia di mercato. Gentile, in particolare, dichiara che, pur non guardando certo con favore all’espansione delle imprese monopolistiche, ritiene «il monopolio privato di gran lunga preferibile a quello pubblico», principalmente per ragioni «politiche»:
I monopoli pubblici in Italia sono, a parte la gestione antieconomica, fonti dei peggiori abusi, soprattutto perché in Italia lo Stato viene confuso col governo, il governo viene confuso col partito o coi partiti di maggioranza, e il partito viene addirittura identificato nella corrente prevalente. Dato questo costume diventa estremamente difficile che non si verifichino gravi e deplorevoli inquinazioni partitocratiche nei tessuti democratici dello Stato. Presidenti, amministratori, dirigenti vengono nominati dal potere politico quasi sempre non per i loro meriti, ma per le loro tessere politiche. Si instaura così un regime di favoriti che non offrono nessuna garanzia di competenza e di capacità. Inoltre questi «grands commis», in quanto debbono ai politici la loro permanenza in carica, sono necessariamente docili strumenti dei politici stessi, i quali dettano indirizzi, suggeriscono decisioni, raccomandano persone a loro grate, intervengono di autorità nei casi più gravi, preoccupati unicamente di fare gli interessi del partito [Gentile (1961) 1968, pp. 5-6].
La dilatazione della sfera pubblica, con gli inevitabili corollari di inefficienza e corruzione verrà poi denunciata negli anni successivi, tra gli altri, dall’economista torinese Sergio Ricossa che contribuì con le sue opere a fondare teoreticamente l’opposizione liberista e libertaria allo statalismo, tenendo contemporaneamente un’intensa attività pubblicistica volta a risvegliare i ben tiepidi sentimenti liberali degli italiani.
Negli anni Ottanta, mentre in Inghilterra e in America la grande stagione di Thatcher e Reagan sviluppava un attacco concentrico alla filosofia dello statalismo, nel nostro Paese l’ascesa alle segreterie del Pli e del Psi di Valerio Zanone e Bettino Craxi comportò l’avvio di un dialogo definito poi con l’etichetta di lib-lab, mirato a introdurre nella sinistra riformista italiana semi di liberalismo. Da questo dialogo iniziò un rinnovato interesse per il liberalismo sociale e il ripensamento di alcuni tra i pilastri portanti del sistema di Welfare State, ma sempre in un’ottica statalista, anche se di uno statalismo moderato dai guasti dell’esperienza.
Bibliografia
Sinistrismo economico, «Il Giornale d’Italia», 24 marzo 1955.