Costituzionalismo – 1848
di Francesco Bonini
Riuscì solo nel Regno di Sardegna, ma l’esperienza costituzionale della primavera 1848 merita oggi di essere riletta con particolare attenzione, da diversi punti di vista. Si determina infatti un circuito costituzionale (e parlamentare) di notevole rilievo. Si realizza una (brevissima) sperimentazione dell’intrigante formula di «Regni Uniti d’Italia» (l’espressione è di A.L. Bargnani e Mazzini ne denunciava l’intrinseca contraddizione), una (fugace) esperienza che vide «tutte le parti d’Italia rette dal medesimo diritto politico», sia pure entro diversi confini statuali, che venivano assolutamente mantenuti, ma in certa misura superati. Nella prima metà del 1848, si realizzano insomma le condizioni per sperimentare la suggestiva formula che un già maturo e affermato Bettino Ricasoli, ancora a metà ottobre, proponeva sulle prospettive possibili per articolare una «famiglia di Stati che insieme compongono una Nazione». Era la possibile via tedesca all’Unità d’Italia, cioè la via federale o confederale, che Jacini pure vedrà possibile fino a Villafranca, ma che in realtà si consuma già nell’anno 1848, quando l’esperienza costituzionale si restringe al Regno di Sardegna, che diventa meta dell’emigrazione italiana, aprendo all’«influenza egemonica del Piemonte sull’Italia».
Tuttavia nei quadri costituzionali e di conseguenza nei diversi parlamenti in cui si articola l’esperienza costituzionale del 1848, si sviluppa una prima «leva parlamentare» italiana, piuttosto omogenea nei suoi tratti essenziali, una parte significativa della quale si ritroverà nel Parlamento italiano del 1861. Che la stagione costituzionale italiana del primo Quarantotto faccia riferimento alla esperienza francese è un altro elemento incontrovertibile. Da diversi punti di vista. Il primo è relativo all’esperienza diretta che della Francia avevano fatto molti dei protagonisti: alcuni avevano iniziato le loro carriere nel periodo napoleonico, altri avevano soggiornato nella Francia di Luigi Filippo, acquisendone il modello liberal-moderato. Ma subito si innesta un elemento di complicazione e di contraddizione: è il secondo motivo di riflessione a proposito dell’influenza francese. Proprio nel momento in cui veniva acquisito infatti il modello viene travolto dalla rivoluzione parigina del febbraio, che porta alla Repubblica e alla Costituente.
Un ulteriore elemento di complicazione e contraddizione è l’intreccio tra la questione costituzionale e quella nazionale. Il movimento costituzionale infatti, prima di consolidarsi in forme preconfederali, come avrebbe potuto essere una unione doganale, si intreccia con la guerra all’Austria, che assume significati diversi nei diversi Stati. Tanto più che il primo Stato costituzionalizzato, il Regno delle Due Sicilie, già doveva scontare il conflitto con la Sicilia, che, dopo la «rivoluzione» siciliana del 12 gennaio, prima assoluta nell’«anno dei portenti», aveva di fatto proclamato la secessione e segue un proprio percorso costituente. Il precipitare della situazione europea, con le successive rivoluzioni e della guerra, che diventa problematica dopo l’allocuzione di Pio IX del 29 aprile e infausta con la battaglia di Custoza, combattuta il 22-27 luglio 1848, chiude la fase del costituzionalismo liberale, aprendo una seconda, confusa stagione costituente, a tinte più democratiche, che arriva fino ai tracolli del primo scorcio del 1849.
Gli Statuti
Ma andiamo con ordine, partendo proprio dal nesso francese, che risalta con evidenza già nel caso di Francesco Paolo Bozzelli (1786-1864) estensore, sotto l’attenta e personale supervisione di un re governante come Ferdinando II, delle basi (29 gennaio) e poi, da ministro dell’Interno, del testo dello Statuto, redatto in solitaria tra il 30 gennaio e l’8 febbraio 1848, primo degli octroi peninsulari. Aveva partecipato ai moti del 1820 e aveva trascorso (a Parigi) il lungo esilio successivo, fino al 1837. Si compie in questi passaggi la scelta di «tradurre» e adattare la Charte orléanista, piuttosto che riproporre la costituzione del 1820-’21, come pure i liberali napoletani (tra cui lo stesso Bozzelli) sostenevano. Certamente il modello francese offriva più garanzie al sovrano: da questo punto di vista infatti si scrive 1830, ma si intende la Charte del 1814. E questo è il cuore del costituzionalismo statutario, coerentemente a quella linea «antigiacobina» che percorre tutto il dibattito precostituzionale, nei diversi Stati peninsulari, dai libri di Gioberti (1843) e Balbo (1844) ai primi atti di Pio IX (eletto nel 1846) alle iniziative dei moderati toscani e ovviamente di quelli napoletani e siciliani. D’altro canto tanto Gioberti, che Balbo, già uditore al Consiglio di Stato napoleonico, avevano esperienza delle cose francesi. E condividevano con un altro attento protagonista del passaggio quarantottesco, Antonio Rosmini, un giudizio fortemente critico verso il giacobinismo. L’Italia avrebbe dovuto e potuto seguire una strada diversa, moderata e liberale, verso l’approdo costituzionale.
Questo movimento si connota per essere italiano, moderato ed europeo e si fonda proprio sull’incontro delle istanze di libertà con il lealismo al sovrano e alla religione cattolica. È il circuito che spiega il successo dall’itinerario costituzionale che segue il percorso da Napoli (11 febbraio) a Firenze (15 febbraio) a Torino (4 marzo) e finalmente a Roma (13 marzo). Fin dall’inizio la Sicilia, come si è visto, segue una diversa strada «costituente»: i risultati pratici comunque, in termini di elaborazione costituzionale e di sviluppo della rappresentanza non risultano sostanzialmente dissimili. L’orizzonte in ogni caso era quello di singoli regni, che tuttavia moltiplicano legami e orizzonti comuni: la leva politica è omogenea e le relazioni molteplici. Illustra sinteticamente il processo delle concessioni la formula utilizzata nello Statuto di Napoli: «temperata monarchia ereditaria costituzionale sotto forme rappresentative». È il primo articolo della costituzione, teso a definire il nuovo regime, per evoluzione delle monarchie restaurate. Questa della autodefinizione è una preoccupazione che non è presente né nei modelli francesi, né in quello belga, ma echeggia (e aggiorna) formule utilizzate nelle precedenti Carte napoletane, quella del 1820 (che è poi la mera traduzione della spagnola del 1812), all’articolo 1, e gli articoli 1 e 2 della mai entrata in vigore costituzione murattiana del 1815.
La formula è ribadita dall’articolo 2 dello statuto albertino, per cui «lo stato è retto da un governo monarchico rappresentativo». Precisa poi nel capoverso che «il trono è ereditario secondo la Legge salica», forse tradendo la recentissima e controversa successione dei Carignano al trono sabaudo, per cui si era resa necessaria una solenne sanzione del Congresso di Vienna. In ogni caso spicca, dello Statuto albertino, unico tra gli altri sinottici, la scelta di dedicare alle minute disposizioni che regolano il sovrano, la cui persona è – secondo i dettami francesi – «sacra e inviolabile», ben venti articoli (dal 4 al 24) cioè tutta la prima parte dello Statuto. Le altre carte, invece dedicano i primi articoli piuttosto all’affermazione dei diritti (e doveri) dei cittadini e all’articolazione del sistema rappresentativo, nel senso bicamerale. L’affermazione dell’eguaglianza di fronte alla legge e il catalogo dei diritti di libertà e di garanzie alla proprietà, secondo i cardini del liberalismo europeo, riprende in sostanza quello francese. Cruciale il tema della libertà di stampa, fondamentale garanzia di un nuovo ordine prima che politico culturale, come pure la concessione e la istituzionalizzazione della guardia nazionale, considerata presidio delle libertà borghesi e della militante legittimazione delle istituzioni costituzionali. Non manca, nel catalogo dei diritti, qualche civetteria, come l’affermazione nello Statuto napoletano della garanzia della proprietà letteraria, art. 27, ripreso poi in quelli toscano e pontificio. Non manca neppure qualche ambiguità, come nella stessa Carta napoletana a proposito delle disposizioni sull’arresto, art. 24. L’octroi regio nonostante tutto mantiene un alone di doppiezza.
La questione della continuità e discontinuità con la precedente vicenda politico-costituzionale, senza rovesciamenti né moti di piazza, mantenendosi gli stessi sovrani, trova una formulazione in sostanza retorica, così come presentata nell’art. 42 dello Statuto napoletano, per cui «il passato rimane coperto di velo impenetrabile». Impenetrabile peraltro è anche l’atteggiamento dei diversi sovrani, non poco restii a giocare fino in fondo il gioco costituzionale, nel momento in cui le stesse classi dirigenti si trovavano a dovere prendere le misure del nuovo regime. Segno del rapido evolversi della situazione europea spicca nello Statuto albertino l’affermazione del diritto di riunione (art. 32), ripreso dalla costituzione belga, ma originale rispetto agli altri peninsulari e al modello francese. La costituzione belga tuttavia resta una fonte sostanzialmente accessoria, blandamente seguita (ad esempio a Napoli) a proposito di uno dei suoi aspetti più innovativi, le disposizione sull’articolazione provinciale e territoriale e l’affermazione dei relativi poteri. Ma su questo tema valgono le critiche liberali al municipalismo organicista, che si saldano con le tendenze accentratrici di eredità napoleonica.
La centralità del monarca comporta tre conseguenze istituzionali. L’attribuzione della titolarità del potere esecutivo al solo sovrano ne è la più patente evidenza. La responsabilità dei ministri, parimenti affermata, non implica alcuna concessione al sistema parlamentare: rappresenta piuttosto una ulteriore garanzia per il sovrano. Al sovrano è anche ricondotto l’ordine giudiziario, in quanto «la giustizia emana dal re», ai sensi ad esempio della costituzione napoletana. Infine il sovrano partecipa al potere legislativo, in un circuito che contempla la scelta per il sistema bicamerale, ricalcato su quello francese, a ulteriore garanzia del potere regio. La camera «alta», variamente denominata («dè Pari» a Napoli, «Alto consiglio» a Roma e «Senato» a Firenze e Torino) in quanto istituzione, materializza, nel quadro del sistema rappresentativo, un principio di coesione di classe dirigente. I suoi componenti – vitalizi – sono scelti dal sovrano. Lo statuto pontificio costituzionalizza anche il concistoro, stabilendo che «Il S. collegio dei cardinali, elettori del Sommo Pontefice, è il Senato inseparabile del medesimo». In tutti i diversi contesti di fatto il senato è inteso come un «organo della monarchia, per assicurare e illuminare il potere monarchico». Materializza un’aristocrazia di servizio, di cui fa parte l’aristocrazia di sangue, anche se proprio di questa manifesta il definitivo superamento in un più dilatato concetto di notabilità borghese.
I quattro statuti italiani, sempre riferendosi allo schema orléanista, percorrono due strade. I due stati maggiori, Napoli e Sardegna enumerano puntualmente le categorie entro cui il sovrano effettua la scelta dei senatori, i due minori, Toscana e Stato della Chiesa, scelgono formulazioni sintetiche e dunque più elastiche. Di fatto però, con minori o maggiori accentuazioni, il panorama della nuova aristocrazia-notabilità è abbastanza omogeneo e ricalcato su quello francese. Indicativa è anche la priorità nell’elencazione, che a Napoli è tenuta dai titolari di rendita, a Torino dagli «arcivescovi e vescovi dello Stato». Questa – insieme ai seggi riservati ai «principi di sangue» – è l’unica categoria, ripetuta in tutti gli Statuti, sia pure con diverse formulazioni, nuova e specifica introdotta nei diversi Statuti italiani rispetto al modello francese. E questo ci dice chiaramente del progetto di sviluppo graduale che accomuna tutto il passaggio. Lo confermano anche le scelte relative alle Camere dei deputati, elette con suffragio censitario, corretto limitatamente con il criterio della capacità. Il crollo della monarchia di Luglio in Francia e l’affermazione rivoluzionaria del principio del suffragio universale (maschile) consiglia gli estensori dello Statuto albertino a non costituzionalizzare vincoli di censo per la Camera elettiva, né per l’elettorato attivo né per quello passivo, presenti invece in tutte le altre carte, anche sull’esempio belga. La legge elettorale sardo-piemontese tuttavia conferma una soglia censitaria, con correzione aperta ad alcune notabilità e professioni, che di fatto risulta compatibile con quella degli altri Stati peninsulari. La soglia di reddito trasversalmente richiesta è comunque inferiore a quella che costò il trono a Luigi Filippo, e simile a quella belga, riformata in basso proprio nel 1848. Ammettere al voto tra il 5 e l’8 per cento dei maschi adulti può essere considerato un risultato avanzato e compatibile con l’articolazione delle società dei diversi Stati. È evidente tuttavia che il tema del suffragio universale non può non porsi. In questo clima si spiega il considerevole abbassamento del censo introdotto con la nuova legge elettorale del 5 aprile a Napoli. I sistemi elettorali sono tutti di carattere maggioritario. Per utilizzare le circoscrizioni amministrative a Napoli si sceglie un sistema plurinominale, mentre negli altri Stati quello francese, prevedendo collegi uninominali. Tutti i sistemi prevedono comunque il ballottaggio eventuale o addirittura, in Toscana la possibilità di un triplo turno. In ogni caso viene esclusa qualsiasi forma di rappresentanza «organica», come i sistemi indiretti a base comunale o provinciale. La rappresentanza diretta è uno dei cardini dell’affermazione anche politica del liberalismo borghese. Le modalità di voto tradiscono invece il carattere organico del suffragio. I ballottaggi seguivano di due o tre giorni la prima votazione e il collegio si organizza come assemblea elettorale, senza particolari garanzie per la segretezza delle operazioni.
Dopo elezioni di fatto scarsamente partecipate – secondo un trend che si manterrà costante in Italia per tutto il periodo liberale – i parlamenti si riuniscono. E non è senza significato che questa essenziale applicazione degli Statuti segua un percorso quasi speculare alla concessione. Si riparte infatti da Torino (riunione l’8 maggio – eletto il 27 aprile) – Roma (5 giugno – eletto il 18-20 maggio) – Firenze (26 giugno – eletto il 14 giugno) per approdare finalmente a Napoli, ove il Parlamento, convocato per il 15 maggio, viene immediatamente sciolto e si riunirà solo il 1 luglio. Emerge così la caratteristica del costituzionalismo italiano del 1848: si tratta di una esperienza concentrata e breve, preparata da una ristretta, ma assai qualificata opinione politica, soverchiata, nell’immediato, dalle emergenze prima di tutto militari, e destinata, dopo essersi ristretta al Regno di Sardegna, a dare frutti sul medio e lungo periodo, imperniandosi sull’azione politica di una classe dirigente a propulsione aristocratico-borghese ristretta e illuminata, che si auto-rappresentava colta, onesta, progressista e rigorosa. Non a caso tutti i Presidenti del Consiglio che si succedono in Italia fino ai primi anni Novanta, provengono da quel crogiolo quarantottesco e dai diversi parlamenti italiani in cui si era estrinsecato.
Oltre gli Statuti
La convocazione dei parlamenti, come si vede a Napoli, con la tragica giornata del 15 maggio, si intreccia con la questione della riforma degli Statuti medesimi. Quello di Napoli anzi proprio dalla legge elettorale del 3 aprile è di fatto modificato in due punti qualificanti, l’abbassamento del censo e la nomina dei senatori, cinquanta dei quali sono ormai scelti dal sovrano su terne elette. Lo «svolgimento», così come si cominciava a dire a Torino, sulle stesse pagine del giornale di Cavour, «Il Risorgimento», è reclamato dagli sviluppi delle rivoluzioni di Parigi e di Vienna. Si apre così in prospettiva una frattura tra l’elemento dinastico e quello rappresentativo, nel cuore stesso della forma di governo. Si pone infatti nuovamente il problema costituente, quando nemmeno si era fatta esperienza delle nuove istituzioni costituzionali. Nella formula del plebiscito sottoposto l’8 giugno, a un mese dall’inaugurazione del Parlamento sardo, alle province lombarde per l’annessione al Regno di Sardegna, si prevede la convocazione di una Assemblea costituente «la quale discuta e stabilisca le basi e le forme di una nuova monarchia costituzionale colla dinastia di Savoia». «Nuova» dopo soli tre mesi dallo Statuto: questa apparente contraddizione dà la misura della radicale accelerazione degli avvenimenti.
Il richiamo della Costituente diventa sempre più incalzante e drammatico dalle vicende militari e dal ritorno dell’influenza austriaca. Assemblee costituenti saranno effettivamente insediate a Roma (dicembre 1848) e in Toscana (marzo 1849). La prima, animata da Giuseppe Mazzini, produrrà una costituzione il 13 luglio 1849, alla vigilia della sua caduta. Continua il gioco di specchi con il percorso francese. Infatti la Repubblica romana è repressa dalle truppe della Repubblica francese, alla cui presidenza si trovava, eletto a suffragio universale il 10 dicembre 1848, Luigi Napoleone Bonaparte. Il doppio riferimento francese chiude così il cerchio del 1848 italiano ed europeo e ne illustra drammi e contraddizioni. Di fatto proprio le vicende della fine del 1848 e dei primi mesi del 1849, con la stagione «costituente» e la successiva restaurazione mostrano come gli Statuti ottriati del costituzionalismo liberale avessero una intrinseca validità e fossero «corrispondenti nel fatto alle civili esigenze dei popoli che deve governare», corrispondessero alle realtà politiche e sociali degli Stati regionali, insomma fossero, come risultava quello napoletano «conforme ai tempi nostri, al grado di incivilimento dei popoli», come ricorda Alfonso Scirocco, citando le considerazioni di Giuseppe Massari. Deputato al Parlamento napoletano, Massari sarà poi costretto all’esilio a Torino, dove diventerà uno dei collaboratori di Camillo di Cavour, poi relatore sulla controversa e tragica questione del brigantaggio. È il cammino, il destino geopolitico del costituzionalismo del 1848, ristretto appunto a Torino e di qui riportato, con contenuti simili, ma con un contesto del tutto diverso, nel resto di un’Italia «piemontesizzata».
Il primo costituzionalismo del 1848 rappresenta un punto di compromesso in una società in cui era ancora debole il ruolo di classe dirigente della borghesia e le esigenze dell’opinione pubblica stentavano a trovare espressione consapevole nei movimenti politici. Lo Statuto albertino, già nel primo decennio di applicazione, si incaricherà di dimostrare le molteplici virtualità di sviluppo di un sistema costituzionale formalmente rigido, di fatto elastico. La lettera dello Statuto viene contraddetta da diverse leggi, prima fra tutte quella, redatta da Federigo Sclopis di Salerano, già autore del proemio dello Statuto, che introduceva il tricolore, senza che per questo si produca alcuna modifica formale. Lo stesso si può dire a proposito delle politiche di secolarizzazione e di alienazione dell’asse ecclesiastico. La legislazione di attuazione disegna il quadro di istituzioni moderne, ricalcate sempre su quelle franco-belghe. Contemporaneamente, il sistema politico evolve sotto la leadership del conte di Cavour. Ma il sistema resta orleanista, nella sua ragione profonda, e in tutti i passaggi fondamentali del suo Regno: dall’editto di Moncalieri (1849), con cui chiude il movimento a sinistra dell’elettorato, a Villafranca (1859), quando afferma la sua decisione per l’armistizio contro Cavour, fino alla sua scomparsa, nel 1878, il re Vittorio Emanuele, che nel 1861 aveva rivendicato di mantenere l’ordinale secondo, continua a giocare un ruolo-chiave. Esprime così quel senso di continuità e di rottura che ha caratterizzato il fecondo costituzionalismo liberale del 1848 con i suoi Statuti, le sue contraddizioni e le sue conquiste.
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