Unione nazionale delle forze liberali e democratiche
di Elio d’Auria
Il partito fu ufficialmente fondato l’8 novembre del 1924 con lo scopo di chiamare a raccolta tutte le forze liberali e democratiche che si riconoscevano nell’obiettivo comune di salvaguardare i principi di libertà e di democrazia violati dal fascismo e coagulare in un’unica formazione uomini e gruppi disorientati e dispersi di fronte alla violenza di stato e all’illegalità delle squadre acuitesi nei mesi successivi al delitto Matteotti. Nel manifesto costitutivo dell’Unione nazionale delle forze liberali e democratiche si dichiarava che la nuova formazione «non intende assumere, fin da ora, le caratteristiche rigide di un partito. Essa si propone di riunire, con un vincolo di operosa solidarietà, in vista del presente e dell’avvenire, elementi e forze politiche che appartengono alle varie gradazioni del liberalismo democratico e della democrazia organizzata, oppure che non intervennero nella lotta politica finché non vi sono stati chiamati da un alto dovere civile». Giovanni Amendola, che ne era il fondatore e il capo, aveva in tal modo inteso dar vita a un partito nuovo che, nelle particolari circostanze di quella lotta politica, riaffermasse in maniera più decisa, in un momento così delicato per il paese, i principi e le libertà statutarie così apertamente violate.
Si trattava di una formazione assolutamente originale nella realtà politica italiana del tempo che si potrebbe accostare a una qualche forma temporanea di «partito aperto» nel tentativo di consentire alle varie gradazioni del liberalismo e della democrazia di riconoscersi in un programma comune di lotta al fascismo. In realtà, le motivazioni ideali di una simile scelta andavano ben oltre le ragioni contingenti della lotta per la sopravvivenza che le forze liberal-democratiche antifasciste combattevano in quei mesi; anche se non è da sottovalutare il fatto che a far uscire Amendola dall’indecisione di rompere con la tradizione del personalismo che caratterizzava i raggruppamenti liberali e spingere in direzione di un partito nuovo, moderno, organizzato in sezioni, insomma un vero partito di massa, furono le circostanze in cui si svolsero le elezioni del 6 aprile 1924 allorché tutte le forze liberali di opposizione, come le disperse associazioni costituzionali e le varie unioni democratiche che costellavano il panorama politico italiano del tempo, si trovarono accomunate in un unico obiettivo. Al contrario, Amendola era giunto per gradi a maturare l’idea di giocare la partita in prima persona non senza aver sperimentato una serie di fallimenti alla cui base vi era il tentativo di rinnovare le istituzioni liberali – uno di questi fu quello fatto nel novembre del 1921 di fondere insieme i gruppi parlamentari della Democrazia Liberale e della Democrazia Sociale per dar vita a un unico gruppo democratico espressione di un largo schieramento di forze intermedie –, oltre la certezza di doversi preparare ad accettare la sfida lanciata dai partiti di massa ormai determinanti sulla scena politica italiana del dopoguerra. Ma soprattutto risultò decisiva l’idea della necessità di dar vita a una nuova classe dirigente capace di imprimere una forte spinta verso il rinnovamento della società italiana scossa da una profonda crisi morale, crisi di energie e di valori, crisi di fiducia nelle istituzioni. Da ciò nasceva la certezza che la democrazia liberale si trovava a un bivio: rinnovarsi o perire, «realizzarsi completamente nello spirito, nelle istituzioni, nella economia e nella cultura dell’Italia nata dalla guerra, o cedere la direzione dello Stato ad altre concezioni politiche, ad altri metodi, ad altri uomini». Che era un modo per richiamare il liberalismo italiano alle sue responsabilità col prendere le distanze dalla vecchia classe dirigente pronta a cedere a ogni sorta di compromesso, com’era avvenuto col tentativo di costituzionalizzare il fascismo; che era, in pari tempo, un modo per riaffermare la fiducia in un ideale politico che affondava le sue radici nella tradizione unitaria del Risorgimento e che per riconquistare il ruolo perduto doveva slargare i propri orizzonti sociali e politici con il rivolgersi, per convogliarli lungo una via di consolidamento di conquiste democratiche, a ceti e classi nuove intorno a cui si sarebbe giocato il futuro della società italiana. In quel concetto «né a destra né a sinistra; né col sindacato né col trust, ma come parte a sé e, in un certo senso, nell’interesse di tutti», Amendola indicava la via da battere per conquistare a posizioni antifasciste i ceti emergenti non ancora organizzati da élites sindacali e politiche come la base di manovra necessaria per riuscire nell’intento di rafforzare lo Stato liberale, inteso, non come Stato di parte, ma come «la casa di tutti» e più ancora come il «supremo moderatore delle forze sociali». Fu da queste premesse che prese le mosse il tentativo di modernizzazione della classe politica che nella pratica della lotta passava necessariamente attraverso la fondazione di un partito che si facesse portavoce delle aspirazioni sinceramente democratiche del liberalismo democratico proteso verso un’idea di Stato «capace di vivere ed operare come creazione del diritto e perciò come garante del diritto di tutti».
L’elemento più importante che concorse alla fondazione del partito fu la tornata elettorale dell’aprile 1924 allorché le forze liberal-democratiche di opposizione capeggiate da Amendola, nonostante le violenze e le sopraffazioni e la mancata rielezione di esponenti di primo piano come Bonomi in Lombardia, Cocco Ortu in Sardegna e Alessio in Veneto, ottennero un indubbio successo, specificatamente in Campania, dove la lista di «Opposizione costituzionale» risultò il secondo partito per numero di voti e di seggi dopo i fascisti. Il successo elettorale spinse il suo fondatore a tirare le fila di tutta una serie di contatti che si conclusero di lì a qualche mese con la costituzione dell’Unione Meridionale (20 maggio 1924), primo e più importante nucleo del futuro partito che avrà in pochi mesi una vasta diffusione nazionale, anche se risulterà sempre più forte nel Mezzogiorno e nelle isole. Ma l’aspetto più qualificante del partito era che Amendola con la sua fondazione intese impegnare il fascismo su un terreno nuovo consistente nel far piazza pulita dei vecchi partiti personali aggregandoli intorno a una formazione politica unitaria. E se fu il Mezzogiorno a essere lo spazio di manovra iniziale di questa operazione ciò fu dovuto al fatto che la società liberale meridionale, proprio perché espressione di quelle posizioni personali che rappresentavano delle autentiche «isole democratiche» portatrici di «un’organizzazione e di rapporti politici assai più salda ed assai più sana di quella che è rappresentata dalle tessere dei partiti cosiddetti di masse», aveva maggiormente resistito al fascismo. Da qui il suo rivolgersi alle vecchie associazioni costituzionali e alle unioni democratiche nel tentativo di riunirle intorno a un unico progetto. La comune matrice liberale, la reazione alla violenza, una visione legalitaria e progressiva della società italiana divennero tutti elementi aggreganti che andavano orientati verso un comune obiettivo. Questa prima forma di partito territoriale rappresentava, in un certo senso, una via obbligata perché offriva a molte associazioni provinciali e locali l’occasione di uscire dall’isolamento e riconoscersi in un progetto più ampio e più forte. L’altro aspetto era che esso non si limitava alla gestione dell’enorme potenziale politico a sua disposizione in un ambito territorialmente ristretto, bensì si prefiggeva di estendersi a tutto il paese.
Tuttavia non si comprenderebbe l’Unione nazionale e ciò che da esso nacque, cioè la Nuova Democrazia amendoliana, senza il delitto Matteotti e la secessione aventiniana. L’assassinio del leader dei socialisti unitari, infatti, rappresentò un forte elemento di coesione e fornì agli unionisti la forza di serrare le fila e superare gran parte delle divisioni interne per giungere in tempi brevi alla fondazione del partito nazionale. Tant’è vero che Amendola, nello sforzo di far confluire le unioni regionali nella più vasta Unione Nazionale, dovette superare non poche resistenze interne alla stessa Unione Meridionale. «L’Unione Nazionale e l’Unione Meridionale – scrisse il 30 luglio 1924 a un’esponente dell’organizzazione napoletana – sono la medesima cosa. Vale a dire che ciò che si fa da noi – e cioè l’organizzazione delle forze costituzionali d’opposizione – si cerca di far dappertutto in Italia, con la maggiore difficoltà e col maggior tempo che le chiarite condizioni richiedono». Furono di questi mesi, infatti, tutta una serie di contatti con i gruppi liberali e democratici diffusi nel resto del paese con particolare attenzione al nord d’Italia secondo una strategia organizzativa che, sulla scia di quanto era avvenuto in Campania, privilegiava il reclutamento di iscritti su base regionale. E ciò al fine di lasciare ai vari raggruppamenti locali una certa autonomia organizzativa che avrebbe permesso, almeno in un primo momento, attraverso una sorta di patto federato, di convogliare sotto un’unica bandiera le «disperse energie». Nei giorni a cavallo di metà agosto del 1924 si diffusero e ripresero vita in tutta Italia gruppi di opposizione liberal-democratica, la più importante delle quali risulterà essere l’Unione Democratica Romana, nella quale confluirono militanti dell’antica «Radicale» a cui si aggiunsero elementi di ex combattenti. Associazioni consimili sorsero in Sardegna intorno a Mario Berlinguer con la benedizione del vecchio Cocco Ortu, a Venezia intorno a Silvio Trentin, a Milano intorno a Giovanni Mira e Tommaso Gallarati Scotti, a Torino intorno a Luigi Salvatorelli, Luigi Einaudi e Piero Gobetti, a Bologna intorno a Mario Missiroli, a Genova intorno a Giovanni Ansaldo, a Firenze intorno a Guglielmo Ferrero, Piero Calamandrei e Guido Ferrando, mentre in Basilicata si costituiva una sezione del Partito lucano d’azione schierato su posizioni unioniste. Unioni s’intitolava l’articolo che Amendola scrisse su «Il Mondo» il 26 agosto del 1924 e con cui egli volle «consacrare il volenteroso e consapevole seppellimento di vecchie, sorpassate e rancide distinzioni di chiesuole». Era l’avvio dell’inserimento delle varie «unioni» regionali in un unico organismo completo di strutture locali differenziate e diffuse organizzate in sezioni.
Contemporaneamente Amendola aveva avviato contatti con la Democrazia Sociale e con gruppi dissidenti del Partito liberale, ma l’operazione si era dimostrata difficile perché soprattutto gli elementi centrifughi del liberalismo ufficiale, dopo il congresso di Livorno, avevano deciso di continuare a dare il loro appoggio al fascismo; lo stesso dicasi sia dei riformisti di Bonomi, che poi aveva finito peraderire all’«Unione», sia i demosociali di Colonna di Cesarò che si erano defilati per non perdere la leadership dei loro rispettivi raggruppamenti. La formula di «partito aperto» che al congresso costitutivo dell’Unione (8 novembre del 1924) Amendola aveva finito con l’adottare si giustificava anche alla luce di queste «defezioni» più o meno previste, in modo da consentire agli indecisi di maturare un atteggiamento di confluenza sulla base della situazione obiettiva che si era venuta a determinare nel paese. Amendola, insomma, si era convinto che sia i seguaci di Bonomi, sia quelli di Colonna di Cesarò, come pure alcune frange consistenti di liberali dissidenti del liberalismo ufficiale, finissero, in pratica, con l’aderire all’Unione Nazionale proprio in virtù del fatto che essa non si presentava ancora con le caratteristiche rigide di un partito, ma come una sorta di federazione in cui inizialmente a ognuno era dato conservare la propria identità. Il successo non era mancato e in varie parti del paese fasce consistenti di intellettuali e ceto medio non organizzato avevano aderito all’appello con la costituzione di un comitato centrale da cui si diramavano sezioni di partito regionali, provinciali e locali dotate di tutti gli organi di governo necessari a un partito moderno di massa.
Com’è noto le ultime settimane del dicembre del 1924 risultarono decisive per il futuro politico del paese. In queste circostanze l’Unione Nazionale funzionò da volano dell’imponente campagna di stampa che le opposizioni sferrarono contro il fascismo nel tentativo di scalzare Mussolini dal potere. Il 27 dicembre del 1924 «Il Mondo», il giornale di Amendola, pubblicò il «memoriale Rossi» con il quale Mussolini veniva indicato come il responsabile di quel clima di violenza entro cui era maturato il delitto Matteotti. Ma per tutta risposta, con la connivenza della monarchia, il 3 gennaio del 1925 Mussolini pronunciò alla Camera dei Deputati il famoso discorso che doveva segnare l’inizio della dittatura. La contemporanea forte limitazione della libertà di stampa che portò ai reiterati sequestri dei giornali di opposizione e la pratica abolizione della libertà di associazione e di riunione che mise i partiti nell’impossibilità di funzionare e di vivere, si rifletté anche sull’Unione Nazionale che, come per tutti gli altri partiti, fu progressivamente costretta, per tutto il 1925, a svolgere in pratica un’attività quasi clandestina. Tuttavia non si può valutare a pieno l’effettiva incidenza dell’Unione Nazionale senza tener presente l’Aventino e ciò che esso rappresentò nella lotta politica che le formazioni democratiche avevano ingaggiato contro il fascismo. La crisi che investì l’Aventino e le polemiche che in esso scoppiarono circa il problema del rientro in aula si rifletterono sull’Unione, nonostante Amendola si prodigasse in ogni sforzo per ricompattarne le forze per tutto l’inverno e la primavera e che culminò nel congresso che l’Unione tenne a Roma dal 14 al 16 giugno del 1925. Nasceva così la Grande Democrazia, che rappresentava quel partito politico dei ceti medi composto dagli strati della piccola e media borghesia intellettuale e imprenditoriale che costituzionalmente non facevamo parte di nessun partito, ma che erano sensibili ai richiami di ordine e stabilità in un quadro di dinamica democratica. Un grande partito di «centro» con base di massa in cui le masse «ammaestrate dall’esperienza alla necessaria disciplina e riconciliate con la patria e con lo stato» si collocavano in una posizione intermedia rispetto alle posizioni estreme della destra e della sinistra. Ma il partito della Grande Democrazia nasceva in un momento in cui la società italiana aveva già operato le sue scelte sostenendo il fascismo nella sua corsa verso la dittatura. Amendola continuò a tesserne le fila con abnegazione e coraggio pur sapendo che la partita era ormai perduta. Entrato definitivamente in crisi a seguito dell’aggressione mortale da lui subita nell’estate del 1925 e privo di una reale leadership fu definitivamente sciolto nell’autunno successivo.
Bibliografia
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